lunedì 25 maggio 2009

Marchionne non è il salvatore e serve una vertenza europea per difendere il lavoro


La contestazione dello Slai Cobas è stata assurdamente amplificata dai media ma si è rivelata un boomerang per i lavoratori
di Franco Turigliatto

La manifestazione nazionale della Fiat è stata una prima parziale, ma importantissima risposta dei lavoratori per difendersi dai processi di ristrutturazione in corso nella multinazionale dell'auto; processi di cui si intuisce la dimensione strutturale, ma non ancora tutte le scelte definitive e concrete, compresa la localizzazione dei diversi interventi.
Non era facile dopo mesi di cassa integrazione, di redditi sempre più ridotti, e in un contesto di crisi che attanaglia centinaia di fabbriche, con lotte sparse e isolate, senza che finora sia apparsa una proposta di lotta e di riunificazione del movimento, scendere in migliaia per le strade e tornare ad essere protagonisti. Non a caso, soprattutto a Torino i dubbi sulla dimensione della partecipazione nei giorni precedenti erano forti: proprio per questo i militanti sindacali della sinistra avevano moltiplicato gli sforzi e le iniziative di coinvolgimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il quadro generale è molto chiaro: esiste una enorme capacità produttiva delle case di automobili (si possono produrre più di 90 milioni di autoveicoli ogni anno, di fronte a prospettive di vendita che oscillano intorno alla metà o al massimo a due terzi) dentro il contesto di una crisi economica che è destinata a prolungarsi nel tempo e che incrocia un'altra crisi che ha un impatto immediato su questo settore di produzione, cioè la crisi ambientale.
La crisi di sovraproduzione del sistema capitalista in questo comparto industriale è dunque macroscopica.
Il problema di Marchionne e dei suoi consimili è relativamente semplice nei suoi elementi costitutivi: deve cercare di sopravvivere operando una forte ristrutturazione, accorpando o accorpandosi con altre case, riducendo gli stabilimenti (possibilmente con la scomparsa di qualche concorrente). Deve quindi liberarsi di una parte dei lavoratori, facendo lavorare a ritmi più intensi quelli che rimangono; esattamente quello che ha imposto ai lavoratori della Crysler negli USA prendendoli per la gola con il sostegno della Casa Bianca. Gli obbiettivi sono: aumentare ancora la produttività, guadagnare quote di mercato e quindi garantire profitti e dividendi più alti agli azionisti.
Naturalmente la Fiat non è una azienda che possa acquistare strutture assai più grandi di essa, ma, nel quadro di una grave crisi al limite della bancarotta di alcune di queste e sfruttando alcuni suoi segmenti tecnologici e settori di produzione, può sperare di giocare un ruolo importante, di diventare parte di una struttura assai più grande, con la famiglia Agnelli che disporrebbe di una quota significativa, se pur assai minoritaria di un nuovo colosso mondiale dell'auto; e Marchionne sul piano personale può sperare di giocare un ruolo di primo piano.
A salvare la Chrysler, non sono stati Marchionne e la Fiat che non hanno messo un soldo; chi ha messo i miliardi sono stati il governo americano prima di tutto, le banche creditrici e i poveri operai e sindacati che hanno accettato una drastica riduzione del salario, del diritto di sciopero, delle pensioni e che rischiano ancora di più per il futuro essendo entrati in un pacchetto azionario, il cui valore è per lo meno dubbio.
Ora Marchionne ci prova con la Opel, sperando anche in questo caso di fare acquisti, giocando alla grande, senza metterci un soldo, ma puntando anche in questo caso sull'intervento del governo tedesco intenzionato a salvare questa azienda.
In questa situazione la partita decisiva tra padroni e lavoratori si gioca intorno alla contrapposizione tra unità e divisione. L'arma micidiale che viene ovviamente usata dai padroni è la divisione degli operai tra uno stabilimento e l'altro, di puntare sulle frontiere nazionali e sulla mancanza di una solidarietà che superi queste barriere per far credere che il nemico o per lo meno il concorrente da battere siano gli operai, polacchi, o quelli tedeschi. o anche che gli avversari siano direttamente in casa: meglio che affoghino gli operai di Termini Imerese o quelli di Pomigliano piuttosto che quelli di Torino. Naturalmente il ragionamento “speriamo che io me la cavo” porta direttamente alla catastrofe di tutti. Per questo non può essere sottovalutata la giornata del 16 a Torino.
La Fiat inoltre si ritiene infatti abbastanza forte per cercare di fare tutto quello che vuole: per esempio, far lavorare su due turni il sabato qualche limitato settore di lavoratori, tenendone in cassa integrazione per lunghe settimane migliaia di altri; di introdurre provocatoriamente ritmi e carichi di lavoro più intensi, contro cui in questi giorni hanno scioperato alcuni reparti di Mirafiori.
Marchionne ha potuto agire indisturbato per molto tempo con l'aiuto e il plauso dei media e il sostegno di quasi tutto lo schieramento politico, presentato come il salvatore della Patria, colui che tiene alto il prestigio dell'Italia nel mondo, il Davide che si prende la rivincita di fronte ai Golia americani.
Non c'è dubbio che le reazioni sindacali sono state non solo tardive, ma anche inadeguate, l'incontro con i sindacati tedeschi è avvenuto assai in ritardo, né sembra essere emersa una vera posizione comune e tanto meno iniziative concrete comuni. Per comprendere tutte le difficoltà della partita, alle incapacità o non volontà di reazione di alcune organizzazioni sindacali si aggiunge lo stato della lotta di classe, cioè la condizione politica dei lavoratori, assai disorientati e stressati dalle condizioni materiali e dalle incertezze delle prospettive.
Tuttavia col passare dei giorni, con la lettura degli avvenimenti sul giornali, con l'iniziativa dei militanti sindacali più coscienti è cresciuta sia al Sud che al Nord la consapevolezza dei rischi estremi che si corrono e della necessità di una risposta forte e unitaria dei lavoratori. Al Sud, dove tutti percepiscono i margini ridottissimi di sopravvivenza è montata una rabbia forte con la volontà di vendere cara la pelle. A Mirafiori la consapevolezza della posta in gioco si è manifestata nella partecipazione alle assemblee e nel rigetto degli straordinari.
Di qui la riuscita della manifestazione nazionale e la volontà di reggere la sfida con Marchionne, con lo strumento dell'unità espressa nel vecchio slogan, ma sempre valido “Nord Sud uniti nella lotta”
La manifestazione ha dunque messo in luce:
questa volontà unitaria e la ricerca di risposte comuni;
la forte determinazione degli operai del sud,
un certo impatto sulla pubblica opinione,
un rapporto abbastanza aperto tra le varie appartenenze sindacali, in particolare tra settori della Fiom e i lavoratori del SDL, assai presenti nella manifestazione. Stiamo cioè parlando dei settori di sinistra delle organizzazioni sindacali.

Altri due elementi emergevano nel corso della manifestazione che sintetizzavano ulteriormente il quadro generale in cui si svolge la lotta di classe nel nostro paese.
La foltissima e anche ridicola presenza dei cosiddetti politici, piazzatisi in testa al corteo, non si sa per quale grazia ricevuta, tra i quali moltissimi falsi amici e qualche amico non particolarmente con le carte in regola per essere credibile.
Ma il secondo elemento è ben più importante ed era l'interrogativo presente nella manifestazione: come si va avanti? cosa vogliono fare i dirigenti sindacali? quale impegno per costruire una vera lotta fino in fondo? Una parte di questi dirigenti sindacali poche settimane fa ha firmato un accordo con governo e padroni che riduce il movimento sindacale a complice dello sfruttamento dei lavoratori. La FIOM, sa bene quale sia la posta in gioco e non c'è dubbio che voglia costruire una vera risposta, ma sappiamo anche quali siano i condizionamenti interni alla CGIL ed esterni, e soprattutto quali siano le difficoltà obbiettive. Deve essere tuttavia chiaro a tutti che senza il ruolo e l'impegno della più forte organizzazione sindacale dei metalmeccanici, il cui segretario ha ribadito più volte la determinazione a non far chiudere nessun stabilimento, la partita vera non comincia nemmeno.
La conclusione del corteo, con la scelta dello Slaicobas (che nel corteo si era caratterizzato con discutibili slogans contrappositivi segnatamente verso la Fiom), di affermare avanti a tutto la sua presenza, per recuperare un ruolo a prescindere dal quadro complessivo (c'è da interrogarsi su quale sia la valutazione che questi compagni danno dello stato della lotta di classe in questo periodo),producendo un conflitto che non era certo di chiarificazione politica, quanto di introdurre nuove divisioni, ha complicato ulteriormente il quadro e ci consegna una situazione con ulteriori elementi di difficoltà.
In ordine sparso:
Marchionne paga un prezzo inferiore e mantiene maggiori margini di azione rispetto ai sindacati e ai lavoratori;
si sono prodotte divisioni che complicano l'organizzazione delle mobilitazioni future, reazioni di automatismo settario tra i militanti sindacali, di semplificazioni politiche, la moltiplicazione di veleni attivati da tutti coloro che puntano sulla passività e divisione dei lavoratori, a partire dagli stessi apparati sindacali.
Poi naturalmente l'utilizzo che dei fatti hanno fatto i mass media, alcuni dei quali non hanno avuto paura del ridicolo tirando fuori il “pericolo delle brigate rosse”, le forze borghesi, le destre e gli esponenti del centro sinistra, tutti elementi che erano facilmente prevedibili e che dovrebbero essere tenuti in considerazione soprattutto da coloro che pensano di essere gli alfieri della lotta di classe.
L'aspetto negativo della vicenda e delle sue ripercussioni si può cogliere anche in relazione a quanto avvenuto il giorno prima, con la ottima riuscita della assemblea nazionale della Rete 28 aprile, dove non solo c'è stata una interlocuzione tra le diverse aree della sinistre in CGIL, ma dove gli esponenti della Rete hanno voluto riaffermare la volontà e la necessità di costruire un rapporto unitario coi sindacati di base.
Meglio dunque non costruire ulteriori difficoltà, non irrecuperabili, ma che rendono ancor più faticoso il cammino per impedire che padroni facciano alla Fiat quanto è stato fatto all'Alitalia.
Meglio anche tenere presente che quando si fa una manifestazione in cui i soggetti organizzatori e partecipanti sono tanti, non è che solo alcune sigle abbiano diritto di parola. Nel caso concreto se c'era una forza che per la presenza in piazza e la rappresentatività di varie fabbriche avrebbe avuto pieno diritto di intervento, è l'SdL.
Come andare avanti? Vediamo due ordini di problemi.
Il primo è il problema dell'unità delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, ma la partita della Fiat e più in generale la partita dell'auto si gioca a livello europeo e su scala internazionale; la sola unità in Italia non è sufficiente, perché può essere innestata la contrapposizione nazionalista, l'appiattimento sui propri governi, tutte condizioni che darebbero ancora una volta la possibilità a Marchionne di manovrare. Oggi occorre costruire una iniziativa sindacale unitaria attraverso le frontiere; è venuto il tempo, è nelle necessità obbiettive imprescindibili; le sinistre sindacali devono farsene carico, devono impegnarsi a fondo per costruire le interlocuzioni necessarie, ben sapendo che oltre frontiera ci sono le stesse remore e gli stessi limiti di orientamento.
Serve effettivamente una vertenza europea dell'auto, una azione unitaria per impedire che la grande ristrutturazione travolga uno dei punti di forza del movimento operaio europeo, in altri termini che la crisi la paghino fino in fondo i lavoratori e sia usata per una modifica radicale dei rapporti di forza e della stessa struttura sindacale del movimento operaio europeo.
Ma la questione della vertenza tira in ballo la piattaforma rivendicativa e gli obbiettivi su cui è possibile difendere il lavoro e l'occupazione.
La piattaforma dei sindacati italiani: conquista del tavolo di trattativa, piano industriale e difesa di tutti gli stabilimenti sono rivendicazioni inadeguate, non perché questi tre elementi non siano giusti, ma perché non sono in alcun modo sufficienti per reggere la sfida della crisi di sovraproduzione.
Mantenendo solo quegli obbiettivi si può già immaginare che si andrà a un certo punto nella stretta dell'imbuto; i padroni infatti non potranno mantenere gli stessi livelli di produzione del passato, diranno che non si possono vendere tante macchine, neanche se una parte di queste diventano “ecologiche” e quindi inevitabilmente si comincerà a discutere di quale sacrifici fare, di quanta manodopera ridurre, di quali stabilimenti chiudere, si discuterà di ammortizzatori sociali, governi e enti locali saranno chiamati a intervenire su questo terreno, ecc. ecc. un film già visto. A pagare sarà quindi il lavoro e non i profitti
Se i padroni pensano di risolvere il problema della sovraproduzione, facendo scomparire qualche concorrente, riducendo drasticamente il numero dei lavoratori, diminuendo la produzione, ma aumentando la produttività, e i profitti, l'obbiettivo dei lavoratori deve essere opposto.
Tenere tutti al lavoro, ridurre le produzioni, riconvertirne alcune, ridurre i profitti, in altri termini lottare perché nel settore auto ci sia una riduzione dell'orario a 35 ore o anche a 32 a parità di salario.
Far pagare quindi i padroni e non il lavoro.
Non è data una terza soluzione.
Sono passati in Italia 40 anni dall'ultima significativa riduzione di orario. La produttività è fortemente aumentata e ristrutturazione dopo ristrutturazione il movimento dei lavoratori ha conosciuto arretramenti e sconfitte; il fatto che la battaglia di Rifondazione negli anni '90 per la riduzione dell'orario, mal condotta, sia finita male, non significa che il movimento sindacale e dei lavoratori non debba riappropirarsene e farla diventare la battaglia del Piave, la battaglia per imporre che la crisi la paghi chi la prodotta, i sistema capitalista e i padroni.

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