domenica 22 febbraio 2009

ADESSO BASTA! NOI NON ABBIAMO PAURA!

Appello per la costruzione di uno spezzone di movimento all’interno della manifestazione cittadina contro la violenza maschile sulle donne di sabato 7 marzo 2009.Scendiamo in piazza:- contro la violenza maschile sulle donne e sulle lesbiche, una violenza che è quotidiana e non una novità degli ultimi mesi;- contro la strumentalizzazione da parte delle istituzioni della violenza contro le donne per giustificare decretazioni d’urgenza (decreto anti-stupro) e leggi razziste (pacchetto sicurezza);
- contro il patto tra razzismo e sessismo: il vergognoso discorso costruito a livello mediatico sull’emergenza stupri alimenta un immaginario xenofobo verso gli immigrati (maschi) e sessista nei confronti di tutte le donne considerate soggetti deboli da proteggere e scortare;
- contro la militarizzazione, le ronde e i raid fascisti, strategie che rientrano in una logica di controllo del territorio marcatamente razzista e non hanno nulla a che fare con la prevenzione delle violenze maschili;- contro le ingerenze del vaticano e la violenza di stato, che recentemente hanno portato a dichiarare fecondabile una ragazza in coma da 17 anni mentre viene negata per legge la fecondazione assistita alle lesbiche, alle singole e alle conviventi;
- per denunciare che la violenza contro le donne non ha passaporto, avviene soprattutto fra le mura domestiche e per mano di mariti, parenti, fidanzati, ex o conoscenti;
- per l’autodifesa e l’autodeterminazione sui nostri corpi, sulla nostra sessualità e sulle nostre esistenze;
- per l’affermazione del protagonismo delle donne e delle lesbiche, che devono poter parlare in prima persona di sé e delle proprie vite rendendosi soggetti attivi in ogni ambito;- per aprire una riflessione sulla reale dimensione della violenza contro le donne che si esprime a più livelli: dalle relazioni interpersonali alla sessualità, dalla sfera economica e lavorativa alla precarietà di vita;- per ribadire che la violenza maschile è un fatto culturale trasversale e rappresenta uno strumento di controllo finalizzato ad impedire alle donne e alle lesbiche di liberarsi dai ruoli imposti dal sistema patriarcale di madri, mogli e oggetti del desiderio.
ADESSO BASTA! NOI NON ABBIAMO PAURA!
Vi invitiamo a partecipare alla riunione organizzativa di
Lunedì 23 febbraio ore 21via Santa Giulia 64
Sommosse in Torino dlfto@inventati.org

giovedì 19 febbraio 2009

Morire di governo, anche all'opposizione

di Salvatore Cannavò
Chi pensa che la crisi che ha colpito il Pd con la sconfitta in Sardegna e le dimissioni di Veltroni non interpelli e coinvolga anche la cosiddetta sinistra radicale si sbaglia. La crisi del Pd non è semplicemente il frutto di scelte e svolte operate nel medio periodo ma viene da lontano, da molto lontano. Per certi versi è l'ennesimo, disastroso, scivolone conseguente allo scioglimento del Pci e non è casuale che esploda solo pochi mesi dopo la scomparsa della sinistra comunista dal parlamento. Una crisi che interpella tutta la "famiglia" politica proveniente da Pci e che pone in termini davvero urgenti e drammatici la questione della ricostruzione della sinistra di classe.Che le dimissioni di Veltroni siano il fallimento annunciato di un progetto mai davvero avviato e organizzato sono in molti ormai a dirlo e a scriverlo. In realtà, dietro la nascita del Pd un disegno politico c'era ma è stato sconfitto. Il Pd è nato per il governo, cioè per essere il braccio operativo, sul versante illuminista e progressista, della borghesia italiana nella competizione internazionale. A rapporto da Confindustria non c'è andato solo Veltroni ma tutti i dirigenti ex Ds e ex Margherita: D'Alema come Fassino, Bersani come Rutelli. Solo che quel progetto ha perso, per ben due volte, la prova del governo, non è riuscito, cioè, a coagulare attorno a sé un blocco sociale, politico e culturale in grado di fare da contrappeso al progetto speculare, ma vincente, di Berlusconi e del suo "Popolo delle Libertà". La ragione è semplice: il progetto di Berlusconi è limpido e solare - un populismo liberista che parla al ventre molle e agli istinti bassi di un paese impoverito e incattivito. Quello del Pd allude a un compromesso sociale - "dinamico" nelle parole di Bertinotti - fuori dal tempo e dalle urgenze sociali. La crisi del governo Prodi, e poi la rovinosa sconfitta di aprile, lo hanno bollato definitivamente Ma a spazzarlo del tutto ci ha pensato il sopravvento della più grave crisi economica del dopoguerra che ha polverizzato la pretesa progressista del liberismo temperato che ha mosso l'Ulivo prima e il Pd poi. E oggi mentre anche i conservatori sono costretti a scoprire gli effetti benefici dell'intervento statale, i liberisti di sinistra sono rimasti al palo. Lo dimostra l'inconsistenza del programma economico veltroniano e il mutismo che il Pd ha scontato finora nel pieno di una crisi economica e sociale senza precedenti. I nodi sono venuti al pettine: nato per proporre una sponda politica a una borghesia in crisi di rappresentanza - dopo il crollo dei grandi partiti novecenteschi, Dc e Psi e in costanza dell'inaffidabilità berlusconiana - il progetto sognato da Occhetto già nel 1989 ha mostrato la propria stessa inaffidabilità e, allo stesso tempo, si è reciso i legami con l'unico blocco sociale di riferimento, il movimento operaio vecchio e nuovo. L'assenza della dirigenza democratica alle recenti manifestazioni della Cgil ha rappresentato il sintomo di questa impasse e ne ha accentuato le debolezze. Un partito che ha smesso di rappresentare gli interessi dei lavoratori, sia pure su un piano riformistico e compatibilistico, ma che non è riuscito a realizzare i favori del padronato. Come è costretto ad ammettere Massimo D'Alema quando dice che "ci vorrebbe un po' di socialismo" per affrontare la crisi ricordando però, allo stesso tempo, che il governo Prodi, con il cuneo fiscale, ha regalato ai padroni circa 7 miliardi l'anno "e quelli non hanno neanche detto grazie. Anzi, si sono alleati con Berlusconi".Il richiamo al governo Prodi serve a ricordare l'altro soggetto in crisi, la sinistra alternativa dei vari Bertinotti, Giordano, Diliberto, Ferrero e via dicendo, che nella vicenda di quell'esecutivo ha dimostrato quanto alto fosse ancora, dopo 17 anni di "rifondazione del comunismo" il proprio tasso di riformismo e di atteggiamento compromissorio. Mentre i cugini dei Ds, divenuti poi Pd, cercavano di svestire i panni del togliattismo vecchia maniera per indossare quelli del kennedismo, i dirigenti del Prc e del Pdci non hanno saputo fare di meglio che perpetuare una visione di "democrazia progressiva" che invece, nei conflitti indotti dalla violenza della globalizzazione, non aveva spazio alcuno. La crisi verticale e irrimediabile del governo Prodi lo ha dimostrato con esattezza. E oggi ci troviamo al punto più basso della storia repubblicana con una "sinistra" nel suo insieme muta, non-credibile, disastrata che avvolge nella sua crisi tutti noi e in particolare i lavoratori e le lavoratrici.Il nodo della ricostruzione è posto con nettezza. E a dover essere ricostruita non è soltanto una ma due sinistre: una sinistra di classe e anticapitalista - comunista, ecologista, femminista come noi la chiamiamo - ma anche una sinistra riformista di stampo socialdemocratico che non è la nostra prospettiva ma la cui affermazione, nella situazione data, costituirebbe un passo avanti. Questo compito non spetta a noi e non sappiamo se qualcuno vi si accingerà. Bertinotti ci spera quando parla della necessità di un "big bang" (facendo finta di non accorgersi che il big bang in realtà c'è già stato e lui ne è stato uno dei promotori), Bersani ci punta. Vedremo. A noi compete invece la ricostruzione di una sinistra di classe che provi a partire da un punto stabile e fermo: il capitalismo si combatte e non si governa. E non si governa perché è proprio la compromissione con esso ad aver prodotto guasti irreparabili. Chi vuole continuare a far finta di non vedere che se a Roma la destra ha vinto e si affermano ronde e rigurgiti fascisti è grazie all'eredità lasciata dal centrosinistra compresa Rifondazione? e che lo stesso avviene in altre parti d'Italia? Ovviamente questa acquisizione non basta ma è un punto di partenza per delimitare il campo delle forze che possono impegnarsi in una riflessione comune.

L'onda anomala. Alla ricerca dell'autopolitica


DAL 17 FEBBRAIO 2009 IN LIBRERIA
L'onda anomala. Alla ricerca dell'autopolitica, di AA. VV., 144 pg., 13,00 € con Dvd in omaggio.
Il movimento studentesco contro la Riforma Gelmini - "L'onda anomala" - è stato, in termini di partecipazione, il più grande nella storia italiana. Scoppiato in piena crisi economica ha contribuito a cambiare il clima politico del paese, controbilanciando i tentativi di egemonia culturale della destra resi possibili anche da una sinistra scompaginata e resa inerme dalle elezioni dell'aprile 2008.Il testo ne racconta gli sviluppi, le idee, le emozioni, le speranze e le frustrazioni, con interviste ai protagonisti, testimonianze dirette e pubblicazione dei documenti prodotti.I saggi di intellettuali, ricercatori e studenti provano infine ad analizzare le forti diversità dell'Onda rispetto a movimenti studenteschi del passato e le trasformazioni che l'Università ha subito dopo un decennio di riforme di Centrodestra e Centrosinistra. Diversità che riguardano innanzitutto gli studenti trasformati da futuri intellettuali a precari in formazione.
Gli autori:Cinzia Arruzza, Giulio Calella, Salvatore Cannavò, Daniele D'Ambra, Antonio Montefusco, Giorgio Sestili, Massimiliano Tomba, Giovanna Vertova.

lunedì 16 febbraio 2009

APPELLO AI MEDICI ED INFERMIERI

Appello a medici ed infermieri perchè non tradiscano il codice deontologico, seguano la loro coscienza e non si facciano intimidire dalle pressioni governative
Dal giuramento d’Ippocrate:Giuro di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell'esercizio della mia professione o in ragione del mio stato
Sinistra Critica esprime sdegno e preoccupazione per le conseguenze dell' approvazione dell’emendamento 39.306 presentato in sede di esame del DDL 733 all’Assemblea del Senato, volto a sopprimere il comma 5 dell’articolo 35 del Decreto Legislativo 286 del 1998 (Testo Unico sull’immigrazione) che sancisce il divieto di “segnalazione alle autorità”. Il suddetto comma 5 attualmente prevede che “l’accesso alle strutture sanitarie (sia ospedaliere, sia territoriali n.d.r.) da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano”.
Questa norma è presente nell’ordinamento italiano già dal 1995, attraverso l’art. 13, proposto da una vasta area della società civile, del decreto legge n. 489/95, più volte reiterato, voluto ed approvato dal centro destra . La “logica” della norma non è solo quella di “aiutare/curare l’immigrato irregolare”, ma anche quella di dare piena attuazione all’art. 32 della Costituzione, in base al quale la salute è tutelata dalle istituzioni in quanto riconosciuta come diritto pieno ed incondizionato della persona in sé, senza limitazioni di alcuna natura, comprese quelle derivanti dalla cittadinanza o dalla condizione giuridica dello straniero. Il rischio di denuncia contestuale alla prestazione sanitaria creerebbe nell’immigrato privo di permesso di soggiorno una reazione di paura e diffidenza tale da ostacolarne l’accesso alle strutture sanitarie. Questa infame manovra provocherebbe una pericolosa “marginalizzazione sanitaria” di una fetta della popolazione straniera immigrata, aumentando i fattori di rischio per la salute collettiva. L'obbligo di non segnalazione risulta quindi essere una garanzia per la tutela del diritto alla salute. Appare pertanto come una provocazione l’ipotesi di affidare alla libera scelta del personale sanitario se procedere o meno alla segnalazione dello straniero poiché ciò, in contrasto con il principio della certezza della norma, lascerebbe al mero arbitrio dei singoli l’applicazione di principi normativi di portata fondamentale.
Per le ragioni sopraesposte rivolgiamo un sentito appello affinché i sanitari di qualunque struttura del SSN, ed i medici in particolare, respingano i “suggerimenti” del citato emendamento all'art. 35 del Dlgs.286/98 e seguano il dettato del codice deontologico che impone il rispetto del rapporto fiduciario medico-paziente ,il diritto alla salute per tutti senza discriminazioni e che per tali motivi è da sempre uno stimolo per il progresso delle relazioni umane e sociali.

mercoledì 11 febbraio 2009

ENGLARO, SE LA POSTA IN GIOCO E' LA LIBERTA' DI TUTTE E TUTTI


14 FEBBRAIO IL NOVAT 2009L'occasione per una risposta laica, libera autodeterminata
Non è l'affondo contro la Costituzione portato da Berlusconi il punto saliente della vicenda Englaro. Il Pd ci si attacca con vigore semplicemente perché intende rimuovere l'oggetto reale dello scontro cioè il rapporto con il Vaticano, la reale libertà di autodeterminare il proprio corpo, soprattutto da parte delle donne, anche quando in gioco sono la vita e la morte.Lo sciacallaggio su Eluana Englaro, il linciaggio morale subito da suo padre, l'iniziativa reazionaria del governo - spalleggiata da settori rilevanti "dell'opposizione" - discendono da una concezione morale e politica che vuole impedire alla persona di decidere sul proprio corpo, soggetto a presunti "valori morali superiori" che, guarda caso, sono monopolizzati da un soggetto politico reazionario e pericoloso come il Vaticano. Il governo delle anime è cosa antica, il clero ha costruito su queste esercizio una fortuna politica, culturale e anche materiale. Oggi questo governo si sposa con le ambizioni culturali di una destra alle prese con la crisi del liberismo e che ha dunque bisogno di dotarsi di un surplus di identità culturale e di orizzonte morale. C'è anche questo nell'iniziativa di Berlusconi o nelle frasi apocalittiche di Sacconi che giudica l'iniziativa del governo un vero e proprio colpo "alla cultura del '68 cioè il nichilismo" (non sappiamo quale film abbia visto il ministro, in realtà). Il tentativo di dotarsi di un collante più solido e duraturo che non la vecchia vulgata dell'impresario che si è fatto da sé. E questa necessità ben si sposa con una Chiesa in crisi di vocazioni e di presa sulla società, crisi che il papato Ratzinger intende affrontare spostandosi ancora più a destra, ribadendo il valore assoluto delle scelte vaticane e aprendo uno scontro frontale con qualsiasi ambizione di libertà e di autodeterminazione, soprattutto quella femminile. Come non vedere il filo nero che lega il dominio rivendicato sul corpo di Eluana, e sulle scelte di suo padre, alla volontà di ristabilire il controllo sul corpo delle donne più in generale a partire dal diritto all'aborto.L'attacco è reazionario e concentrico, e non basterà la difesa della Costituzione per evitarlo. Serve innanzitutto riconoscerlo e agire di conseguenza. Per questo la manifestazione NoVat di sabato 14 è una scadenza utile e da rilanciare come una più generale campagna prolungata contro il Vaticano, contro la determinazione virulenta delle gerarchie di riprendere il controllo di una società plurale ed evoluta per un diritto fondamentale che pensavamo acquisito ma che, alle soglie del terzo millennio, è ancora una volta messo in discussione, la nostra libertà.
Berlusconi-Bonaparte al servizio del VaticanoCinismo, spregiudicatezza, "cattiveria" e tentazioni bonapartiste. Sono questi gli ingredienti che muovono il governo Berlusconi nella sua tetra strategia sul caso Englaro. Al di là delle lamentele sulla vita umana, di cui al governo non importa un fico secco, l'operazione decreto mostra una subordinazione straordinaria ai desiderata del Vaticano e un'occasione per dare un colpo al Quirinale in vista di nuovi, e più importanti, decreti o ddl che vedranno l'attenzione di Giorgio Napolitano. La sottomissione al Papa stavolta è tale che Berlusconi si trova costretto a mettersi contro la cosa che ama di più, i sondaggi. Una rilevazione Ipr Marketing-Repubblica dice infatti che il 61% degli italiani sta dalla parte del padre di Eluana, dalla parte del dolore e della vita umana, quella vera. Solo il 30% condivide il comportamento del governo. Berlusconi è costretto a ingoiare sapendo che OltreTevere ringrazieranno.E comunque punta a una spallata contro la Presidenza della Repubblica cercando di fiaccare possibili resistenze sui dossier che più stanno a cuore al presidente del Consiglio: giustizia e intercettazioni.Ma anche Costituzione. Con lo scontro messo in atto, infatti, Berlusconi punta a far "approvare" dall'opinione pubblica l'idea che il potere deve essere il più possibile accentrato e personalizzato manifestando la sua più classica concezione bonapartista della politica.Già in queste ore si sono verificate manifestazioni spontanee e Sinistra Critica le condivide a pieno. Sabato prossimo, però, c'è un appuntamento tradizionale, il NoVat Day, per la laicità e l'autodeterminazione che si presta perfettamente per far sentire la voce laica contro il Vaticano, l'integralismo, il sadismo della religione contro la libertà della vita. Un'occasione importante per dare una risposta di massa.

martedì 10 febbraio 2009

SCIOPERO GENERALE

SCIOPERO GENERALE
Partecipiamo alla manifestazione nazionale a Roma il 13/02/2009

Contro i padroni, le banche e i finanzieri di ogni genere che dopo aver precarizzato il lavoro, tagliato i salari, producendo una crisi economica di cui non si vede la fine, vogliono guadagnare ancora, impadronendosi dei soldi pubblici, licenziando e distruggendo i diritti residui dei lavoratori per sfruttarli ancora di più.

Contro un governo reazionario, clericale e cinico che regala miliardi ai padroni, che non tira fuori una lira per le lavoratrici e per i lavoratori, cercando anzi di contrapporli gli uni altri, che attacca ancora una volta i sacrosanto diritto alla pensione pubblica, che nega i diritti civili e prende a calci la costituzione per imporre un regime presidenziale ed autoritario per poter attaccare più a fondo la classe lavoratrice in tempi di crisi.

Contro l’accordo quadro che distrugge il contratto nazionale, taglia ulteriormente i salari, aumenta lo sfruttamento, ammazza la democrazia sindacale, trasforma il sindacato in uno strumento corporativo al servizio dell’azienda e dei padroni.

Per difendere il contratto nazionale di lavoro e un sindacato che sia strumento di lotta e di difesa degli interessi dei lavoratori.
Per l’occupazione e il lavoro, l’aumento dei salari e delle pensioni.
Per la sicurezza nei posti di lavoro.

Per l’unità di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori, dell’industria e del settore pubblico, italiani e migranti per combattere il comune nemico: il governo e padroni.

Per imporre il blocco dei licenziamenti, per la distribuzione del lavoro esistente, cioè per la riduzione di orario a parità di salario.

Per un intervento pubblico finalizzato a garantire salari e pensioni, a mantenere in vita gli stabilimenti e i posti di lavoro, a riconvertire alcune produzioni in funzione dell’ambiente e dei territori, non certo come vuole la Confindustria a garantire i loro profitti e rendite.
Per far pagare la crisi rovinosa del sistema capitalistico ai responsabili, a coloro che hanno accumulato enormi ricchezze sulle spalle della classe lavoratrice.

Per battere i disegni autoritari e presidenzialisti di Berlusconi e soci e difendere la democrazia, i diritti civili e democratici.

domenica 8 febbraio 2009

Dichiarazione dell'Assemblea dei Movimenti Sociali


Forum Sociale Mondiale di Belem – 1 febbraio 2009
NON PAGHEREMO LA CRISI, CHE LA PAGHINO I RICCHI
Per far fronte alla crisi sono necessarie alternative anti-capitaliste, antirazziste, anti-imperialiste, femministe, ecologiche e sociali.
I movimenti sociali del mondo si sono riuniti in occasione della celebrazione del 9° FSM a Belem, in Amazzonia, dove i popoli resistono all'usurpazione della natura, dei loro territori e della loro cultura.
Siamo in America Latina, dove gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dal re-incontro tra i movimenti sociali e i movimenti indigeni che dalla loro cosmo-visione interrogano radicalmente il sistema capitalista; e negli ultimi anni l'America Latina ha conosciuto lotte sociali molto radicali che hanno portato alla sconfitta di governi neoliberali e alla nascita di governi che hanno fatto riforme positive come la nazionalizzazione di settori vitali dell'economia e riforme costituzionali democratiche.
In questo contesto, i movimenti sociali dell'America Latina hanno sicuramente:appoggiato le misure positive che adottano questi governi, mantenendo la loro indipendenza e la loro capacità critica nel relazionarsi. Queste esperienze ci aiuteranno a rafforzare la ferma resistenza dei popoli contro la politica dei governi, delle grandi imprese e dei banchieri che stanno scaricando gli effetti di questa crisi sulle spalle delle oppresse e degli oppressi.
Attualmente i movimenti sociali su scala planetaria affrontano una sfida di portata storica. La crisi capitalista internazionale che colpisce l'umanità si esprime su vari livelli: è una crisi alimentare, finanziaria, economica,climatica, energetica, migratoria ... , di civilizzazione, che arriva al pari della crisi dell'ordine e delle strutture politiche internazionali.
Siamo davanti a una crisi globale provocata dal capitalismo che non ha uscita in questo sistema. Tutte le misure adottate per uscire dalla crisi cercano solo di socializzare le perdite per assicurare la sopravvivenza di un sistema basato sulla privatizzazione di settori strategici dell'economia, dei servizi pubblici, delle risorse naturali ed energetiche, la commercializzazione della vita e lo sfruttamento del lavoro e della natura, così come il trasferimento delle risorse dalla periferia al centro e dei lavoratori e lavoratrici alla classe capitalista.
Questo sistema si regge sullo sfruttamento, la concorrenza esasperata, la promozione dell'interesse provato individuale a scapito di quello collettivo e sull'accumulazione frenetica di ricchezza per una manciata di ricchi. Genera guerre sanguinose, alimenta la xenofobia, il razzismo e i fondamentalismi religiosi; acutizza l'oppressione delle donne e aumenta la criminalizzazione dei movimenti sociali. Nel quadro di questa crisi, i diritti dei popoli sono sistematicamente negati.
La selvaggia aggressione del governo israeliano contro il popolo palestinese, violando il diritto internazionale, costituisce un crimine di guerra, un crimine contro l'umanità e un simbolo di questa negazione della quale soffrono anche altri popoli del mondo.
Per far fronte a questa crisi è necessario andare alla radice dei problemi e farlo il più rapidamente possibile fino alla costruzione di un'alternativa radicale che sradichi il sistema capitalista e la dominazione patriarcale.
E' necessario costruire una società basata nella soddisfazione delle necessità sociali e sul rispetto dei diritti della natura, cosi come la partecipazione popolare in un contesto di pieni libertà politiche. E' necessario garantire il rispetto di tutti i trattati internazionali sui diritti civili, politici, sociali e culturali (individuali e collettivi), che sono indivisibili.
In questo cammino dobbiamo lottare, favorendo la più ampia mobilitazione popolare, per una serie di misure urgenti come:
* La nazionalizzazione della banca senza indennizzi e sotto il controllo sociale
* Riduzione del tempo di lavoro senza riduzione del salario
* Mezzi per garantire la sovranità alimentare ed energetica
* Mettere fine alle guerre, ritirare le truppe di occupazione e smantellare le basi militari straniere
* Riconoscere la sovranità autonoma dei popoli, garantendo il diritto all'autodeterminazione
* Garantire il diritto alla terra, territorio, lavoro, educazione e salute per tutte e tutti
* Democratizzare i mezzi di comunicazione e di conoscenza
Il processo di emancipazione sociale che persegue il progetto ecologista, socialista e femminista del 21°secolo aspira a liberare la società dalla dominazione che esercitano i capitalisti sui grandi mezzi di produzione, comunicazione e sui servizi, appoggiando forme di proprietà di interesse sociale: piccola proprietà territoriale familiare, proprietà pubblica, proprietà cooperativa proprietà comune e collettiva...
Questa alternativa deve essere femminista perché risulta impossibile costruire una società basata nella giustizia sociale e sull'uguaglianza dei diritti se la metà dell'umanità è oppressa e sfruttata.
Ultimo, ci impregneremo ad arricchire il processo di costruzione della società basata sul "buon vivere" riconoscendo il protagonismo e gli apporti dei popoli indigeni.
I movimenti sociali sono davanti a un'occasione storica per sviluppare iniziative di emancipazione su scala internazionale. Solo una lotta sociale di massa può far uscire il popolo dalla crisi. Per darle impulso è necessario fare un lavoro di base, di presa di coscienza e mobilitazione.
La sfida per i movimenti sociali è quella di raggiungere la convergenza delle mobilitazioni globali s scala planetaria e rafforzare la nostra capacità di azione favorendo la convergenza di tutti i movimenti che cercano di resistere a tutte le forme di oppressione e sfruttamento.
Per questo ci impegniamo a:
* Organizzare una settimana di azione globale contro il capitalismo e la guerra dal 28 marzo al 4 aprile 2009:- Mobilitazione contro il G-20 il 28 marzo;- Mobilitazione contro la guerra e la crisi il 30 marzo;- Una giornata di solidarietà con il popolo palestinese incoraggiando il boicottaggio, i disinvestimenti e le sanzioni contro Israele, il 30 marzo;- Mobilitazione contro la NATO nel suo 60° anniversario il 4 aprile;
- etc.
* Rafforzare le mobilitazioni che si svolgono annualmente:- 8 marzo: Giornata internazionale della Donna- 17 aprile: Giornata internazionale per la Sovranità Alimentare- 1 Maggio: Giornata internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici- 12 ottobre: Mobilitazione Globale di lotta per la Madre Terra contro la colonizzazione e contro la commercializzazione della Vita
* Dare impulso alle agende della resistenza contro il vertice del G-8 in Sardegna, il vertice sul clima di Copenaghen, il vertice delle Americhe di Trinidad e Tobago...Rispondiamo alla crisi con soluzioni radicali e iniziative di emancipazione.Questa vergognosa impunità deve terminare. I movimenti sociali riaffermano qui il loro attivo sostegno alla lotta del popolo palestinese così come a tutte le azioni dei popoli del mondo contro l'oppressione.

lunedì 2 febbraio 2009

FERMIAMO LE LEGGI RAZZISTE!

FERMIAMO LE LEGGI RAZZISTE!

Nel Parlamento italiano, in questi giorni, si stanno discutendo leggi che peggioreranno la vita di tutti i migranti. Leggi che possiamo definire senza esagerare RAZZISTE.

Il governo vuole far credere che la “sicurezza” in Italia è minacciata dalle donne e dagli uomini venuti a cercare lavoro e condizioni di vita migliori.
In realtà l’obiettivo è far pagare la crisi economica ai lavoratori e ai migranti, uomini e donne da tenere in condizioni di precarietà, ricatto e sfruttamento.
E così le norme più dure del “pacchetto sicurezza” sono rivolte ai migranti.

Dobbiamo sapere che:

In Parlamento è già stato approvato il reato di immigrazione clandestina: ogni clandestino fermato sarà punito con un’ammenda dai 5.000 ai 10.000 euro (Il governo voleva il carcere per i clandestini ma l’Unione europea non lo ha permesso).

Nei prossimi giorni il Parlamento può approvare altri provvedimenti razzisti come:
• Il pagamento di una tassa (che potrà essere anche di 300 euro) ogni volta che si rinnova il permesso di soggiorno
• il permesso di soggiorno a punti per cui se si perdono i punti il permesso di soggiorno viene tolto e c’è l’espulsione
• la possibilità che i comuni si servano di “associazioni volontarie” per controllare il territorio (cioè si autorizzano i cittadini a fare i “poliziotti” e sappiamo cosa vuol dire: bande di violenti razzisti che gireranno minacciose);
• la possibilità di trattenere nei centri di identificazione ed espulsione (ex CPT) fino a 18 mesi;

Inoltre sembra che il Governo abbia deciso che in futuro gli ospedali debbano denunciare alla polizia gli stranieri irregolari che ricorrono alle cure sanitarie urgenti,
Tutti questi provvedimenti contraddicono le norme internazionali sui diritti umani e la stessa Costituzione italiana, che afferma la pari dignità sociale delle persone, senza distinzione di sesso, razza, lingua o religione.
Sono provvedimenti razzisti perché introducono per legge la discriminazione tra persone.

LE LEGGI RAZZISTE SI POSSONO BLOCCARE SOLO CON LA LOTTA!!!

PROSEGUIAMO LA NOSTRA PROTESTA CON UNA MANIFESTAZIONE:
SABATO 28 FEBBRAIO ORE 15
PARTENZA DA CORSO GIULIO CESARE ANGOLO VIA ANDREIS (ex stazione Ciriè-Lanzo)

rete migranti torino
www.remito.splinder.com
retemigrantitorino@yahoogroups.com f.i.p. .so Brescia 14 - Torino

domenica 1 febbraio 2009

La crisi climatica si combinerà con la crisi del capitale

La crisi climatica si combinerà con la crisi del capitale.
di François Chesnais*


Il punto di visto che sosterrò è che con la crisi iniziata nell’agosto 2007 si è prodotta una vera e propria rottura che pone fine a una lunga fase di espansione dell’economia mondiale. Questa rottura annuncia l’inizio di un processo di crisi le cui caratteristiche, quanto al numero dei fattori che vi si intrecciano, sono paragonabili a quelle del 1929, anche se si svolge in un contesto molto differente e se i fattori sono necessariamente differenti.
È importante in primo luogo ricordare che la crisi del 1929 si è sviluppata come un processo: un lungo processo che è iniziato nel 1929 con il crac di Wall Street, ma il cui punto culminante si è avuto in seguito, nel 1933, e che la crisi è stata seguita da una lunga fase di recessione che ha avuto per sbocco la seconda guerra mondiale. Dico questo per sottolineare che, a mio avviso, stiamo assistendo alle prime fasi, veramente le primissime, all’inizio di un processo di un’ampiezza e di una temporalità analoghe, anche se le analogie finiscono qui. Quanto sta accadendo in questi giorni sulla scena dei mercati finanziari di New York, di Londra e degli altri grandi centri borsistici è solo una delle dimensioni –e quasi certamente non la più importante– di un processo che deve essere interpretato come una cesura storica.
Siamo in presenza della forma di crisi della quale Marx diceva che segnava i limiti storici del capitalismo, dove tutte le contraddizioni si congiungono. Dire questo non significa sostenere una qualsiasi versione della teoria della «crisi finale» del capitalismo o alcunché di simile. Ciò di cui si tratta, a mio avviso, è comprendere che ci troviamo di fronte a una situazione nella quale i limiti storici della produzione capitalistica sono evidenti. Che cosa si intende con questa affermazione? Anche se non voglio passare per un predicatore marxista, vi leggerò un passo del Capitale:

«Il vero limite della produzione capitalistica, è il capitale stesso; è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come movente e come fine della produzione; il fatto che la produzione è soltanto produzione per il capitale e non, inversamente, i mezzi di produzione sono puri e semplici mezzi per una espansione sempre più diversificata e completa del processo di vita per la società dei produttori. l confini entro i quali soltanto può muoversi la conservazione e valorizzazione del valore capitale, poggiante sull’espropriazione e l’immiserimento della grande massa dei produttori, entrano perciò continuamente in conflitto con i metodi di produzione che il capitale deve utilizzare per i suoi scopi, e che tendono ad un aumento illimitato della produzione, alla produzione come fine in sé, all’incondizionato sviluppo delle forze produttive sociali – entrano in permanente conflitto con il fine angusto, della valorizzazione del capitale esistente. Se perciò il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mercato mondiale ad essa corrispondente, è al tempo stesso la contraddIzione permanente fra questa sua missione storica e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono»([1])

Due dimensioni che danno alla crisi la sua novità

Vi sono certamente alcuni termini che oggi non utilizzeremmo più, come quello di «missione storica». Viceversa, penso che la crisi che vedremo nel corso dei prossimi anni, si svilupperà precisamente sulla base di questo mercato mondiale di cui Marx aveva avuto l’intuizione e che esiste ormai in tutta la sua pienezza. È uno dei punti in cui abbiamo a che fare con una situazione mondiale diversa da quella del 1929. Paesi come la Cina e l’India, che erano allora paesi semicoloniali, oggi non hanno più tale carattere. I loro tratti specifici (espressione dello sviluppo ineguale e combinato) necessitano un’analisi attenta. Ma sono paesi che ormai partecipano a pieno titolo ad una economia mondiale unica, una economia mondiale unificata su una scala finora sconosciuta fino a questa fase della storia.
La crisi che è iniziata ha dunque per contesto un mondo che è unico in un senso diverso da quello che aveva nel 1929. È un primo punto. Ed eccone un secondo. A mio avviso, in questa nuova fase storica, la crisi si svilupperà in modo tale che la realtà brutale della crisi climatica mondiale, della quale vediamo le prime manifestazioni, si combinerà con la crisi del capitale in quanto tale. Stiamo entrando in una fase che è realmente quella della crisi dell’umanità nelle sue complesse relazioni. Queste includono le guerre. Ma anche se escludiamo lo scatenamento di una guerra di grande ampiezza, una guerra mondiale, che ai nostri giorni non potrebbe essere che una guerra nucleare, siamo di fronte a un nuovo tipo di crisi, la combinazione della crisi economica che è iniziata in una situazione in cui la natura, trattata senza riguardi e brutalizzata dall’Uomo nel quadro del capitalismo, reagisce in maniera brutale. È qualche cosa che è quasi escluso dalle nostre discussioni ma che si imporrà come un fenomeno centrale.
Ad esempio, ho appreso molto di recente dalla lettura di un libro di un sociologo francese, Franck Poupeau ([2]), che i ghiacciai andini, dai quali proviene l’acqua che rifornisce La Paz e El Alto (Bolivia), sono esauriti per più dell’80%, e che si stima che tra una quindicina d’anni La Paz e El Alto non avranno più acqua…. Si tratta di qualche cosa che noi, che ci diciamo marxisti rivoluzionari, non abbiamo mai trattato. Non discutiamo mai di fatti di tale natura e di tale ampiezza. Ora, questo fatto può far sì che la lotta di classe in Bolivia, quale noi la conosciamo, si modifichi in maniera sostanziale: ad esempio, che lo spostamento tanto controverso della capitale a Sucre, si imponga come un fenomeno «naturale», visto che La Paz mancherà di acqua. Stiamo entrando in un periodo in cui fatti dello stesso tipo interferiranno nella lotta di classe. Il problema è che negli ambienti rivoluzionari quasi nessuno ne parla; si continua a discutere di cose attualmente di infima importanza, di questioni totalmente meschine in confronto alle sfide che dobbiamo affrontare.

I tre mezzi messi in opera per superare i «limiti immanenti al capitale»

Per continuare sulla questione dei limiti del capitalismo, vorrei rimandarvi a una citazione di Marx che precede quella già fatta: «La produzione capitalista tende incessantemente a superare questi suoi limiti immanenti, ma li supera solo con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti.»([3]) C’è qui un filo conduttore che può servire nell’analisi e nella discussione. I mezzi messi in opera dalla borghesia, schierata dietro gli Stati Uniti, per superare i limiti inerenti del capitale, nel corso degli ultimi trent’anni sono stati essenzialmente tre.
Il primo è stato l’insieme del processo di liberalizzazione delle finanze, del commercio e dell’investimento, vale a dire tutto il processo di distruzione delle relazioni politiche che erano sorte sulla base della crisi del 1929 e degli anni trenta, dopo la seconda guerra mondiale, la rivoluzione cinese e le guerre di liberazione nazionale. Tutte queste relazioni, che in Europa occidentale e in America latina non toccavano l’esistenza del capitale ma rappresentavano allo stesso tempo forme di controllo parziale su di esso, sono state distrutte. Il secondo mezzo impiegato per superare i limiti immanenti del capitale è stato il ricorso, su una scala senza precedenti, alla creazione di capitale fittizio e di forme di credito che, nei paesi al centro del sistema, allargavano una domanda insufficiente. Il terzo mezzo, il più importante storicamente per il capitale, è stato il reintegro in quanto componenti di pieno diritto del sistema capitalistico mondiale, dell’Unione Sovietica e dei suoi «satelliti», così come e soprattutto della Cina, ancor più importante in quanto segnata da una modificazione controllata dei rapporti di proprietà e di produzione.
È nel quadro degli effetti contraddittori di questi tre processi che è possibile cogliere l’ampiezza e la novità della crisi che si è aperta.

Liberalizzazione, mercato mondiale concorrenza…

Vediamo dapprima gli effetti contraddittori della liberalizzazione e della deregolamentazione su scala mondiale nello spazio creato dall’integrazione al capitalismo dell’ex «campo» sovietico dopo il crollo dell’URSS, e di quella della Cina. Il processo di liberalizzazione ha comportato lo smantellamento dei pochi elementi di regolazione costruiti nel quadro internazionale all’uscita dalla seconda guerra mondiale, e ha portato a un capitalismo quasi totalmente privo di meccanismi di regolazione. Il capitalismo non solo è stato deregolamentato, ma ha creato realmente e pienamente il mercato mondiale, trasformando in realtà quella che per Marx era stata in gran parte una intuizione e un’anticipazione. È utile precisare il concetto di mercato mondiale. Il termine «mercato» designa uno spazio di valorizzazione liberato da restrizioni per le operazioni del capitale, che permette a quest’ultimo di produrre e realizzare il plusvalore prendendo questo spazio come base per meccanismi di centralizzazione e di concentrazione veramente internazionali. Questo spazio aperto, non omogeneo, ma con una riduzione draconiana degli ostacoli alla mobilità del capitale, gli permette di organizzare il ciclo di valorizzazione su scala planetaria. Si combina con una situazione che permette di mettere in concorrenza tra loro i lavoratori di tutti i paesi, vale a dire che è basato sul fatto che l’esercito industriale di riserva è veramente mondiale, e che è il capitale come un tutto che dirige, nelle forme sudiate da Marx, i flussi di integrazione dei lavoratori nel processo di accumulazione, o della loro espulsione.
Tale è dunque il quadro generale di un processo di «produzione per la produzione» nelle condizioni in cui la possibilità per l’umanità e per le masse del mondo di accedere a questa produzione è molto limitata. Per questo la conclusione positiva del ciclo di valorizzazione del capitale, per il capitale nel suo insieme e per ciascun capitale in particolare, diventa sempre più difficile da raggiungere. Ed è per questo fatto che «le cieche leggi della concorrenza» hanno una parte sempre maggiore e diventano più determinanti sul mercato mondiale. Le banche centrali e i governi possono cercare di mettersi d’accordo e di collaborare per superare la crisi, ma non penso che sia possibile introdurre la cooperazione in uno spazio mondiale diventato la scena di una concorrenza terribile tra i capitali. E attualmente la concorrenza va ben al di là dei rapporti tra i capitali delle parti più vecchie e più sviluppate del sistema mondiale. Essa include i settori meno sviluppati dal punto di vista capitalistico. Infatti, in forme particolari, comprese quelle più parassitarie, nel mercato mondiale si è prodotto un processo di centralizzazione del capitale al di fuori del quadro tradizionale dei centri imperialisti: in relazione con questi ma in condizioni che introducono anche qualche cosa di totalmente nuovo nel quadro mondiale.
Gruppi industriali capaci di integrarsi in qualità di partecipanti a pieno titolo negli oligopoli mondiali si sono sviluppati in determinati punti del sistema nel corso degli ultimi quindici anni e in particolare nel corso dell’ultima fase. In India e in Cina si sono formati veri potenti gruppi economici capitalisti. Sul piano finanziario, come espressione della rendita petrolifera e del parassitismo che le è proprio, quelli che sono chiamati Fondi sovrani sono diventati importanti punti di centralizzazione del capitale-denaro. Non sono semplici satelliti degli Stati uniti. Hanno le proprie strategie e le proprie dinamiche che modificano per molti aspetti la configurazione delle relazioni geopolitiche dei punti chiave dove si decide e si deciderà la vita del capitale.
Di conseguenza, un’altra dimensione di cui dobbiamo tener conto è che questa crisi segna la fine della fase durante la quale gli Stati Uniti potevano agire come unica potenza mondiale senza avversari. A mio avviso siamo usciti dalla fase che Meszaros aveva analizzato nel suo libro del 2001.([4]) Gli Stati Uniti saranno messi alla prova: in un tempo brevissimo le loro relazioni mondiali sono state modificate e gli Stati Uniti dovranno rinegoziarle e riorganizzarle fondandole sul fatto che devono condividere il potere. E questo è certamente un qualche cosa che non si è mai svolto in modo pacifico in tutta la storia del capitale…[sottolineatura mia. NdT]. Allora, il primo elemento è che uno dei mezzi scelti dal capitale per superare i suoi limiti è diventato una nuova fonte di tensioni, di conflitti e di contraddizioni, cosicché è una nuova fase storica che si apre attraverso questa crisi.

Creazione incontrollata di capitale fittizio

Il secondo mezzo impiegato dal capitale delle economie centrali per superare i propri limiti è stato il ricorso generalizzato alla creazione di forme totalmente artificiali di allargamento della domanda solvibile. Aggiunto ad altre forme di creazione di capitale fittizio, questo mezzo ha generato le condizioni dell’attuale crisi finanziaria. In un articolo che i compagni di Herramienta hanno avuto la gentilezza di tradurre in castigliano e di pubblicare ([5]), ho esaminato piuttosto a lungo la questione del capitale fittizio, della sua accumulazione, e dei nuovi processi che lo hanno caratterizzato. Per Marx, il capitale fittizio è l’accumulazione di titoli che sono «l’ombra» di investimenti già fatti. Sotto la forma di azioni e obbligazioni essi appaiono agli occhi dei loro detentori come un capitale. Non lo sono per il sistema nella sua totalità ma lo sono per i loro detentori e, nelle condizioni economiche «normali», al termine del processo di valorizzazione del capitale, assicurano a costoro dividendi e interessi. Ma il loro carattere fittizio si rivela in situazione di crisi. Quando si producono le crisi di sovrapproduzione, i fallimenti delle imprese, ecc., succede che questo capitale può sparire all’improvviso. Vi capita di leggere sui giornali che questa o quella quantità di capitale «è stata bruciata», in seguito a un crac di borsa? Ma queste somme non esistono in quanto capitale propriamente detto, malgrado il fatto che per i detentori di tali azioni, quei titoli rappresentavano un diritto ai dividendi e agli interessi, un diritto di ottenere una frazione del profitto.
Uno dei maggiori problemi di oggi è certamente che, in molti paesi, il sistema pensionistico è basato sul capitale fittizio, sotto forma di pretesa alla spartizione dei profitti che possono sparire nei momenti di crisi. Ciascuna fase della liberalizzazione e della mondializzazione finanziaria degli anni 1980 e 1990 ha aumentato l’accumulazione di capitale fittizio, in particolare nelle mani dei fondi di investimento, dei fondi pensione, dei fondi finanziari. E la grande novità che è apparsa all’inizio o alla metà degli anni 1990 e per tutti gli anni 2000, è che, in particolare negli Stati uniti e in Gran Bretagna, si è avuta una spinta straordinaria alla creazione di capitale fittizio sotto la forma del credito. Crediti alle imprese ma anche e soprattutto prestiti alle famiglie, crediti al consumo e ancor più crediti ipotecari. In tal modo abbiamo assistito a un salto qualitativo della massa del capitale fittizio creato, che ha provocato forme più acute di vulnerabilità e fragilità, anche in presenza di scosse minori, compreso in occasione di episodi del tutto prevedibili. Ad esempio, sulla base dell’esperienza precedente, che è stata studiata molto bene, si sapeva che il boom immobiliare sarebbe necessariamente finito per ragioni endogene ben conosciute. E se è relativamente comprensibile che sul mercato azionario esista l’illusione che non c’è limite alla crescita delle azioni, altrettanto sulla base di tutta la storia precedente, si sapeva che questo non poteva riguardare il settore immobiliare: quando si tratta di immobili e di case, è inevitabile che a un certo punto il boom finisca. Ma il grado di dipendenza dalla ricerca della crescita e del successo delle speculazioni finanziarie era talmente forte che questo avvenimento normale e prevedibile si è trasformato in elemento scatenante di una crisi enorme. Infatti bisogna aggiungere a quanto ho già detto che nel corso degli ultimi due anni del boom sono stati accordati prestiti a famiglie che non avevano la minima capacità di rimborsarli. Per di più, tutto ciò si è combinato con le nuove «tecniche» finanziarie –che ho cercato di spiegare nel modo più pedagogico possibile nell’articolo citato ripreso da Herramienta– ([6]) che hanno permesso alle banche di vendere titoli sintetici, concepiti in modo tale che nessuno poteva sapere esattamente che cosa avesse comperato. Questo spiega perché il contagio degli effetti dei «subprimes», iniziato nel 2007, ha avuto un carattere tanto devastante, e in particolare il fatto che gli «effetti tossici» abbiano avvelenato soprattutto, a un grado molto forte, le relazioni reciproche delle banche stesse.
Ora assistiamo alla «dissoluzione» [lett. Détricotage/«smagliarsi», disfarsi di un lavoro a maglia NdT] di questo processo. Bisogna cancellare un’accumulazione di «attivi» fittizi all’ennesimo grado, derivanti da tassi di indebitamento in media 30 volte l’incasso effettivo delle banche (che a sua volta comprende dei debiti, questa volta stimati «recuperabili»). Questa «dissoluzione» favorisce beninteso la concentrazione del capitale finanziario. Quando la Bank of America acquista Merrill Lynch si tratta di un classico processo di concentrazione. Il salto nella crisi a cui abbiamo assistito ieri (17 settembre) è stato provocato dalla decisione del Tesoro e della Riserva Federale di non impedire il fallimento della banca Lehman. Oggi (18 settembre) hanno già dovuto cambiare posizione e portarsi massicciamente al soccorso dell’assicuratrice AIG. Il processo di statalizzazione dei debiti implica una nuova creazione di capitale fittizio. La Riserva Federale degli Stati Uniti aumenta la massa di capitale fittizio per mantenere l’illusione del valore di centralizzazioni istituzionali di capitale fittizio (banche e fondi di investimento) sul punto di affondare, con la prospettiva di essere costretti ad un certo punto ad aumentare fortemente la pressione fiscale, cosa che in realtà il governo federale non può fare perché significa la contrazione del mercato interno e l’accelerazione della crisi. Assistiamo quindi a una fuga in avanti che non risolve nulla.
Nell’ambito di questo processo vediamo anche l’ascesa in forza dei Fondi sovrani, il cui effetto è di modificare la ripartizione intercapitalista nel campo finanziario a favore dei settori della rendita che accumulano questo tipo di fondi. Ed è un ulteriore fattore di perturbazione del processo.
Bisogna ricordare, per finire con questa seconda dimensione, che è il loro debito estero da 7 a 8 punti del Prodotto interno lordo (il PIL) che ha dato agli Stati Uniti la particolarità di essere il luogo strategico del ciclo di valorizzazione del capitale, quello che è decisivo al momento della realizzazione del plusvalore. Ciò non vale soltanto per i capitali sotto controllo statunitense, ma per il processo di valorizzazione del capitale nella sua totalità. Ora, di fronte a una recessione economica quasi inevitabile, si pone il grande interrogativo di sapere se la Cina potrà diventare quel luogo che garantirà il momento della realizzazione del plusvalore al posto degli Stati Uniti. L’ampiezza dell’intervento della Riserva Federale e del Tesoro spiega perché la contrazione dell’attività negli Stati Uniti e la caduta delle loro importazioni sono state finora piuttosto lente e limitate. L’interrogativo è di sapere quanto tempo potranno reggere con la creazione di sempre maggiore liquidità come unico strumento di politica economica. Sarebbe forse possibile che non ci sia limite alla creazione di capitale fittizio sotto forma di liquidità per mantenere il valore del capitale fittizio già esistente? Mi sembra una ipotesi molto rischiosa, e tra gli stessi economisti nordamericani molti ne dubitano.

Sovraccumulazione in Cina?

Per finire, arriviamo alla terza maniera con la quale il capitale ha cercato di superare i suoi limiti immanenti. È la più importante di tutte e quella che pone gli interrogativi più interessanti. Mi riferisco all’estensione, in particolare verso la Cina, dell’insieme del sistema di relazioni sociali di produzione del capitalismo. È un qualche cosa a cui Marx ha brevemente accennato come possibilità ma che è diventato realtà soltanto nel corso degli ultimi anni. E che si è realizzato in condizioni che moltiplicano i fattori di crisi.
L’accumulazione del capitale in Cina è stata fondata su processi interni, ma anche sulla base di qualche cosa che è perfettamente documentato ma poco commentato: il trasferimento di una parte molto importante della produzione del settore II dell’economia –il settore dei beni di consumo– dagli Stati Uniti alla Cina. Questo ha molto a che vedere con l’aumento dei deficit statunitensi (il deficit commerciale e di bilancio), che potrebbe essere ribaltato solo con un’ampia «reindustrializzazione» degli Stati Uniti.
Questo significa che si sono stabilite relazioni nuove tra gli Stati Uniti e la Cina. Non si tratta delle relazioni tra una potenza imperialista e un paese semicoloniale. Gli Stati uniti hanno creato relazioni di un tipo nuovo delle quali stentano a riconoscere e assumere le conseguenze. Basandosi sul suo eccedente commerciale, la Cina ha accumulato centinaia di milioni di dollari che ha immediatamente prestato agli Stati Uniti. Una illustrazione delle conseguenze è stata la nazionalizzazione delle due imprese denominate Fannie Mae e Freddie Mac: la Bank of China deteneva il 15% delle due imprese e ha informato il governo statunitense che non avrebbe accettato la loro svalorizzazione. Si tratta di relazioni internazionali di un tipo del tutto nuovo.
Ma che succederà se la crisi si propaga sotto forma di una riduzione importante delle esportazioni con effetti sulla produzione, di crisi della borsa di Shanghai e del sistema bancario in Cina? Nel mio articolo già menzionato ([7]) c’è una sola pagina su tale questione proprio alla fine, ma in qualche modo è la questione più decisiva per la prossima fase della crisi.

In Cina c’è stato un processo interno di concorrenza tra capitali, combinato con un processo di rivalità tra settori dell’apparato politico cinese e della concorrenza tra loro per attirare le imprese straniere. Dall’insieme, è risultato, oltre a una distruzione della natura su vastissima scala, un processo di creazione di immense capacità di produzione: in Cina è concentrata una sovraccumulazione di capitale, che a un certo punto diventerà insostenibile. Per l’Europa è notoria l’accelerazione da parte dei grandi gruppi industriali della delocalizzazione delle capacità produttive e dei posti di lavoro, per trasferirli verso questo paradiso unico del mondo capitalistico che è oggi la Cina. La mia ipotesi è che questo trasferimento dei capitali in Cina ha provocato una mutazione del movimento anteriore dell’accumulazione e provocato un nuovo aumento della composizione organica del capitale. L’accumulazione in mezzi di produzione è intensa e causa un grande spreco di materie prime, l’altra componente del capitale costante. La massiccia creazione di capacità di produzione nel settore I (mezzi di produzione) è stata il motore della crescita della Cina, ma il mercato finale che permette di smerciare tale produzione e realizzare il valore e il plusvalore è il mercato mondiale. L’aggravarsi della recessione metterà in evidenza la sovraccumulazione del capitale. Michel Aglietta, che l’ha studiata specificamente ([8]), afferma che c’è realmente una sovraccumulazione, che c’è stato un processo accelerato di creazione di capacità produttive in Cina, un processo che porrà problemi di realizzazione di tutta questa produzione nel momento in cui il mercato esterno si contrae, cosa che comincia a fare ora. La Cina ha una parte veramente decisiva, in quanto anche piccole variazioni della sua economia determinano la congiuntura di numerosi altri paesi del mondo. È bastato che la domanda cinese di beni di investimento cedesse un po’ per fare sì che la Germania perda esportazioni ed entri in recessione. Le «piccole oscillazioni» in Cina hanno ripercussioni molto forti altrove, come dovrebbe essere evidente nel caso dell’Argentina.

Per continuare a riflettere e discutere

Riprendo quanto ho detto all’inizio. Le fasi di questa crisi saranno distinte da quella del 1929, anche se sono paragonabili, dato che allora la crisi di sovrapproduzione degli Stati Uniti si è prodotta fin dai primi momenti. Dopo si è approfondita, ma era chiaro fin dall’inizio che si trattava di una crisi di sovrapproduzione. Oggi, al contrario, le politiche messe in atto dai grandi paesi capitalisti centrali ritardano questo momento, ma non possono fare molto di più di questo.
Allo stesso tempo, e come è accaduto nel caso della crisi del 1929 e degli anni 1930, anche se in condizioni e sotto forme differenti, la crisi si combinerà con la necessità per il capitalismo di una riorganizzazione totale dei suoi rapporti di forza economici su scala mondiale, il che segnerà il momento in cui gli Stati uniti vedranno che la loro supremazia militare non è che un elemento, e un elemento subordinato, per rinegoziare le loro relazioni con la Cina e le altre parti del mondo. A meno, ovviamente, che non si imbarchino in un’avventura militare dalle conseguenze imprevedibili. Per il momento le condizioni politiche interne non lo permettono in alcun modo, ma ciò non può essere escluso se la recessione conducesse a una lunga depressione e a movimenti rivoluzionari.
Per tutte queste ragioni, concludo che abbiamo a che fare con molto di più che una crisi finanziaria, anche se per ora siamo a questo stadio. Anche se questa sera mi sono dovuto concentrare sul tentativo di chiarire i grovigli del capitale fittizio e aiutare a comprendere perché è tanto difficile smontare questo capitale, siamo di fronte a una crisi infinitamente più ampia.
Tenendo conto delle domande e osservazioni che mi sono state fatte dopo il mio arrivo a Buenos Aires e anche qui questa sera, ho l’impressione che molti pensino che io traccio un quadro catastrofista del momento attuale del capitalismo. Penso in realtà che siamo di fronte a un rischio di catastrofe, non una catastrofe del capitalismo, non una «crisi finale», ma una catastrofe dell’umanità. Se prendiamo sul serio la crisi climatica, probabilmente c’è già qualche cosa di questa. Penso, come Meszaros ad esempio ([9]), ma siamo poco numerosi ad attribuirvi la stessa importanza, che su questo piano siamo già di fronte a un pericolo imminente. È tragico che per il momento sono colpite direttamente solo le popolazioni la cui esistenza non conta: quel che può accadere ad Haiti sembra non avere alcuna importanza storica, quello che accade in Bangladesh non ha peso al di fuori della regione colpita, né quello che è successo in Birmania, poiché il controllo della giunta militare impedisce che sia conosciuto. In Cina, la stessa cosa: si discute degli indici di crescita ma non delle catastrofi ecologiche, poiché l’apparato repressivo controlla le informazioni in proposito.
Il peggio è che l’opinione che «la crisi ecologica non è così grave come si dice» costantemente diffusa dai media, è interiorizzata molto profondamente, compreso da molti intellettuali di sinistra. Avevo iniziato a lavorare e a scrivere su questo argomento, ma con l’inizio della crisi finanziaria sono stato in qualche modo obbligato a tornare ad occuparmi delle finanze, anche se ciò non mi soddisfa tanto perché mi sembra che l’essenziale si gioca su una altro piano.
In conclusione: il fatto che tutto questo succeda dopo una fase tanto lunga, senza paralleli nella storia del capitalismo, di cinquant’anni di accumulazione ininterrotta (salvo una breve rottura nel 1974-1975), e anche che i circoli dirigenti capitalisti, in particolare le banche centrali, hanno imparato dalla crisi del 1929, tutto ciò fa sì che lo sviluppo della crisi è stato lento. Dopo il settembre 2007, il discorso dei circoli dirigenti ripete continuamente che «il peggio è dietro di noi» mentre quel che è certo è che «il peggio» è davanti a noi.
Per questo insisto sul rischio che c’è di minimizzare la gravità della situazione. E suggerisco che, nella nostra analisi e nel nostro modo di affrontare le cose dobbiamo integrare la possibilità, almeno la possibilità, che per inavvertenza anche noi potremmo avere interiorizzato il discorso che in fin dei conti «non succede niente».



Buenos Aires, 18 settembre 2008

Originale in francese da:
Inprecor n° 541/542, settembre/ottobre 2008.






* François Chesnais, economista, professore associato all’Università di Paris-Nord 13 Villetaneuse, membro del consiglio scientifico di ATTAC, anima il collettivo Carré Rouge (http://www.carre-rouge.org). Ha pubblicato, tra l’altro, La Mondialisation du capital (Syros, 1994 e 1997 – edizione accresciuta), Mondialisation et impérialisme (con Odile Castel, Gérard Dumesnil et al., Èd. Syllepse, Paris, 2003) e La finance mondiale – racines sociales et politiques, configuration, conséquesnces (sotto la sua direzione, La Découverte, Paris, 2004). È qui riprodotta la sua relazione presentata alla riunione della rivista argentina Herramienta, il 18 settembre 2008 a Buenos Aires, pubblicata in Herramienta n° 39 di ottobre 2008. (Traduzione dallo spagnolo rivista dall’autore).
[1]. Karl Marx, Il Capitale, Libro III, UTET, Torino, 1987 pag. 320
[2] . Franck Poupeau, Carnets boliviens 1999-2007, Un goût de poussière, Èditions Aux lieux d’être, Paris 2008
[3]. Karl Marx , ibidem.
[4] . Istvan Mészaros, Socialism or Barbarism: From the “American Century” to the Crossroads, Monthly Review Press, 2001.
[5] . «El fin de un ciclo. Alcance y rumbo de la crisis financiera », Herramienta n° 37, marzo 2008. Questo articolo è apparso prima in francese , cfr François Chesnais, «Fin d’un cycle, sur la portée et le chéminement de la crise financière », Carré rouge –La Brèche n° 1 décembre 2007-janvier 2008
[6]. Ibid.
[7]. Ibid.
[8]. Cfr. Michel Aglietta et Yves Landry, La Chine vers la superpuissance, Economica, Paris 2007.
[9]. Istvan Meszaros, The sole viable economy, Monthly Review Press, 2007, pubblicato anche in spagnolo in Herramienta n° 37 di marzo e n° 38 di giugno 2008