sabato 26 giugno 2010

Tre serate d’estate con Sinistra Critica


(2-4 luglio Sala della Circoscrizione di corso Belgio n. 91)

Venerdì 2 luglio 2010

Mattina: partecipazione allo sciopero generale e alla manifestazione

Ore 19 Presentazione delle tre serate e del campo internazionale dei giovani

Ore 19,30 Apericena

Ore 21 Dibattito “La crisi del capitalismo e il modello Pomigliano”
Interventi: Pasquale Loiacono delegato Fiom Fiat Mirafiori, Ugo Mattei, ordinario di diritto civile, Claudio Stacchini segreteria Camera del lavoro Torino, Franco Turigliatto di Sinistra Critica, un esponente dell’Unione sindacale di base.
Sabato 3 luglio 2010

Ore 18: Incontro con i cittadini sulle tematiche ambientali e il futuro della città. Partecipano esponenti dei movimenti acqua, inceneritori, no tav, urbanistici ed esponenti di Sinistra Critica

Ore 20 apericena

Ore 20,30 proiezione partita dei mondiali (quarti di finale)

Ore 22 Concerto: Giovanni Gandino canta De André e canzoni di lotta

Domenica 4 luglio 2010

Ore 17 animazione per i bambini

Ore 18 Concerto della Band “Sedimentazioni stratosferiche”

Ore 19,30 apericena

Ore 21 Dibattito “L’offensiva della destra e come combatterla” presentazione del libro di Diego Giachetti “Berlusconi e il Berlusconismo”
Partecipano: l’Autore, Alessandra Algostino, costituzionalista, Francesco Tuccari, studioso del pensiero politico.
Coordina Oliviero Calcagno

Mostra su “Le nostre vite valgono più dei loro profitti”
da dove viene il debito, chi deve pagarlo, l’aggressione della Fiat, le proposte alternative.

Stand dei comitati
Palestina,
Acqua
No al nucleare, no inceneritore, no tav, no tangest, ecc
Animalista

venerdì 25 giugno 2010

La Cgil centra lo sciopero


C'è l'eco della battaglia di Pomigliano dietro la riuscita dello sciopero generale della Cgil contro la manovra Tremonti. Lo sciopero infatti è riuscito, le manifestazioni anche con la Cgil che parla di un milione di persone in piazza (anche se credibilmente occorre dividere per tre). Che ci sia Pomigliano a dare una mano al sindacato di Epifani, basta guardare a come ha sfilato la Fiom a Napoli, con i suoi lavoratori di Pomigliano in testa, applauditi dai lati del corteo quasi fossero eroi tornati da una dura guerra. Bene anche a Bologna, con un corteo riuscito, le fabbriche ferme e un comizio finale in cui dalla Camusso i lavoratori si aspettavano un po' di più. A Milano, invece, è sceso in piazza anche il segretario del Pd, Bersani, che prosegue nella strategia dell'attenzione verso gli operai e che batte sul versante del mondo leghista. A Milano si è svolto anche il corteo della Cub - 10 mila secondo gli organizzatori, anche qui è bene dividere per tre - mentre al termine dei vari cortei, su iniziative delle fabbriche in lotta, a cominciare dalla Maflow, si formato un corteo di circa un migliaio di persone che si è diretto fino alla sede dell'Assolombarda. «Un modo per rimarcare in piazza - dice Gigi Malabarba - l'importanza di costruire un movimento autorganizzato e unitario allo stesso tempo».
La Fiom, oltre a punteggiare i vari cortei Cgil ha scelto di dare importanza alla città dell'Aquila, dove ha parlato Maurizio Landini. «La battaglia per la dignità dei lavoratori di Pomigliano è analoga alla richiesta di dignità dei cittadini di questa città» ha detto per poi chiedere alla Cgil, a maggior ragione dopo questo sciopero, una seria battaglia in difesa del contratto nazionale.
La Cgil, che esce rafforzata da questa giornata, utilizzerà molto probabilmente lo sciopero per uscire dall'angolo in cui l'hanno lasciata governo, Confindustria, Cisl e Uil che è la strategia uscita dal congresso. Del resto, sulla manovra la Cgil non ha posizioni particolarmente radicali. Nelle parole d'ordine dello sciopero, ad esempio, la richiesta di ritirare il congelamento degli stipendi pubblici non c'è. La Cgil non nega la necessità di riequilibrare i conti o di fare i sacrifici; solo che chiede che i sacrifici li facciano tutti in egual modo. Per questo Camusso ha oggi rilanciato la tassa delle rendite finanziarie al 20% e l'innalzamento dell'aliquota Irpef di due punti per i redditi superiori ai 150 mila euro. Più netta è la contrarietà sul Collegato lavoro e sulla riforma dello Statuto dei lavoratori.
Ovviamente, dal governo viene una chiusura totale. Il ministero della Funzione pubblica parla di un'adesione allo sciopero pari al 2,28%, cioè al limite del ridicolo. La Cgil proverà a rientrare nel gioco della triangolazione sindacale, spingendo perché si riapra la concertazione ma al momento non trova sponde. Anche dal modo in cui si snoderà la vertenza su Pomigliano si capirà se questa strategia trova interlocutori e sponde o se invece è destinata a naufragare.

Lo sciopero è andato bene ma la piattaforma no


Oggi si è svolto lo sciopero generale nazionale della Cgil. Il primo sciopero generale dopo esattamente 15 mesi dall'ultimo, svoltosi il 12 dicembre del 2008. Per tutto il 2009, l'anno della crisi, l'anno della chiusura delle fabbriche, l'anno degli operai sui tetti a manifestare con modalità di lotta inusuali la loro disperazione di fronte alla gestione padronale della recessione, nessuna scadenza di mobilitazione generale è stata indetta dalla Cgil, il sindacato che ancora si vanta (e a ragione, stando alle cifre, perlomeno ufficiali, del tesseramento) di essere il più grande d'Italia e tra i più grandi del mondo.
Questo nonostante a più riprese la minoranza interna “La CGIL che vogliamo” avesse tentato di mettere ai voti nel direttivo nazionale la proposta di indire uno sciopero generale, in particolare al momento della legge finanziaria, proposte tutte bloccate da Epifani e dai suoi. Durante tutto l'anno passato solo due grandi manifestazioni, ad aprile e a novembre, senza sciopero, come pura testimonianza di esistenza in vita, per rivendicare, peraltro senza convinzione, un tavolo di “concertazione”.
Nel frattempo, appunto, la crisi e l’offensiva padronale trituravano i posti di lavoro, centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori sono stati ridotti a sopravvivere con misere indennità di cassa integrazione, di mobilità o di disoccupazione, quando non sono stati semplicemente gettati sul lastrico.
I redditi da lavoro o da pensione sono stati falcidiati dalle tasse e dall'aumento dei prezzi, mentre gli evasori grandi e piccoli hanno continuato ad essere premiati con condoni e scudi fiscali. La precarietà si è pesantemente aggravata. Molti precari sono stati licenziati e ora lavorano al nero e ancor più sottopagati.
Le migranti e i migranti, con il ricatto della clandestinità, sono costretti ad accettare qualunque sopraffazione. Il razzismo è giunto all’organizzazione di veri e propri pogrom, con la copertura istituzionale, come a Rosarno.
Nel frattempo, lo stato sociale viene distrutto, con i tagli selvaggi alla sanità, alla scuola, con la privatizzazione di tutto ciò che ancora ha una qualche parvenza di pubblico, come l'acqua.
I diritti conquistati in decenni di lotta vengono annullati. Le nuove generazioni vengono messe a confronto con una società nella quale si afferma brutalmente la legge del più forte. La legge approvata pochi giorni fa dal parlamento, nel silenzio generale, mentre i mass media sono tutti concentrati sulle elezioni regionali e sulla contesa sulle liste, punta a vanificare l'articolo 18 della legge 300 e a imporre contratti individuali, sottratti alla competenza della magistratura e alle regole universali dei contratti collettivi.
In un quadro come questo, che ha poco da invidiare alla drammatica situazione greca, ci si sarebbe aspettati una impennata della conflittualità, ma così non è stato. Questo sciopero generale, indetto con modalità discutibili (solo 4 ore di astensione dal lavoro e manifestazioni provinciali), dalle prime notizie sembra comunque aver raccolto risultati importanti di adesione, seppure molto poco omogenei. Anche le cento manifestazioni sono state discretamente affollate, con alcune centinaia di migliaia di partecipanti.
Le lavoratrici e i lavoratori hanno scioperato e partecipato ai cortei proprio per dare voce alla sofferenza sociale. Ma la piattaforma su cui lo sciopero è stato convocato mostra tutte le sue inadeguatezze, incentrata com’è sulla pura estensione degli ammortizzatori sociali, sulla riduzione della pressione fiscale sui salari e sulle pensioni, oltre che sull’importante rivendicazione dell’abolizione del reato di clandestinità per i migranti “irregolari”.
Non una parola sulle responsabilità della Confindustria, sulla complicità di Cisl e Uil con padroni e governo (peraltro riconfermata in modo provocatorio proprio l’altro ieri con la firma di un “avviso comune” senza la Cgil sull’arbitrato).
Epifani ha rifiutato di estendere la piattaforma alla contestazione della legge sull’arbitrato, limitandosi a fare accenni tardivi e in sordina sul tema, comunque molto preso di mira dai cartelli dei manifestanti.
Dopo questo sciopero i problemi restano tutti e intatti. Ma il successo dell’iniziativa dovrebbe consentire di affrontare le prossime necessarie iniziative con più coraggio.

Pomigliano: 2888 sì (62%), 1673 no (36%). Non ce l'hanno fatta!


Certamente per i lavoratori e le lavoratrici della Fiat di Pomigliano d’Arco si tratta di una sconfitta, ma l’arroganza e l’ostentata sicurezza in una vittoria schiacciante da parte del fronte padronale e governativo, aiutato da tutte le confederazioni sindacali (compresa la Cgil) e dal Pd, aveva fatto credere a percentuali bulgare per il Sì. Il plebiscito mancato paradossalmente rimette al centro il protagonismo dei lavoratori che lo considerano giustamente una vittoria delle forze che hanno resistito al ricatto, la Fiom e i sindacati di base, sostenuti anche dagli scioperi che in molti stabilimenti del gruppo Fiat hanno raggiunto altissime percentuali di partecipazione nei giorni scorsi.

La Fiat e i suoi complici entrano ora in una profonda contraddizione rispetto ai già incerti investimenti per il rafforzamento di Pomigliano, perché quel che interessava alla Confindustria e al Governo era una vittoria politica sulla classe operaia italiana per ripetere, e alla grande, il successo del 1980 con la sconfitta di Mirafiori. Così peraltro era stato auspicato senza infingimenti ancora questa notte, quando i primi dati del referendum – tutti relativi al voto degli impiegati e dei quadri – sembravano confermare un successo travolgente dei Sì.

Il fronte politico-sindacale dei complici chiede a Marchionne il risarcimento promesso per il proprio ruolo di kapò, mentre la Fiat sarà tentata dallo strappo definitivo cosciente che, nonostante i 18 mesi di fermo della produzione prima dell’arrivo dei nuovi modelli, la situazione non sia affatto facilmente governabile con l’introduzione delle nuove relazioni industriali né a Pomigliano né negli altri stabilimenti.

Tuttavia i rapporti di forza restano nettamente favorevoli al padronato in tutto il paese, con migliaia di licenziamenti e di chiusura di fabbriche e un’ancora scarsa reattività del settore pubblico colpito da una pesantissima manovra finanziaria. E’ per questo che è proprio ora che va colta questa parziale ma importantissima battuta d’arresto nell’attacco per incoraggiare ovunque la resistenza dei lavoratori e tentare di invertire il trend negativo degli ultimi anni. La riscossa è ancora possibile. Ricordiamo solo qualche mese fa com’è stata percepita la vittoria di 49 lavoratori dell’Innse di Milano da tutte le fabbriche con vertenze occupazionali aperte che, invece di arrendersi, decisero di inaugurare la stagione dell’occupazione dei tetti…

Oggi la prima risposta deve essere immediatamente la riuscita dello sciopero generale del 25 giugno, che tutti i settori sindacali di classe (anche chi finora è stato alla finestra) devono organizzare con convinzione, caratterizzandosi nei cortei proprio sul sostegno alla resistenza a Pomigliano e individuando le sedi padronali e della Fiat come i luoghi dove concentrare la protesta, aldilà delle sterili passeggiate e dei comizi indigeribili degli amici di Epifani. Il 25 è un’occasione per rilanciare il protagonismo di lavoratori e delegati, che se ne devono impossessare in prima persona.

A Milano il coordinamento di alcune Rsu di aziende in lotta, indipendentemente dalle sigle sindacali di appartenenza, tenta di organizzare un corteo al termine delle manifestazioni ufficiali per dirigersi con un’iniziativa unitaria dal basso verso la sede dell’Assolombarda. Credo che possa essere un’indicazione anche per altre situazioni. Anche perché al 25 giugno dovranno seguire altri appuntamenti di mobilitazione, proprio a partire dalla reazione che la Fiat non farà mancare allo schiaffo subito questa notte dagli operai campani.

Sinistra Critica - Organizzazione per la Sinistra Anticapitalista

lunedì 21 giugno 2010

Pomigliano, il giorno più lungo


Pressione a mille per il referendum che si terrà martedì. Tutto l'establishment tifa per il sì che otterrà, sotto ogni previsione, un plebiscito. Intanto l'azienda non smentisce il piano C che la Fiom bolla come «mostruosità illegale». Già pronte le otto urne in cui si potrà votare dalle 8 alle 21. In tarda serata i primi risultati


Occhi puntati su Pomigliano per tutta la giornata di domani, martedì 22, giorno del referendum tra i lavoratori sull'accordo separato lo scorso 15 giugno. La pressione sugli operai dello stabilimento campano ha ormai raggiunto lo zenith. Non c'è "potere" della Repubblica che non abbia finora sentito il bisogno di intervenire per augurarsi che vinca il sì e che la linea dura della Fiom venga sconfessata. Il governo è compatto in questo senso e Confindustria non fa mancare la quotidiana dichiarazione della sua presidente al fianco dell'azienda Fiat. Anche il Pd non è da meno: «Abbiamo sempre detto di essere per il sì» si è giustificato il responsabile economico del partito democratico dopo l'ennesima richiesta di una presa di posizione chiara avanzata dal resto del mondo.
Solo che la giornata di oggi è anche caratterizzata dall'indiscrezione, pubblicata sul quotidiano La Repubblica, di un "piano C" da parte dell'azienda - oltre, cioè, l'ipotesi di accordo o quella di spostare la produzione in Polonia - che punterebbe a costituire una nuova società, una sorta di PomiglianoFiat che si incaricherebbe di assumere da capo i lavoratori per applicare loro un nuovo contratto e avere così la certezza del rispetto dell'accordo. L'indiscrezione, non smentita dal Lingotto, assomiglia a un nuovo ricatto fatto piombare sulla testa degli operai di Pomigliano alla vigilia del referendum che, a questo punto, non può non sfiorare il 100% dei sì. La Fiom, però, non si è fatta finora intimidire dalle pressioni subite e ha dichiarato ancora oggi che comunque andrà il referendum sarà illegittimo «indipendentemente dall'esito delle votazioni». E questo per due ragioni, come spiega il segretario Fiom di Napoli, Andrea Amendola: «La prima è che, laddove si vietano gli scioperi, ci sono deroghe a leggi dello Stato e alla stessa Costituzione, che non possono essere sottoposte al voto referendario». «La seconda - prosegue il sindacalista - è che il referendum non presenta due opzioni alternative, ma in realtà solo una, perchè se vincono i No l'azienda ha detto che chiude. Quindi tutti andranno a votare e voteranno si».
Ma il sindacato dei metalmeccanici Cgil è intervenuto anche sul cosiddetto "piano C" della Fiat per dire che «il piano C cui starebbe lavorando la Fiat corrisponde a quanto ventilato e poi ritirato dall'azienda stessa nell'incontro sindacale del 15 giugno» e la sua esistenza «non farebbe che aggravare la situazione». Giorgio Cremaschi lo definisce «una mostruosità illegale». «In Italia e nell'Europa queste pratiche sono condannate dalla legge, dalle costituzioni e dalla stessa Carta europea. C'è un solo modello a cui si può fare riferimento, quello delle maquilladoras, le fabbriche che le multinazionali Usa instaurano subito al di là dei confini con Messico per violare ogni legge e ogni contratto. In Italia e in Europa questo non è possibile, ma è indicativo che nella Fiat si pensi a questa soluzione».
In fabbrica, comunque, tutto è pronto per il referendum. Le urne, che saranno otto, saranno aperte dalle 8 alle 21 (più una nello stabilimento separato di Nola) per far votare i circa 5000 lavoratori. La giornata di votazione verrà considerata di lavoro e dunque, retribuita al 100%. L'eventuale assenza, dunque, dovrà essere giustificata. In queste ore è riunita a Pomigliano la Commissione elettorale, composta dalle organizzazioni sindacali che hanno siglato l'accordo e promosso il referendum, per decidere se costituire eventuali altri due seggi nella fabbrica, portando così a 10 le urne disponibili.
Si voterà reparto per reparto e, in ogni turno di lavoro, si svolgeranno due ore di assemblea per consentire ai lavoratori di votare. I lavoratori potranno accedere al voto presentando un documento d'identità o il badge aziendale. Al seggio troveranno uno scrutatore nominato dalla Commissione elettorale più altri rappresentanti (uno per organizzazione sindacale firmataria). Hanno chiesto di presenziare alle operazioni di voto anche i Cobas, che non hanno siglato l'intesa. Al lavoratore verrà consegnata una scheda simile a quella dei referendum abrogativi: sotto la domanda 'sei favorevole all'accordo siglato in data 15/6' e alle specifiche dell'intesa, sulla scheda ci saranno due riquadri, con 'si« e 'nò. Lo spoglio inizierà subito dopo la chiusura delle urne, alle 21. Le prime proiezioni si attendono alle 22.30 circa, mentre per le prime ore del giorno 23 di dovrebbero avere i risultati definitivi.

Termini Imerese, lo sciopero contro Marchionne


Fermata di un'ora, indetta unitariamente dal sindacato, per protestare contro le parole dell'amministratore delegato Fiat che aveva accusato gli operai di “scioperare per vedere la Nazionale". E intanto la fabbrica è destinata a essere chiusa per volere aziendale. Della serie la faccia come il c....


Sciopero alla Fiat di Termini Imerese. Gli operai hanno deciso di fermare la produzione per protesta contro le parole dell'amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne che aveva criticato i lavoratori siciliani accusandoli di avere scioperato lunedì scorso solo per poter vedere la partita di calcio dei Mondiali Italia-Paraguay. Lo sciopero alla Fiat di Termini Imerese è stato indetto in maniera unitaria dai delegati di Fim-Fiom e Uilm e dall'Ugl. Gli operai hanno deciso di fermarsi per un'ora, alcuni sono usciti dallo stabilimento per incontrare davanti ai cancelli i segretari sindacali. Intorno alle 10.30 è prevista un'assemblea in fabbrica. A Termini Imerese, tra diretto e indotto, lavorano circa 2.500 persone, impegnati nell'assembleaggio della Lancia Ypsilon. La Fiat ha deciso di chiudere la fabbrica a fine 2011.
«Questa è la risposta a Marchionne». Così il segretario della Fiom di Palermo, Roberto Mastrosimone, commenta lo sciopero alla Fiat di Termini Imerese. «Qui c'è gente che lavora da trent'anni - aggiunge Mastrosimone - Il signor Marchionne non solo sta chiudendo lo stabilimento ma addirittura adesso cerca di screditare il lavoro degli operai. Eppure era stato proprio lui a lodare la professionalità dei lavoratori di Termini Imerese, spiegando che la scelta di chiudere dipendeva da altre cose».

domenica 20 giugno 2010

Crisi del debito greco


Da: [Europe Solidaire Sans Frontières] 20/05/2010

Intervista sulla «crisi del debito greco»
UDRY Charls-André
12 marzo 2010


Questa intervista è stata effettuata il 12 marzo 2010. Le domande sono state poste dai responsabili del periodico della Sinistra operaia internazionalista (membro del raggruppamento Syriza). Alla luce degli sviluppi attuali, la pubblicazione di questa intervista può avere un certo interesse, anche se è datato.




Domanda: Nel corso degli ultimi anni, il debito pubblico è aumentato in tutti in paesi sviluppati, quali sono le ragioni?

Charles-André Udry:

Quando i media parlano del debito, molto spesso si fa confusione. Il debito pubblico non è che il debito lordo dell’insieme delle amministrazioni pubbliche (Stato centrale, amministrazioni locali, organismi della «sicurezza sociale», sistemi di insegnamento, ecc.). È dunque l’insieme degli impegni finanziari che queste istanze devono in linea di principio rimborsare ai loro creditori, con gli interessi.

Ma queste stesse entità detengono degli attivi (finanziari e non finanziari: dagli immobili al sapere [know how] di proprietà del sistema educativo), un patrimonio. Se si tiene conto di questo dato, il rapporto del debito pubblico al PIL cambia. Le élites dominanti vogliono mostrare con il dito solo il numeratore. Il debito è sempre un rapporto tra ciò che il paese deve e ciò che vale. Vale a dire il suo patrimonio globale. Spesso si tace su questo elemento. Il che facilita la strumentalizzazione sociale e politica del debito pubblico nel senso dei piani di austerità che prendono di mira i salari diretti e il salario sociale, a vantaggio dei percettori di reddito che «vivono tra l’altro sul debito» ed esigono misure che assicurino il flusso degli interessi legati alle obbligazioni (titoli di credito) che detengono. Tale realtà è ben caratterizzata da J.M. Keynes nell’ultimo capitolo della “Teoria generale”, nel quale reclamava «l’eutanasia dei percettori di reddito».

Dall’inizio degli anni 1970, il debito pubblico accumulato si è fortemente appesantito in tutti i paesi dell’Unione Europea (UE), Le finanze pubbliche non hanno smesso di degradarsi sotto l’effetto delle diverse recessioni economiche. Il debito pubblico è dunque legato strettamente alla crisi strutturale del capitalismo dal 1974-75. Bisogna però aggiungere tre elementi.

● Il primo: nell’insieme dei paesi dell’OCSE si constata un aumento relativo, sul lungo termine, della spesa pubblica. Questo traduce la partecipazione pubblica necessaria alle condizioni dell’accumulazione del capitale (strutture collettive, servizi pubblici, formazione…). E anche a bisogni sociali ai quali le classi dominanti hanno dovuto –a seconda dell’evoluzione dei rapporti di forza sociali– rispondere per stabilizzare il loro dominio. E questo senza imporre una politica fiscale che, nei periodi di «pericolo» come la Seconda Guerra Mondiale, espropriava quasi totalmente i redditi più elevati al di sopra di una certa soglia. Questa tendenza è stata studiata, nel 1973, da James O’Connor nella sua opera «The Fiscal Crisis of the State».

●Il secondo: l’aggravamento del debito pubblico non è legato, dopo gli anni 1980, ad un aumento «sconsiderato» delle spese pubbliche, ma ad una diminuzione relativa delle entrate pubbliche.
Questo rinvia: a una diminuzione delle imposte che colpiscono i redditi elevati (e molto elevati) e le imprese capitaliste; alla defiscalizzazione delle operazioni finanziarie (banche, assicurazioni, fondi di investimento, ecc.); alla creazione di «nicchie fiscali» che proteggono somme molto importanti; a misure favorevoli «alla concorrenza fiscale» all’interno dell’Unione europea (UE) e su scala mondiale, incluso all’interno dei paesi federalisti, i cui Länder [regioni tedesche], cantoni o Stati (Germania, Svizzera, Stati Uniti), conducono le loro battaglie fiscali concorrenziali interne per attirare «investitori» (imprese) o la residenza dei detentori di grandi fortune; alle decisioni politiche che permettono che le società riducano la loro «partecipazione» ai contributi sociali, con l’obiettivo dichiarato politicamente di facilitare la creazione di posti di lavoro, allorché gli studi assai poco contestatori indicano che l’investimento dipende dalla domanda finale (vale a dire: che cosa c’è nelle indicazioni dei portafogli degli ordinativi) assi più che dagli «aiuti ai salari» e dalla «riduzione della tassazione sul capitale», senza menzionare i settori economici che sfuggono a qualsiasi fiscalizzazione («economia sommersa») e i «paradisi fiscali».

Il fatto che le entrate pubbliche non siano aumentate al ritmo delle spese pubbliche è dunque il frutto di una volontà politica dei governi –di destra come di «sinistra»– di mantenere i prelievi al di sotto del livello necessario a un certo equilibrio tra spese ed entrate, e che la creazione della ricchezza sociale rendeva tuttavia possibile.

● Il terzo: questa politica va direttamente a beneficio di alcuni settori capitalisti e permette una operazione «miracolosa». Questi diventano creditori dello Stato. In effetti, banche e società di assicurazione presso le quali piazzano i loro «risparmi» (i loro guadagni) acquistano titoli del debito pubblico (obbligazioni, buoni del Tesoro, a volte defiscalizzati come in Italia). Di conseguenza, le imposte non pagate da questi «attori economici» –in fondo si tratta di una evasione fiscale legale –diventano un capitale finanziario che apporta interessi. Questi ultimi sono pagati da/i/lle salariat*. Il debito ridistribuisce dunque la ricchezza sociale a favore dei ricchi; è uno strumento di crescita della disuguaglianza sociale; di qui l’importanza di assicurare il suo flusso verso i creditori.

Per di più, il debito pubblico giustifica le privatizzazioni, in seguito a un degrado pianificato degli investimenti nelle infrastrutture e di compressione del personale di diversi settori pubblici, tra gli altri quelli della sanità, dell’istruzione, dei trasporti, della posta. Il che impoverisce ancora di più i/le salariat* sfruttat*, che avrebbero bisogno di un accesso gratuito (o a prezzo molto basso) a cure di qualità, a infrastrutture collettive, alla formazione. Quindi, rifiutare un simile debito non sembra assurdo. Questo ancor più per il fatto che l’indebitamento (il credito) è un elemento intrinseco di risposta del capitale alla sua crisi di lunga durata.

Non si è visto accelerare questo processo dal 2008? E perché?

C-A.U.:

In effetti, la connivenza tra il governo e gli investitori finanziari −che in realtà non si contrappongono− ha condotto nel corso dell’autunno 2008 al salvataggio delle banche (i 28 miliardi di euro accordati da Konstantin Karamanlis di Nuovo Democrazia ad alcune banche) e al sostegno alle grandi imprese (settore automobilistico). Questo è stato fatto, in gran parte, tramite prestiti: buoni del Tesoro emessi sul mercato del debito pubblico (i mercati delle obbligazioni). Sotto l’affetto di questi prestiti, della diminuzione delle entrate legate meccanicamente alla diminuzione della produzione e delle vendite di beni (TVA) −come pure ai regali fiscali che in Grecia sono stati la base di un’alleanza sociopolitica del governo della Nuova Democrazia dal 2004− il debito pubblico è aumentato in tutti i paesi della UE. Dal 2007 al 2010, (calcoli e stime di Eurostat), il tasso di aumento è stato del 26,7% per l’eurozona; del 27,7% per la Francia; del 38,4% per i Paesi Bassi; del 28,3% per il Portogallo; del 72,1% per la Spagna; del 218,8% per l’Irlanda; del 12,2% per l’Italia; del 21,3% per la Grecia.

Quanto al debito in percentuale del PIL, Eurostat fa la seguenti valutazioni per il 2010: Francia: 81,5%; Paesi Bassi: 63,1%; Portogallo: 81,5%; Spagna: 62,3% (ma con una prospettiva di peggioramento molto forte per il 2011); Irlanda: 79,7%; Italia: 116,1%; Grecia 115%; l’eurozona: 83,6%.

Se la Grecia è il terreno di prova delle politiche di austerità della UE e della realizzazione di uno «Stato effettivamente neoliberista» non è dunque a causa dell’aumento del suo debito. Governi europei e istituzioni finanziarie internazionali, Banca Centrale Europea (BCE) e Fondo Monetario Internazionale (FMI), utilizzano il tasso del debito in rapporto al PIL come strumento di un attacco che vuole essere un banco di prova sociopolitico, al quale collaborano i capitalisti greci e il loro governo.

Tutti sanno che le attuali risorse fiscali della Grecia dipendono di fatto da tre fattori: i noli della flotta marittima, il commercio con il Medio Oriente −inclusa la Turchia− e il turismo. La crisi economica e la politica della BCE soffocano meccanicamente questi tre fattori. Anche con un governo «rigoroso», secondo i criteri della UE, il deficit sarebbe esploso. Non ci sono dunque i «salari troppo elevati» de/i/lle salariat* grec* o i redditi de/i/lle pensionat* all’origine dell’esplosione del debito.

Esaminiamo infine il ruolo specifico delle banche nella situazione attuale. Queste sono state salvate nel 2008: oggi dichiarano profitti importanti. Queste istituzioni diversificate hanno comprato buoni del Tesoro con i il denaro che gli è stato accordato dai governi. Hanno trasferito delle liquidità −che gli sono state accordate a interessi bassissimi− verso filiali speculative (edge funds) che cercano di guadagnare ancora di più sul debito pubblico, tra l’altro con strumenti speculativi come i CDS (Credit Default Swaps). [1]

Il potere del capitale finanziario è dunque uscito rafforzato dalla crisi e senza essere messo in imbarazzo da una pretesa «regolazione» che i governi hanno tanto invocato e che continuano a proclamare. Questo settore si sente abbastanza forte da speculare apertamente contro i governi e contro l’euro.

Più concretamente fa presente che è tempo di imporre a/i/lle salariat* una superausterità che assicuri il servizio degli interessi dell’insieme del debito e persino forse un rimborso del principale, almeno in parte.

«La finanza» ha come priorità di assicurare che i crediti accumulati dalle banche europee –tedesche, francesi, inglesi e, in misura minore, svizzere− sulla Grecia non siano svalorizzati. Domani, lo stesso scenario rischia di svilupparsi allo scopo di tranquillizzare le banche e le altre istituzioni (comprese sotto la formula quasi magica di mercati) fortemente impegnate in direzione della Spagna.

I padroni utilizzeranno i «piani di austerità» per ristabilire i loro profitti toccati dalla recessione del 2008-2009, invocando −tutti− la necessità «di affrontare la concorrenza internazionale»; la contrazione dei salari nel [settore] pubblico servirà da leva, con la disoccupazione, per abbassare i salari e intensificare e allungare il tempo di lavoro di quelli e quelle che dispongono di un posto di lavoro, formale o «informale», atipico.

Per raggiungere questi obiettivi, sarà necessario condurre una guerra sociale contro la popolazione salariata greca ed europea, con l’appoggio dei governi a tonalità, più o meno pronunciata, di unione nazionale; il che condurrà d’altronde ad accelerare una nuova e dura recessione nella UE.

È possibile che uno Stato della UE faccia fallimento nel corso di tali crisi del debito?

C-A.U.: In senso stretto uno Stato non può fare fallimento come un’impresa. In stato di cessazione di pagamento quest’ultima viene cancellata dal registro del commercio e deve liquidare i propri attivi (macchine, immobili, brevetti…) per pagare –spesso meno che più− i diversi creditori e i salari (almeno una frazione) dei licenziati. Il parallelo tra un paese e un’impresa non è dunque pertinente.

Per affrontare questa questione occorre avere presente la natura di classe dei prestatori (dei creditori) che si sono ingrassati pagando pochissime tasse e incassando gli interessi delle obbligazioni e con altri strumenti finanziari che posseggono; interessi pagati da* salariat* contribuenti.

Uno Stato potrebbe evitare uno scenario catastrofico di una incapacità di pagamento [o insolvenza] aumentando le entrate. In altri termini, prelevando delle imposte sulle categorie sociali più agiate che risparmiano di più, cosa che non diminuirebbe il consumo. Diversi studi dimostrano che il deficit di bilancio greco potrebbe essere coperto da una tassazione dei ricchi che sono tra i creditori dello Stato. Perché dimenticare che F.D. Roosevelt, nel 1932, fece passare il tasso marginale di imposizione dei redditi elevati al 79% (per il futuro, in Grecia, è previsto al 45%!). Uno studio della banca HSBC (Mathilde Lemoine) indica che il 29% dell’ultimo prestito di 5 miliardi di euro emesso dalla Grecia, è stato sottoscritto –a un tasso delirante del 6,25%− da greci, dunque da ricchi, e domani ancora più ricchi! La scelta della tassazione è rifiutata, a partire da una difesa degli interessi delle classi dominanti, il che implica un attacco multidimensionale condotto dai governi in carica contro la maggioranza che produce la ricchezza sociale di un paese.

L’affermazione che il tasso del 6,25% (in rapporto al 3,2% per le obbligazioni a 10 anni della Germania) del prestito è delirante si fonda su molte ragioni. 1° Aritmetica: il finanziamento del debito a un tasso del 6,25% accompagnato da una crescita nulla o negativa risulterà in un’esplosione catastrofica del debito. L’attuale piano di austerità greco equivale già, secondo l’OFCE (Ufficio francese delle congiunture economiche, Xavier Timbeau) almeno a un raddoppio dell’imposta sul reddito in Francia. 2° Questo tasso del 6,25% è accettato per «obbedire alla disciplina dei mercati», vale a dire gli investitori. Ora, questi ultimi sono largamente all’origine della crisi del 2008. Accettare i loro ordini equivale a camminare sulla testa. Quando «i mercati sono rassicurati» i salariati devono essere spaventati! 3° Una tale politica conduce alla distruzione delle capacità produttive di uno Stato a beneficio del pagamento degli interessi privati del debito. 4° Una soluzione elementare , persino nell’ambito di una politica borghese semi-keynesiana potrebbe essere la seguente: man mano che i titoli del debito greco (o di altri paesi) arrivano a scadenza, le banche della UE dovrebbero essere obbligate a sottoscrivere i nuovi titoli a un tasso di interesse con un tetto massimo. E se queste banche devono rifinanziarsi, potrebbero sempre depositare questi titoli presso la BCE, cosa che si fa già per le «obbligazioni buone».

Il rifiuto di una tale opzione ha come solo fondamento l’avidità di classe di guadagno degli investitori e dei loro complici governativi, e una scommessa politica su un grado sufficiente di «tolleranza sociale» delle masse lavoratrici (inquadrate dagli apparati politici e sindacali); senza menzionare il peso dei dogmi monetaristi e la difesa degli interessi specifici dominanti dei paesi del nord della UE, in particolare l’imperialismo tedesco.

Quale dovrebbe essere la risposta della sinistra e del movimento operaio in una tale situazione?

C-A U.: Nella misura in cui una opinione così moderata (non farsi imporre tassi indecenti e misure distruttrici) come quella indicata prima è chiaramente respinta, il ripudio del debito appare –dal punto di vista degli interessi dei lavoratori greci ed europei, e non solo di quelli del Portogallo, della Spagna e dell’Italia− come una strada ragionevole da imboccare.

Questo di deve basare sull’ampiezza della mobilitazione sociale e politica, l’imposizione di un rapporto di forza e la sua estensione su scala europea. La posta in gioco è infatti europea, come ripete dal gennaio 2010 “The Economist” la bibbia della City [il cuore bancario e finanziario di L.] londinese.

Per una volta, i creditori saranno gli zimbelli della compagnia, proprio loro che amano richiamarsi al rischio! Tanto più che gli speculatori che utilizzano i CDS −cioè una specie di assicurazione incendi su una casa che non si possiede, ma sperando che prenda fuoco, compreso giocando ai piromani− non esitano a strangolare i popoli.

Uno Stato resta uno Stato anche se decide di sbarazzarsi del fardello −o di una parte importante− del suo debito. Può almeno sospendere per qualche semestre il pagamento degli interessi, indicando che non ci sarà recupero. Può ridurre il montante nominale dei titoli del debito quando arrivano a scadenza. Ma è preferibile puntare in alto, dato che il contrattacco dei «mercati» contro i «cattivi pagatori» sarà ugualmente forte, limitato o ampio che sia il ripudio. E, allo stesso tempo, fare chiarezza sulle origini del debito, le sue componenti, le operazioni dubbie legate all’indebitamento. In fondo mettere in piedi una revisione dei conti popolare.

Bisogna che il ripudio fornisca risorse che siano almeno all’altezza del deficit corrente, per dare ossigeno. In effetti i prestatori dovranno pagare –non ricevendo più il prelievo di ricchezza che attendono pazientemente grazie al possesso di parti del debito pubblico− una somma che non è altro che le tasse che non hanno pagato in questi ultimi 25 anni e che hanno nascosto legalmente, ad esempio registrando le loro società a Cipro o in Svizzera, sull’esempio degli armatori greci.

In effetti, come abbiamo spiegato, hanno preferito governi che si indebitano (a loro favore) a governi che li tassano! Dunque, ecco un semplice giro del bastone dell’«etica» della quale i difensori del Capitale ci riempiono le orecchie.

Certo, questo ripudio deve essere accompagnato da un insieme di misure che vanno dalla nazionalizzazione delle banche a un nuovo sistema di imposte e a una riorganizzazione della sicurezza sociale e dei servizi pubblici....

Non è qui che un tale piano −che dovrebbe essere largamente discusso tra i settori mobilitati, unitamente a una vasta inchiesta sui bisogni sociali non soddisfatti− deve essere esposto. È compito de* salariat* della Grecia, de* immigrat* e de* lavorat* europe*. Poiché la crisi in arrivo è di una gravità senza paragoni dalla Seconda Guerra mondiale.



[1] I CDS sono contratti finanziari −assimilabili a un contratto di assicurazione− con l’obiettivo di proteggere contro il fallimento di un prestatario [o mutuatario, cioè chi prende a prestito]. Chi acquista un CDS paga un premio annuale, in contropartita del quale il venditore si impegna a compensare la perdita di valore di un attivo, o il caso di insolvenza di un prestatario. Contrariamente ad un assicuratore classico, il venditore di CDS non è tenuto a mettere insieme in anticipo i fondi necessari per coprire il possibile deprezzamento.


Charles-André Udry, economista, membro del “Mouvement pour le socialisme” (MPS-BSF) e animatore di “Editions Page deux”.

venerdì 18 giugno 2010

Il governo Marchionne


Se si votasse in Parlamento, il "lodo Marchionne" otterrebbe quasi l'80% dei voti. Probabilmente il Partito democratico si dividerebbe, si contorcerebbe, si strapperebbe i capelli (tranne Bersani) e poi, magari, si asterrebbe. Sarebbe l'unico partito ad avere questi dubbi e questo è indicativo della crisi politica in cui versa.


Salvatore Cannavò
Se si votasse in Parlamento, il "lodo Marchionne" otterrebbe quasi l'80% dei voti. Probabilmente il Partito democratico si dividerebbe, si contorcerebbe, si strapperebbe i capelli (tranne Bersani) e poi, magari, si asterrebbe. Sarebbe l'unico partito ad avere questi dubbi e questo è indicativo della crisi politica in cui versa.
Si potrebbe fare una specie di gioco di società e immaginare come sarebbe un vero e proprio Governo Marchionne, un governo cioè il cui collante, ispirazione e linea di marcia fosse quell'accordo che la Fiat è riuscita a imporre - senza particolare sforzo - a Fim e Uilm e che ha visto la coraggiosa opposizione della sola Fiom. Un accordo che si basa sul vero lascito culturale del berlusconismo: la centralità assoluta dell'impresa, dei suoi diritti, dei suoi profitti. Una centralità che non è messa in discussione da nessuno, tranne un po' di sinistra cosiddetta radicale. Ci permettiamo di osservare che nemmeno il partito di Di Pietro la mette in discussione fino in fondo anche se, più di altri, è oggi attraversato da attenzione e cura verso i lavoratori.
A Pomigliano, infatti, vige solo il soggetto-impresa: la sua necessità di avere la pace sociale in fabbrica; la sua necessità di saturare gli impianti e quindi avere livelli altissimi di produttività; la sua necessità di governare la forza lavoro in assoluta libertà. Il lavoro è reso semplice variabile dipendente, puro ammennicolo, senza alcuna soggettività né dignità. E se ce l'ha, questa va recisa alla radice.
Se hai questa concezione della politica, della società, dell'economia, puoi fare tranquillamente anche un governo che dura nel tempo. E infatti, diversi esponenti confindustriali non vedrebbero l'ora di "salire sul ring" per mettersi alla testa di un progetto del genere, vedi Montezemolo.
Con un simile programma, l'Italia potrebbe conoscere una fase nuova rispetto alla vischiosità attuale e potrebbe vedere quella situazione positiva che chiedono spesso le imprese, "i mercati", l'Europa e tutto ciò che della centralità dell'impresa ha fatto un dogma.
Di un tale governo non potrebbe far parte ovviamente Silvio Berlusconi, per la semplice ragione che nascerebbe solo una volta che l'attuale premier si fosse messo da parte (e va detto che a giudicare dalla situazione attuale, la cosa non è così campata per aria: inchieste che si allargano, rifiuti che ritornano, equilibri interni alla maggioranza che traballano e anche il sogno dell'Aquila che svanisce). Tolto Berlusconi, però, la sua maggioranza, in larga parte, potrebbe essere della partita. Un simile governo andrebbe bene a Tremonti e Sacconi (Brunetta non ce lo vorrebbe nessuno) che su Pomigliano hanno immaginato "la fine della lotta di classe" e impostato una nuova era nelle relazioni industriali. Ci starebbe certamente l'area "finiana" - Fini ha visto nel "patto" imposto dalla Fiat addirittura qualcosa che rimanda alle «grandi dottrine del Novecento», leggi l'economia corporativa fascista... - e l'Udc brigherebbe per prendere il comando della baracca.
Ci starebbero con grande impeto anche molti del Partito democratico: pensiamo a Fioroni che si è distinto negli attacchi alla Fiom, Letta, ma senza escludere dirigenti come Chiamparino e Fassino. Veltroni, nonostante si sia distinto per un bel siluro alla Fiom, avrebbe qualche difficoltà, impiccato com'è alla "religione del maggioritario" - e certamente farebbe sponda a Berlusconi per impedire un simile, immaginifico, scenario (quante volte l'ha già fatto?).
Non ci starebbe certamente l'Idv, vuoi per serietà, vuoi per calcolo. Ci starebbe stretta la Lega per ragioni speculari a quelle di Di Pietro ed è chiaro che Bossi perderebbe la faccia in un simile calderone. La fuoriuscita di Berlusconi, lascerebbe fuori dallo schema anche una fetta del Pdl con rimescolamenti al suo interno che oggi è difficile descrivere. Insomma, verrebbe fuori un larghissimo centro, in grado di governare il paese, un po' come Marchionne, Bonanni e Angeletti provano a governare il conflitto sociale.
Chi avrebbe un problema di troppo è il buon Bersani. La sua bonomia lo farebbe esitare e tergiversare: "si, un governo di questo tipo sarebbe una buona cosa ma, dai!, non possiamo mica farlo" e così via di oscillazione in oscillazione, senza scegliere il cedimento totale ma senza nemmeno mettersi con serietà dalla parte del lavoro. Alla fine il Pd ci starebbe ma in secondo piano, con un ruolo di stampella, consumando se stesso e il proprio futuro.
Il governo Marchionne è un gioco di società, non esiste e forse non esisterà. Però, "peccato", dirà qualcuno, "ci libererebbe di Berlusconi". Oppure, "meno male" diranno (giustamente) altri, "ci farebbe a pezzi". Che brutta alternativa che tocca a questo paese. Ce ne sarebbe un'altra, per favore?

Mirafiori sciopera per Pomigliano


Fermata dei lavoratori torinesi per protestare contro l'accordo separato. Anche la Fiat ammette la riuscita. La Fiom: «Un corteo come quello di oggi non si vedeva da anni»


I lavoratori delle Carrozzerie e della Powertrain di Mirafiori hanno scioperato questa mattina contro l'accordo per Pomigliano. Secondo la Fiom tutte le linee sono ferme e più di mille lavoratori sono usciti in corteo dalla Porta 2 della fabbrica. Per la Fiat l'adesione è stata del 30% alle Carrozzerie e del 2,8% alla Powertrain. «La vicenda Pomigliano - commenta Vittorio De Martino, della Fiom di Mirafiori - ha scatenato la protesta anche a Mirafiori. Tutti vogliono lavoro, ma a condizioni civili. C'è stata una grande manifestazione, la Fiat non può non tenerne conto». Per la Fiom di Torino ha scioperato oltre l'80% dei lavoratori delle carrozzerie di Mirafiori. Il corteo dei lavoratori ha raggiunto la Palazzina degli Enti Centrali. «La risposta dei lavoratori - osserva Federico Bellono, segretario generale della Fiom torinese - è stata eccezionale, come non si vedeva da anni. È un segnale di cui tutti dovrebbero tenere conto, la Fiat innanzitutto, ma non solo».

giovedì 17 giugno 2010

No al modello Pomigliano Una proposta unitaria alla sinistra


Appello di Franco Turigliatto e Flavia D'Angeli, portavoce nazionali di Sinistra Critica
Un incontro della sinistra per contrastare l'accordo separato e costruire un'iniziativa la più unitaria possibile

La Fiat ha posto ai lavoratori e alle organizzazioni sindacali a Pomigliano un diktat brutale e un ricatto vergognoso: "o accettate le mie condizioni e vado in un altro paese". Ennesima dimostrazione di un'arroganza padronale ma anche la volontà di andare all'incasso dei rapporti di forza sociali oggi del tutto sfavorevoli ai lavoratori e alle lavoratrici. Pesa il fallimento recente della sinistra - scomparsa dal Parlamento anche per essersi alleata alla "borghesia buona" di Marchionne - pesa l'inadeguatezza della Cgil a fronteggiare un attacco di tale portata e pesano anni e anni di batoste subite dai lavoratori che ne hanno fiaccato capacità di resistenza e consapevolezza dei propri interessi.

L’attacco parte da Pomigliano, dove i lavoratori sono più in difficoltà per il lunghissimo periodo di cassa integrazione, ma il futuro prospettato agli operai campani è quello che vogliono imporre a tutti i lavoratori Fiat, anzi a tutti i lavoratori italiani.

Nello stesso tempo la manovra finanziaria di Berlusconi, Tremonti, Draghi e Marcegaglia, è un decreto di lacrime e sangue, costruito e propagandato con lo scopo di dividere i lavoratori del settore privato da quelli pubblici, cioè di impedire una risposta unitaria e massiccia del mondo del lavoro.

Sinistra critica sostiene la battaglia condotta in solitudine dalla Fiom - ma anche dal sindacalismo di base, da sempre in prima fila nel fronteggiare l'attacco Fiat - e ne appoggia sia l'indizione di sciopero generale di 8 ore per il 25 giugno sia la proposta di un'assemblea dei delegati Fiat da tenersi a Pomigliano.

Ma come sinistra politica occorre fare di più, dare un segnale di utilità sociale e di consapevolezza della partita in gioco. Per questo proponiamo a tutte le forze che si riconoscono in questa battaglia di dare un contributo a un movimento forte unitario e dal basso contro l'accordo, a difesa dei diritti e della dignità del lavoro, per cercare di organizzare una riposta adeguata a quel "modello Pomigliano" oggi voluto dalla Fiat e che rappresenta un modello molto pericoloso per i lavoratori e le lavoratrici di questo paese. A partire dall'organizzazione delle manifestazioni per il 25 giugno, da tenere anche a Pomigliano.
Roma, 16 giugno 2010

Pomigliano e il ruolo della sinistra


Marchionne fu definito l'esponente della "borghesia buona" e mai definizione fu così smentita. Il Pd non se la sente di mettersi contro la Fiat, il resto della sinistra sì ma ha un problema di credibilità. Sinistra Critica propone una «iniziativa unitaria» a partire dallo sciopero del 25 giugno. Attorno alla battaglia su Pomigliano può innescarsi una risposta efficace?


Salvatore Cannavò
Come ricorda oggi in un'intervista al Fatto quotidiano, Cesare Damiano, già "riformista" della Fiom e poi ministro del Lavoro nel secondo governo Prodi, la Fiat ha sempre fatto «scuola» nell'ambito delle relazioni industriali. «Nel 1971 l'accordo Fiat sull'organizzazione del lavoro - spiega Damiano - determinò le caratteristiche della prestazione del lavoro in tutte le grandi aziende d'Italia (...) così come nel 1988 l'accordo sul premio di risultato portò successivamente all'introduzione del salario variabile che nel protocollo del 1993 ispirò l'intera contrattazione di secondo livello». Damiano "dimentica" il 1980 e il licenziamento - poi cassa integrazione - di migliaia di operai a Torino che innescò la protesta dei 35 giorni conclusasi con una sconfitta. Quella non fu una vertenza squisitamente sindacale ma chiaramente politica, intenzionata a modificare, riuscendoci, i rapporti di forza nella società italiana.
L'accordo separato di Pomigliano si iscrive in questa genealogia negativa targata Fiat. Ha componenti chiaramente lavoriste, cioè interne alle condizioni di vita interne alla fabbrica - lo straordinario obbligtorio a 120 ore, la pausa ridotta di dieci minuti, l'introduzione del World Class Manufacturing, la pausa mensa a fine turno - ma ha anche una valenza generale, "politica", che riguarda i complessivi rapporti di forza sociali. Le sanzioni al diritto di sciopero costituiscono il cuore di questa offensiva così come il rifiuto di pagare la malattia a carico dell'azienda in caso di assenze dal lavoro superiori alla media (ma a quale media la Fiat non l'ha ancora detto).
Un passaggio di fase che capitalizza un dato della politica che è sotto gli occhi di tutti: una sinistra scomparsa dal Parlamento e inefficace sul piano sociale, un Pd che si schiera direttamente con la Fiat salvo chiedere un po' più di cortesia e un'Italia dei Valori - il soggetto politico nuovo di questa fase - che si schiera con i lavoratori ma che con la testa pensa a bavagli e intercettazioni più che alla lotta di classe.
Le prese di posizione sono le più disparate e le più diversificate tra loro. La più paradossale è quella di Fausto Bertinotti: «Dove è finita la sinistra dei post-it, di Repubblica, che protesta contro il bavaglio? A Pomigliano non la vedo» dice l'ex presidente della Camera in un'intervista al Riformista. L'intervistatore dimentica però di chiedergli conto dei vecchi giudizi su Marchionne, definito esponente di quella «borghesia buona» con cui la sinistra doveva allearsi al tempo del governo Prodi. Più lesto a porre la domanda è invece il Corriere e in questo caso Bertinotti ammette un ripensamento: «Anch'io, non lo nego, ho parlato bene di Marchionne ma se poi fa cose come queste, con la stessa libertà con cui ho detto che era un bravo manager ora dico che è un personaggio pessimo». Peccato che il giudizio positivo coincidesse con il momento di massimo prestigio e visibilità dell'ex segretario di Rifondazione e che quella scelta, allora, abbia contribuito alla perdita di credibilità della sinistra di classe. E questo è quello che oggi pesa come un macigno.
Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, a Pomigliano ci è andato a volantinare e ovviamente i suoi giudizi sono in parte analoghi a quelli di Bertinotti: «Dov’è quel centro sinistra che giustamente si indigna per le nefandezze di Berlusconi? Dove sono i direttori dei quotidiani che giustamente protestano contro le leggi bavaglio? Dove sono i liberali che gridano al golpe quotidianamente? In silenzio». Giusto, ma nei suoi due anni di segretario, Ferrero ha offerto molto proprio a quelle posizioni e quando mai il Prc si è sganciato dalle coalizioni di centrosinistra con cui ha governato, ad esempio, proprio la regione Campania fino a tre mesi fa? E lo stesso vale per Vendola e Sinistra e Libertà. Le prese di posizioni esistono ma quello che si misura pesantemente in questa vicenda è la perdita di credibilità. E anche le formazioni minori, come Sinistra Critica o il Pcl, che non hanno certamente remore a stare dalla parte dei lavoratori e della Fiom e a proporre mobilitazioni unitarie, hanno comunque una voce flebile, frutto delle sconfitte e della dispersione di energia.
Chi si muove con più credibilità è ovviamente il partito di Di Pietro che annuncia: «Ci impegneremo a fianco degli operai perché nessun diritto venga prevaricato». Eppure, la percezione che l'Idv rimanda, nonostante gli sforzi del suo responsabile Lavoro, Maurizio Zipponi, già Fiom e già deputato del Prc, è di avere il baricentro politico da un'altra parte.

Nel Pd invece è un fiorire di dichiarazioni da collezione. Fassino, che aspira a fare il sindaco di Torino, dice di continuare a fare il tifo per Marchionne: «Sta passando l'ultimo treno per Pomigliano e il sindacato non deve sottrarsi alle proprie responsabilità». Nessuna esitazione nemmeno per l'attuale sindaco, Chiamparino che si augura un sì al referendum e un conseguente ripensamento della Fiom. Da un altra posizione muove invece l'ex segretario della Cgil, Sergio Cofferati, oggi parlamentare europeo, il quale invece sottolinea il pericolo che l'accordo violi non solo la Costituzione italiana ma anche i trattati europei a cominciare dal Trattato di Lisbona. In questa babele scomposta il segretario Bersani cerca di portare un po' d'ordine affermando su Repubblica che l'unica posizione che conta è la sua. E la sua posizione è così mediata e sfumata che si fa fatica a capirla: «L'accordo va bene ma non deve diventare un modello» che è diventata la posizione del segretario Cisl, Bonanni. Però «l'azienda non dovrebbe umiliare gli operai e cancellare i diritti» che invece è la posizione di Epifani. Detto questo «la situazione in quello stabilimento è insostenibile, non può stare sul mercato con quei livelli di produzione» che è la posizione della Fiat. Manca forse solo la posizione del Pd ma questa non è una novità. Ma battute a parte, il Pd in questa vicenda non tocca palla, perché le questioni sociali sono ormai estranee alla sua traiettoria e cultura e si incarica di affrontarle solo dal governo; dall'opposizione non sa dire nulla perché non riuscirebbe mai a demarcarsi da una logica di impresa che ormai è la sua logica.

Resta però il fatto di una situazione difficile e che costituisce un nuovo colpo per lavoratori e lavoratrici. Che fa la sinistra? come si rende utile e come coglie il passaggio per provare a dare una risposta? Un'occasione è data dal 25 giugno, quando ci sarà lo sciopero di 8 ore proclamato dalla Fiom. Si potrebbero tenere manifestazioni in tutta Italia di solidarietà ai lavoratori Fiat in particolare a Pomigliano anche come reazione al referendum del 22 giugno. Sinistra Critica, per bocca dei suoi portavoce, Turigliatto e D'Angeli, avanzano la proposta di un incontro unitario a sinistra per «contribuire a un movimento forte unitario e dal basso contro l'accordo, a difesa dei diritti e della dignità del lavoro, per cercare di organizzare una riposta adeguata al "modello Pomigliano"».

martedì 15 giugno 2010

Lo scatto di orgoglio della Fiom


Conclusione unanime del comitato centrale che respinge il piano Fiat ma "apre" su 18 turni e straordinari. A patto di non toccare i diritti "indisponibili" sancit da Contratto e Costituzione. Il 25 giugno sciopero di 8 ore e prima assemblea dei delegati Fiat del Mezzogiorno a Pomigliano. La Cgil, per ora, si allinea


Salvatore Cannavò
L'intervento più applaudito lo fa Andrea Amendola, segretario Fiom di Pomigliano con un accorato appello a «resistere», a cogliere «la valenza generale» dell'attacco Fiat e del governo e ad ascoltare i lavoratori di Pomigliano «ché se firmiamo si rivolteranno con noi e allora il sindacato avrà davvero chiuso». «Guardate che ci chiedono di non firmare perché vuol dire resistere; poi, certo, se devono scegliere tra vivere o morire sceglieranno di vivere, è logico». Il prolungato applauso che riceve e il fatto che gli undici interventi dopo di lui decidano di cancellarsi permettendo a Landini, il segretario generale, di leggere i due ordini del giorno finali, dimostrano lo stato d'animo di questa Fiom che, ancora una volta, si mette di traverso al tentativo di dichiarare archiviata «la lotta di classe» come ha detto Tremonti.
L'ordine del giorno finale del Comitato centrale, chiamato a discutere di Fiat, viene approvato all'unanimità, anche la minoranza "epifaniana" lo approva, perché «oggi non ci stiamo a dividere la nostra organizzazione», dice Durante esponente della minoranza. La Fiom sceglie di resistere perché ritiene che solo in questo modo possa esistere e Landini spiega che le «condizioni poste dalla Fiat - straordinari a 120 ore, da fare anche in pausa, pausa ridotta da 40 a 30 minuti, deroghe al contratto e alle leggi, sanzioni per chi sciopero, indisponibilità a pagare la malattia nei primi 3 giorni - sono inaccettabili». Lo ha già detto al tavolo dell'altro giorno in Confindustria, ma lo mette per iscritto e chede al principale organismo Fiom di approvarlo. Respinto il piano Fiat, dunque, e respinta la pretesa di derogare dai contratti nazionalie e di riscrivere le regole della contrattazione. La portata dell'attacco non sfugge a nessuno degli interventi. Anche per questo il referendum previsto da Fim e Uilm, e supportato dall'azienda, non è proponibile «perché riguarda diritti che non sono disponibili» in quanto sanciti da leggi e Costituzione. C'è chi come Sergio Bellavita, giovane segretario della Fiom di Parma in predicato di entrare nella segreteria nazionale, lo dice ancora più chiaro: «siamo in una situazione peggiore del 1980 con quella "marcia dei 40 mila e la sconfitta dei 35 giorni", perché stavolta l'obiettivo è più ambizioso, eliminare la contraddizione rappresentata dalla Fiom». Ma il problema della «valenza generale» dell'attacco è presente in tutti gli interventi e motiverà poi, nel secondo ordine del giorno, quello sullo sciopero contro la manovra, la necessità di portare a 8 ore lo sciopero generale del 25 giugno che invece la Cgil manterrà a 4 ore. Così come si iscrive in questa logica la proposta di realizzare un'assemblea generale dei delegati Fiat del Mezzogiorno da tenere nei prossimi giorni a Pomigliano.
Più problematica la questione del referendum. Respinto in quanto legato a diritti «indisponibili» resta però il problema dell'indicazione di voto in caso di sua tenuta. Se la sinistra interna ha chiesto di «non partecipare al voto» la minoranza ha posto il problema del rapporto con quei lavoratori che invece voteranno e, probabilmente, voteranno sì. Il nodo non è stato sciolto e si vedrà già nei prossimi giorni come risolvere la contraddizione.

Ma, allo stesso tempo, la Fiom non ci sta a passare per la responsabile della chiusura dello stabilimento campano e quindi esplicita le proprie«condizioni», quelle su cui è disposta a chiudere. La Fiom accetterà infatti i 18 turni e lo straordinario di 40 ore che «permetterebbero a Fiat di produrre le 280 mila Panda che costituiscono l'obiettivo del gruppo» e che sono previsti dal contratto nazionale. «Se la Fiat lo vuole applicare in questo modo la Fiom darà l'ok» dice l'odg finale.. Si tratta di «disponibilità» mai concesse prima dall'organizzazione dei metalmeccanici - «a Melfi ci siamo opposti ai 18 turni e lì se ne fanno 17» spiega ancora Amendola - che "apre" quindi su maggiore efficienza e flessibilità e su una nuova organizzazione della produzione. L'apertura rappresenta il passaggio su cui la minoranza interna, che sta con Epifani nella confederazione, converge e decide di sostenere la prova di orgoglio della Fiom che esce dal suo vertice con un voto unanime.

In ogni caso, la Fiom esce da due giorni di attacchi intensi ricevuti da tutte le parti - Fiat, Confindustria, Governo, Cisl e Uil, una parte del Pd e della stessa Cgil - con uno scatto di orgoglio. Voglia di resistere, capacità di manovra, forte unità interna - in particolare della maggioranza ma per oggi anche di tutta l'organizzazione. Da capire invece il rapporto con Epifani che in giornata, ha chiesto un incontro a quattr'occhi con Landini nel quale il segretario generale ha sondato le possibilità di ammorbidimento della Fiom. Registrando una certa nettezza di posizioni ma anche apprezzando le disponibilità che poi saranno registrate nel documento finale. Il voto favorevole degli "epifaniani" lo dimostra anche se c'è chi teme che il consenso di Durante sia «a scadenza». Resta il fatto che dopo l'intervento di Epifani alla festa della Cisl, in cui proponeva uno sblocco della vertenza, ieri la segreteria Cgil ha diramato un comunicato per porre l'accento sul fatto che la proposta Fiat «può violare la legge, in particolare su sciopero e malattia» e chiedendo all'azienda «una riflessione». Un comunicato apprezzato dalla Fiom e che, probabilmente, tiene aperta ancora un po' la trattativa. Oggi Fiat ha convocato i sindacati che hanno aderito alla sua proposta più la Fiom come "osservatore". La palla, per ora, passa all'azienda torinese.

Comunicato di SINISTRA CRITICA


La fiat prosegue il suo piano nel ribadire la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese.
Ai lavoratori siciliani, Marchionne non ha chiesto se hanno voglia di lavorare.
Ai lavoratori di Pomogliano d’Arco ha posto un ricatto: nello stabilimento si produrrà la nuova Panda a
condizione che
 si lavori su 18 turni, quindi la notte e il sabato
 la pausa mensa a fine turno
 riduzione delle pause e nuova metrica
 la pausa mensa e i giorni di riposo occupati da lavoro straordinario obbligatorio
 fiat può decidere di non pagare la carenza, i primi 3 giorni di malattia
 assoluto divieto di protestare e di scioperare, altrimenti c’è la minaccia del licenziamento
La condizione per avere un lavoro e un reddito, per la Fiat e Marchionne, è di tornare a essere dei servi
che, con il cappello in mano si prostrano alle pretese del padrone.
Già altre aziende iniziano a ricattare lavoratori e sindacati condizionando la possibilità di produrre,
alla disdetta degli accordi sindacali aziendali per aumentare lo sfruttamento e per ridurre il salario.
E’ facile prevedere che quando a Mirafiori si porrà la questione di una produzione sufficiente per
mantenere l’occupazione, la Fiat porrà lo stesso ricatto.
Sinistra critica è a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici di Termini Imerese e di Pomigliano d’Arco
nella difficile lotta per difendere il posto di lavoro e condizioni dignitose.
Sinistra critica è a fianco della Fiom‐Cgil e dei sindacati di base che hanno cercato di sottrarre i
lavoratori di Pomigliano al ricatto della Fiat.
Sinistra critica denuncia la propaganda mediatica che vuole colpevolizzare i lavoratori e la Fiom.Cgil di
eventuale non produzione in Italia della Nuova panda, nascondendo la condizioni del piano Fiat.
Sinistra critica sosterrà e si impegnerà per far crescere la consapevolezza nei lavoratori, che il posto di
lavoro non si difende accettando condizioni peggiori, ma con la mobilitazione e la lotta per il diritto al
lavoro e a una vita dignitosa.
Servirà la più ampia mobilitazione di tutti i lavoratori per respingere l’aggressione alle condizioni di
lavoro e ai salari, che parte dal ricatto di Pomigliano per essere esteso a tutti i salariati. Servirà l’unità
di tutti i lavoratori e di tutte le organizzazioni sindacali, dalla Fiom ai sindacati di base, per contrastare
il disegno del padronato.
Mai come oggi si produce tanta ricchezza. Non c’è nessuna ragione per cui gli operai e le operaie, gli
impiegati e le impiegate debbano vivere peggio.

sabato 12 giugno 2010

AGGRESSIONE, RICATTO E RAPINA


E’ quanto padroni e governo stanno mettendo in atto contro la classe lavoratrice.

L’AGGRESSIONE
La Fiat ha posto ai lavoratori e alle organizzazioni sindacali a Pomigliano un diktat brutale e un ricatto vergognoso: o accettate le mie condizioni e vado in un altro paese.
Le condizioni della Fiat sono quelle che alcuni lavoratori hanno definito “una schiavitù senza catene”:
- non solo i 18 turni molto pesanti nelle loro modalità, ma anche
- la deroga dal contratto nazionale di lavoro
- la deroga ad alcuni leggi fondamentali sul lavoro.
Attacco alle pause, alla mensa, riduzione dei salari, deroga al contratto sullo straordinario obbligatorio, aumentandolo fino all’80%; deroga dal contratto sui recuperi produttivi, abolizione del pagamento dei primi 3 giorni di malattia in casi di assenza superiori a un certa percentuale.
E poi ancora, l’obbligo per tutte le organizzazioni sindacali di rigare dritto su straordinari e flessibilità pena sanzioni verso i sindacati e RSU e infine il licenziamento per quei lavoratori che non obbedissero alle nuove, inflessibili regole della flessibilità.
La Fiat vuole dei servi da sfruttare come e quando vuole, non dei lavoratori con dei diritti.
L’attacco parte da Pomigliano, dove i lavoratori sono più in difficoltà per il lunghissimo periodo di cassa integrazione, ma il futuro prospettato agli operai campani è quello che vogliono imporre a tutti i lavoratori Fiat, anzi a tutti i lavoratori italiani.

LA RAPINA
Nello stesso tempo la manovra finanziaria di Berlusconi, Tremonti, Draghi e Marcegaglia, è un decreto di lacrime e sangue per l’intera classe lavoratrice, costruito e propagandato con lo scopo di dividere i lavoratori del settore privato da quelli pubblici, cioè di impedire una risposta unitaria e massiccia del mondo del lavoro Sposta colossali fortune a favore dei ricchi, degli speculatori, delle banche; precipita il paese in una lunga depressione e determina una drammatica crisi sociale di povertà e disoccupazione;
o aumenta un’altra volta l’età della pensione per donne e uomini; blocca i salari dei lavoratori pubblici
o taglia selvaggiamente i trasferimenti agli enti locali, così chiuderanno nidi, scuole materne, scuole, assistenza agli anziani, trasporti, servizi sociali di ogni genere;
o taglia 130 mila insegnanti nelle scuole, di oltre 150 mila i lavoratori nella sanità,
Con un'altra legge (il collegato sul lavoro) Governo e Confindustria sferrano un colpo mortale ai lavoratori del privato, ai residui diritti e alle conquiste del mondo del lavoro, smantellando lo Statuto dei diritti dei lavoratori .

NON DOBBIAMO ABBASSARE IL CAPO DI FRONTE ALLA FIAT, AI PADRONI E AL GOVERNO. Dobbiamo reagire; a pagare devono essere i responsabili della crisi.

Non dobbiamo rassegnarci, non dobbiamo lasciarci dividere: da una parte ci sono la vita e il lavoro delle classi popolari, di tutti i lavoratori e lavoratrici, pubblici e privati, italiani e migranti; dall’altra i profitti di una classe padronale avida e di un ceto politico complice. Dobbiamo trovare la strada della lotta per difendere occupazione salario e diritti.

Occorre un forte movimento unitario e dal basso.
Le forze politiche, sociali, sindacali che non vogliono abbandonare la difesa dei diritti di lavoratori, lavoratrici, giovani e precari devono trovare l’unità per sostenere un’ampia mobilitazione, che permetta di sconfiggere il disegno reazionario della Fiat (il ritorno al padrone delle ferriere dell’800) e difendere realmente il mondo del lavoro e gli interessi popolari.


SINISTRA CRITICA Torino

venerdì 11 giugno 2010

Fiat, obiettivo Fiom


L'azienda guidata da Marchionne strappa l'adesione di Fim, Uilm, Ugl e Fismic al proprio piano per Pomigliano. Resiste solo la Fiom che parla di «ricatto». Sindacati e azienda organizzeranno il referendum al centro del quale ci sarà una sola domanda: spostiamo tutto in Polonia o accettate il diktat di Torino?


E' la Fiom l'obiettivo principale della Fiat che è riuscita stasera a ottenere l'obiettivo di dividere i sindacati dei metalmeccanici e strappare il consenso di Fim, Uilm e Fismic al suo piano per Pomigliano. Il sindacato della Cgil ha detto no definendo quello di Marchionne un vero e proprio «ricatto». Inizialmente sembrava che anche l'Ugl avesse detto no ma dopo qualche minuto è arrivata l'adesione del sindacato legato al centrodestra. «Non è ancora l'accordo separato», ha spiegato il segretario della Fiom, Landini «perchè non hanno firmato niente altro che il testo deciso dalla Fiat che deroga a contratti e leggi dello Stato. Si tratta di un ricatto bello e buono verso i lavoratori di Pomigliano e verso la Fiom». La Fiom, esprimendo un «giudizio negativo» ha comunque dato appuntamento al Comitato centrale dell'organizzazione che si terrà lunedì e che «deciderà sulle iniziative da intraprendere». Che potrebbero essere anche "sorprendenti". Dal canto loro, le organizzazioni che hanno accettato il piano Fiat hanno dichiarato che faranno ricorso a un referendum tra i lavoratori per avallare l'intesa.
Ed è su questo che si gioca il senso dell'intesa sottoscritta ieri. Perché l'azienda torinese si disporrà ad accettare l'esito della consultazione e quindi a fare in modo che la sua proposta venga accettata dalla maggioranza dei lavoratori. Il cuore dell'intesa siglata ieri sera è qui, con Fiat che dopo aver chiesto per tutta la giornata un accordo unitario ha deciso di «apprezzare» le disponibilità separate e di disporsi all'esito del referendum. «Avremmo certamente preferito un accordo unitario ma prendiamo quello che passa il convento» dicono dall'azienda. E sul referendum si esprime un certo ottimismo: «Noi pensiamo che sarà positivo, non crediamo che il piano sarà rigettato, anche perché in quel caso l'azienda sarebbe legittimata a spostare la produzione altrove. Ma se non investiremo a Pomigliano la colpa sarà tutta della Fioim». Che dal canto suo, fa sapere che potrebbe anche non partecipare a una consultazione che mette in gioco diritti "indisponibili" sanciti dalla Costituzione, come il diritto di sciopero. La Fim, invece, si dichiara soddisfatta dallo «sviluppo» che verrà garantito a Pomigliano e dal fatto di aver inserito una clausosa «di raffreddamento» degli effetti di sanzione agli scioperi che il piano prevede. L'appuntamento per la firma dovrebbe essere fissato per martedì prossimo.
E i prossimi giorni saranno "infernali" per la Fiom. Tutto il quadro sindacale, politico, istituzionale e confindustriale farà una pressione senza precedenti perché il piano venga accettato e votato dai lavoratori. Il referendum di Pomigliano sarà un referendum costituente, quello in cui si getteranno le basi per la contrattazione al tempo della crisi: tutta a vantaggio delle imprese, senza diritti certi per i lavoratori.

giovedì 10 giugno 2010

Debito pubblico, l'unica razionalità


La crisi del debito «sovrano» è dovuta alla semplice circostanza che il debito privato (dopo il caso Lehmann) è stato trasferito all'operatore pubblico, a cui si è chiesto senza limiti di salvare il sistema bancario e finanziario. Ma la crisi la si può superare oggi solo con il debito, non quello privato ma quello pubblico


Riccardo Bellofiore
(da il manifesto)
La crisi mette in difficoltà anche le teorie economiche. Con risultati singolari, come ad esempio l'intervento di Jeffrey Sachs sul Financial Times («È ora di fare un piano per il mondo dopo Keynes»), che sembra cancellare una serie di fatti.
La crisi del debito «sovrano» è dovuta alla semplice circostanza che il debito privato (dopo il caso Lehmann) è stato trasferito all'operatore pubblico, a cui si è chiesto senza limiti di salvare il sistema bancario e finanziario. L'esplosione dei disavanzi non è stata affatto «keynesiana», perché le misure di stimolo all'economia reale sono state compresse ed effettuate in minima parte, per salvare l'economia di carta. Anche in Europa, e persino in Germania, ci sono state misure anticliche, in buona misura grazie alla presenza di stabilizzatori automatici, in parte per sostegni temporanei a imprese e lavoro, abbandonati ai primi germogli di una supposta ripresa. Questo abbandono e le misure di selvaggia restrizione dei bilanci pubblici in Europa sono un errore che tutti pagheranno caro. Far finta di non sapere che l'indebitamento irlandese, spagnolo o greco è l'altra faccia degi avanzi tedeschi e olandesi, poi, più che ignoranza, pare un crimine. Irlanda e Spagna erano gli allievi modelli dell'Europa sul piano fiscale, quando le cose andavano bene.
E' singolare pensare che che i paesi in disavanzo esterno, come Usa e UK, debbano puntare sulle esportazioni nette, senza dire una parola sulla necessità che contemporaneamente siano i paesi in surplus commerciale a espandere la loro domanda. Stanno facendo quasi tutti il contrario. E' singolare che si invochi l'investimento (privato?) quando quest'ultimo non ha mai trainato l'economia mondiale nei decenni precedenti; figuriamoci ora.
Il punto di Keynes è che la crescita deve essere trainata dalla domanda autonoma. E dove si può trovare ora il motore della crescita, se non può venire dai salari, né dal consumo spinto dal debito e dalle bolle, né dagli investimenti privati, né tantomeno dalle esportazioni nette su scala globale (visto che il pianeta è una «economia chiusa»)? Non si vede proprio alternativa alla spesa pubblica, se non la crisi. Senza dimenticare una vecchia verità: non c'è sviluppo che non nasca dal debito. Può essere il debito dell'imprenditore schumpeteriano (oggi insufficiente), o del privato per sviluppare i consumi (ma si è visto che è insostenibile). Non resta che il debito che sostiene la spesa pubblica in disavanzo (se è sostenibile e se dà luogo a nuova produzione). E' il debito privato non schumpeteriano, non quello pubblico, a essere sul banco degli imputati.
Dice Sachs che non si può sperare che un'agenda strutturale di lungo termine risolva i problema immediati posti dalla recessione. E ammette la necessità di una spesa sociale anti-ciclica che dia sostegni al reddito, alla sicurezza sociale, alla salute, alla ricerca e all'educazione (il contrario di quel che fa Tremonti). Ma anche lui pretende che il piano di medio-lungo termine inizi con tagli al disavanzo ora. E' vero proprio il contrario. Il punto è che si devono fare due cose insieme: il sostegno alla spesa e l'investimento di lungo termine, la «ripresa» e la «riforma». Non è facile, ma non vedo altra strada. E' la qualità della spesa pubblica che conta perché, se fa aumentare la qualità del sistema, questo produrrà il reddito e le entrate a copertura della spesa, riducendo disavanzi e debito; in secondo luogo, aumenterà la produzione e la produttività. Non esiste un'altra via. Se si taglia oggi il disavanzo solo per tagliarlo, riesploderà poco dopo per gli effetti automatici recessivi della manovra, abbattendo ulteriormente produzione e produttività del sistema. E' dunque lo Stato, qui e ora, che deve fornire lavoro non qualificato e qualificato, insieme. Certo, quanto detto non risolve del tutto il problema del reperimento del finanziamento. E qui Sachs dice l'ovvio che tutti hanno paura di dire: i ricchi devono pagare non solo di più, ma molto di più. Di spazio, per un discorso del genere ce n'è; e da noi molto più che altrove. Come pure per la riduzione di spesa inutile e socialmente dannosa, a partire da quella militare.

martedì 8 giugno 2010

Il vero volto dei padroni


Miserie e (poche) nobiltà della Confindustria nostrana nel libro di Filippo Astone "Il partito dei padroni" edito da Longanesi


Salvatore Cannavò
Un altro segno della crisi della sinistra è il libro di Filippo Astone "Il partito dei padroni" (Longanesi, 383 pg., 17,60 euro). Un giornalista in forza al Mondo, il settimanale della Rcs, il giornale del salotto buono; una casa editrice che non sta nella tradizione della sinistra culturale italiana anche se oggi è un tassello di quel gruppo Mauri Spagnol che rappresenta l'outsider principale contro Mondadori e Rizzoli. Eppure il libro costituisce un'analisi impietosa, di quelle che la sinistra non riesce a fare, di quello che è oggi la classe padronale italiana, dei suoi equilibri politici interni e dei suoi comportamenti in diretta sul campo, a volte al limite del voltastomaco. Come il caso che Astone sceglie di mettere in apertura del libro per presentare "la faccia truce dei padroni" quella della Umbria Olii, distrutta da un incendio nel quale persero la vita cinque operai, bruciati vivi. Giorgio Del Papa, amministratore delegato e principale azionista dell'azienda, ha citato le famiglie degli operai morti chiedendo un risarcimento di 35 milioni di euro perché l'incendio sarebbe stato provocato dalla noncuranza di quei poveri lavoratori. Un'infamia oltre che un'ingiustizia, hanno risposto le famiglie, che si sono rivolte anche al Capo dello Stato (cosa ha risposto?) e che piene di rabbia e di dolore sono costrette a sostenere un vero e proprio processo giudiziario.

La faccia truce
Faccia truce o vero volto? A fronte di un caso come questo, il libro mette in evidenza come invece Condindustria, il partito dei padroni, cerchi invece di presentarsi con un volto moderno, riformatore, in cerca di una stabilizzazione del paese e di un clima politico meno rissoso. Il volto "cool" di Luca Cordero di Montezemolo, cresciuto in casa Fiat, uomo dalle mille poltrone e dalle ambizioni politiche soffocate a fatica, leader dell'associazione imprenditoriale e poi, dopo la successione di Emma Margegaglia, presidente di una Fondazione, Italia Futura, con la quale provare a tessere una strategia politica. Oppure il volto più ruspante e pragmatico dell'imprenditrice mantovana che a differenza dell'ex presidente Fiat, ha dislocato la Confindustria decisamente dalla parte del governo Berlusconi in cambio di favori, piccoli privilegi, vere e proprie prebende (anche per la propria famiglia, come dimostra il caso dei lavori alla Maddalena per il G8).
Se il caso della Umbria Olii è certamente il più estremo, è anche vero che dietro il volto suadente e moralizzatore, si nasconde un incessante lavorìo per ottenere risultati concreti da questo o quel governo. E dal governo Berlusconi Confindustria di risultati ne ha ottenuti non pochi come Astone scrive: la privatizzazione dei servizi pubblici locali con una possibile «grande abbuffata» da circa 100 miliardi di euro; la promessa del nucleare, con un giro di affari che supera i 30 miliardi; la riforma della scuola con gli incentivi agli istituti tecnici, il rilancio dei professionali, e un'università che viene di fatto consegnata ai privati; e poi tutti i tipi di incentivi, la detassazazione degli utili, il fondo di credito per le piccole imprese e altro ancora. Certo, ci sono le delusioni, la riduzione delle tasse che non arriva, grandi opere infrastrutturali che non decollano ma sostanzialmente il programma di governo segue pedissequamente quello di Confindustria. Perché, il punto è questo, il "partito dei padroni" si muove come un vero partito, ha una struttura di oltre 4 mila dipendenti per rappresentare 142 mila imprese, e ha un suo programma politico che resta piuttosto immutato nel tempo, presidente dopo presidente.

Il programma dei padroni
Un programma politico che si riassume in un'ideologia da «far west" in cui l'impresa deve essere liberata da "lacci e lacciuoli", libera nei suoi affari e nel suo profitto, messa al centro della vita politica e sociale. I quattro punti fondamentali di questo programma sono così definiti: «Privatizzare qualunque cosa tranne (per ora) l'aria; abbassare drasticamente le imposte e pertanto la spesa pubblica; riformare radicalmente la contrattazione e il diritto al lavoro per ottenere la massima flessibilità e minori costi; adoperarsi per attuare le riforme indispensabili a un paese moderno» cioè burocrazia più efficiente, infrastrutture, incentivi a ricerca e sviluppo. Questo programma non cambia mai e le richieste ai governi di turno sono sempre le stesse. E, se guardiamo agli ultimi venti anni, ci accorgiamo che questo programma è stato pazientemente applicato con certosina precisione (anche se questo non basta ancora al "partito dei padroni") sia dai governi Berlusconi che da quelli del centrosinistra.
Ma siccome non basta mai, la Confindustria si esercita con foga e determinazione nel "j'accuse" contro la politica, i suoi ritardi, i suoi riti, i suoi costi, additati come responsabili non secondari - i responsabili principali sono sempre i sindacati - dell'impasse italiana. Solo che quando si guarda in casa padronale ci si accorge - e questo il libro di Astone lo permette benissimo - che quei costi, quei ritardi, quelle alchimie sono esaltati all'ennesima potenza. Confindustria gestisce un bilancio complessivo - compresi i bilanci delle Unioni provinciali e regionali - di oltre 500 milioni di euro ma nessuno ne sa nulla (mentre per i bilanci dei sindacati viene chiesta, giustamente, la massima trasparenza); le sue regole interne, per l'elezione del Presidente, della Giunta, del Direttivo, delle svariate strutture che si controllano a vicenda, sono degni «del Partito comunista cinese». La lotta per il controllo delle Unioni provinciali, delle Commissioni nazionali e della Presidenza è senza esclusione di colpi. Al suo interno vivono correnti, cordate - ancora poco noto il "Salotto buono 2" che lega Cordero di Montezemolo, Della Valle, Luigi Abete, Vittorio Merloni - gli sgomitamenti delle ex aziende di Stato oggi colossi energetici come Eni e Enel. In prima fila nella lotta contro le "caste", Confindustria è un fior di casta, con i suoi mandarini e i suoi nepotismi, i costi eccessivi ma soprattutto i danni sociali che le sue scelte politiche provocano.

La casta confindustriale
Messe di fila, nel capitolo titolato "La casta di lorsignori", le principali gesta confindustriali smentiscono platealmente quell'ideologia a base di meritocrazia e modernità, di flessibilità e crescita economica che pure professano. Anzi, descrivono «una foresta pietrificata» che ha grandi responsabilità nell'edificazione del "caso italiano". Il modo con cui Tronchetti Provera ha spennato gli azionisti Pirelli e poi quelli Telecom; il modo con cui Geronzi è stato portato alla presidenza di Generali senza essersi mai occupato di Assicurazioni in vita sua; il gioco delle scatole cinesi che permette a John Elkann di decidere i destini della Fiat possedendone direttamente solo il 6%; gli stipendi e le stock options che intascano i proprietari-manager delle imprese anche quando producono perdite favolose e senza alcun principio meritocratico; il caso Alitalia, Fastweb, senza dimenticare Parmalat e Cirio. Una carrellata che permette a Astone di concludere il libro con questa considerazione: «All'inizio ci siamo chiesti se, e in quale misura, i protagonisti del capitalismo nostrano abbiano corresponsabilità nella deriva italiana. A partire da una domanda: ma Marco Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo sono poi così diversi da Antonio Bassolino, Rossa Russo Jervolino e Mara Carfagna? Alla fine del viaggio la risposta è no». Le similitudini posso essere ampliate ma la sostanza è quella: una classe dirigente dedita a bacchettare tutto e tutti, a dispensare consigli all'universo mondo, si è arricchita grazie a quello Stato che vuole abbattere e grazie a sacrifici enormi di lavoratori e lavoratrici. Eppure è ancora lì, intoccabile, impunita che si erge a grande moralizzatrice, foraggiata e sostenuta dal cuore dell'ideologia berlusconiana che vuole l'imprenditoria come modello sociale di riferimento contro la politica parassitaria. Un modello che ha plasmato la società italiana e che costituisce oggi forse il vero lascito degli ultimi venti anni.

lunedì 7 giugno 2010

RAPINA CONTINUA


La "manovra" finanziaria varata da Berlusconi e Tremonti sposta colossali fortune a favore dei ricchi, degli speculatori, delle banche, precipita il paese in una lunga depressione e determina una drammatica crisi sociale di povertà e disoccupazione. Non dobbiamo abbassare il capo, dobbiamo reagire; a pagare devono essere i responsabili della crisi.
Infatti da dove nasce il debito dello stato? Non certo dalla spesa sanitaria, dalla scuola, dalle pensioni, dalla assistenza sociale, che già sono inadeguate e largamente saccheggiate dalle precedenti stangate.
Il debito dello stato nasce dal fatto che una ventina di anni fa i governi hanno deciso di tagliare radicalmente le tasse alle classi abbienti, provocando un colossale buco di bilancio. Per far fronte alle spese i governi si sono fatti prestare i soldi (ad alti tassi di interesse) da quegli stessi a cui avevano ridotto le tasse, che così ci hanno guadagnato due volte. Si chiama il gioco delle tre carte.
Non contenti, padroni, padroncini, professionisti, speculatori di ogni risma, hanno continuato ad evadere allegramente le tasse, pur ridotte, per un ammontare di 120 miliardi di euro all’anno.
Da venti anni ci dicono che bisogna serrare la cinghia per pagare il debito, ma il suo ammontare, dopo venti finanziarie che penalizzano il salario e il lavoro, è sempre il 120% della ricchezza nazionale prodotta. Infatti il meccanismo descritto è costruito per pompare soldi dai salari e dalle pensioni, per farli affluire alle rendite e ai profitti. Sono 140 miliardi di euro che ogni anno in Italia passano dalle tasche di chi lavora a quelle dei padroni e dei ricchi (il 5-10% della popolazione).
Le banche ringraziano. Con la crisi le banche hanno rischiato di saltare per aria e solo l’intervento statale le ha salvate: 800 miliardi di dollari versati dallo stato americano, altri 800 miliardi di euro versati dagli stati europei. Adesso per ringraziare gli stati che si sono indebitati per salvarle, le banche li prendono per il collo e pretendono che a pagare la fattura siano le classi popolari con il taglio di salari, pensioni e spesa sociale. Sono dei farabutti insaziabili e i governi ne sono complici.
Da qui nasce la manovra di Berlusconi, Tremonti, Draghi e Marcegaglia, un decreto di lacrime e sangue per l’intera classe lavoratrice, costruito e propagandato con lo scopo di dividere i lavoratori del settore privato da quelli pubblici, cioè di impedire una risposta unitaria e massiccia del mondo del lavoro alla rapina continua.
La rapina a mano armata
 Si bloccano per quattro anni le retribuzioni dei dipendenti pubblici i cui contratti sono già fermi da molto tempo. Bloccando gli stipendi dei dipendenti pubblici, si incoraggiano i padroni a fare altrettanto con quelli privati, già massacrati da ristrutturazioni e cassa integrazione.
 Si prolunga nei fatti di un anno l’accesso alla pensione e si mette in moto il meccanismo di aumento continuo dell’età in cui si va in pensione.
 Si tagliano selvaggiamente i trasferimenti agli enti locali, 13 miliardi in meno per le regioni, per le province e per i comuni. Così chiuderanno nidi, scuole materne, scuole, assistenza agli anziani, trasporti, servizi sociali di ogni genere. E’ il ritorno dell’Italia nel girone del terzo mondo in cui solo chi ha i soldi può pagarsi i servizi.
 Si conferma il taglio di 130 mila insegnanti nelle scuole, di oltre 150 mila lavoratori nella sanità, (complessivamente 400.000 posti in meno nel settore pubblico), con risultati disastrosi sulla vita delle famiglie e sull'erogazione dei servizi.
 Con un'altra legge (il collegato sul lavoro) Governo e Confindustria sferrano un colpo mortale ai lavoratori del privato, ai residui diritti e alle conquiste del mondo del lavoro, cancellando i contratti collettivi per sostituirli con i contratti individuali "certificati", sostituendo i giudici del lavoro con "arbitri" al servizio dei padroni, cancellando il divieto di licenziamento senza giusta causa (il famoso articolo 18), smantellando lo Statuto dei diritti dei lavoratori per sostituirlo con lo "Statuto dei lavori" scritto a quattro mani con la Confindustria, rendendo tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori sempre più precari e vittime dei più perversi ricatti padronali.

In compenso coloro che non hanno mai pagato continuano a non pagare. Nessuna misura per le grandi holding, da quella di Berlusconi a quella degli Agnelli, nemmeno per i top manager, che dopo tanti annunci, sono preservati da una finta misura che non li tocca; le rendite finanziarie continuano a pagare un ridicolo 12,5% mentre gli stipendi sono tassati al 33%; nulla per i professionisti e dintorni, tanto meno per gli evasori e truffatori che hanno portato i soldi all’estero e che hanno potuto regolarizzarsi con il vergognoso scudo fiscale. Anzi, per non sbagliarsi, il governo ha introdotto un condono mascherato, quello edilizio…!!

Forse penserete che almeno avranno tagliato le spese più improduttive e pericolose, quelle delle armi. Neppure per sogno: 25 miliardi di euro buttati ogni anno nelle spese militari e nelle guerre.

Occorre un grande movimento che respinga questo disegno.
Le nostre vite valgono più dei loro profitti
Non dobbiamo rassegnarci, non dobbiamo lasciarci dividere: da una parte ci sono la vita e il lavoro delle classi popolari, di tutti i lavoratori e lavoratrici, pubblici e privati, italiani e migranti; dall’altra i profitti di una classe padronale avida e di un ceto politico complice. Dobbiamo trovare la strada della lotta per affermare i nostri diritti; sono possibili altre misure economiche per uscire da questa crisi.

Occorre costruire un movimento che rivendichi il ritiro delle misure antipopolari e, al contrario, costruisca una piattaforma alternativa:
o l'adozione di misure concrete e massicce contro la speculazione finanziaria;
o misure dure contro l'evasione fiscale;
o la tassazione dei capitali salvati grazie allo scandaloso "scudo fiscale";
o una maggiore progressività della tassazione per colpire i grandi redditi e ridurre parallelamente la tassazione sui salari e sulle pensioni;
o una forte tassa sui patrimoni (8.000 miliardi di euro detenuti da poche famiglie);
o il blocco dei licenziamenti e il passaggio in mano pubblica delle aziende che delocalizzano e licenziano

Occorre che questo movimento sia unitario e dal basso; le forze politiche, sociali, sindacali che non vogliono abbandonare la difesa dei diritti di lavoratori, lavoratrici, giovani, precari e precarie devono trovare una convergenza unitaria per sostenere un’ampia mobilitazione, che permetta di difendere realmente il mondo del lavoro e gli interessi popolari.

Con questo orientamento politico unitario Sinistra Critica sosterrà e parteciperà a tutte le prossime scadenze di mobilitazioni e di lotta.