martedì 29 luglio 2008

Precari permanenti

Precari permanenti
Nel maxiemendamento lo stop al reintegro dei precari. I sindacati insorgono
Sara Farolfi
ROMA

Senza nominarlo, e con un blitz dell'ultima ora passato inosservato, il governo torna all'attacco dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Lo fa con un emendamento approvato dalla commissione bilancio della camera e recepito dal maxiemedamento alla manovra finanziaria, che preclude in sostanza ai lavoratori precari (con contratto a tempo determinato) la possibilità di ottenere dal magistrato, nel caso di contratti «irregolari», la stabilizzazione del rapporto di lavoro.
A darne notizia è stata ieri l'agenzia stampa Agi. Immediata la condanna da parte dei sindacati (Cgil, Cisl e Uil). Altrettanto immediata, per ragioni opposte, quella di Confindustria che parla di una norma «che va nella giusta direzione». In serata fonti del governo tentano la rettifica, parlando di una misura nata in ambito parlamentare e non per volontà del governo, e comunque valida «soltanto» per le cause ancora aperte.
Una specie di sanatoria, di questo si tratterebbe, che si aggiunge alla lunga lista di deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro inaugurata con la prima finanziaria. Proprio sui contratti a tempo determinato (una delle cause più frequenti di precarietà) il governo aveva già introdotto la possibilità di utilizzarli anche per l'attività ordinaria d'impresa, aveva abolito il diritto di precedenza nell'assunzione a tempo indeterminato per i lavoratori con contratto a termine nella stessa azienda, e aveva aperto alla possibilità di derogare a livello aziendale la durata massima di 36 mesi.
La novità emersa ieri tocca però quello che può considerarsi un simbolo (già sotto attacco nella scorsa legislatura targata Berlusconi) dello statuto dei lavoratori. La protezione (e dunque il reintegro) dal licenziamento senza giusta causa. Fino ad oggi infatti un datore di lavoro che voglia stipulare un contratto a tempo determinato deve dimostrare l'esistenza di ragioni organizzative e produttive che rendono necessario un limite temporale al contratto. Questo costituisce uno dei principali motivi di 'vertenza' per i lavoratori precari, perchè spesso i contratti a termine vengono stipulati per svolgere funzioni che in realtà non hanno nessun carattere di straordinarietà o temporalità. Se un lavoratore a termine riesce a dimostrare questo, il giudice dispone che il contratto si trasformi immediatamente in un contratto a tempo indeterminato. In questo senso si parla di «articolo 18 per i precari».
Ed è proprio qui che si inserisce il blitz del governo. Stabilendo che, se il lavoratore ha ragione, il giudice non dispone il reintegro, ma un semplice indennizzo (da 2,5 a 6 mensilità per il precario che poi si troverà senza lavoro). Non solo. Il governo ha fatto sapere ieri che la norma si applicherà «solo» alle vertenze in corso e non sarà valida per il futuro. Cosa succederà dunque - si chiedono nel sito precaridellaricerca - se un lavoratore ha vinto una causa del genere in primo grado di giudizio e nel frattempo ha ripreso servizio secondo la vecchia norma? «Dovrà lasciare il lavoro, e persino restituire i soldi guadagnati se superano i limiti massimi dell'indennizzo».
Immediata la reazione dei sindacati. Di una misura «molto negativa», parla Fulvio Fammoni (Cgil): «Si aumenta la disparità tra lavoratori e imprese, dando a queste ultime mano libera sull'utilizzo dei contratti a termine». «Il senato corregga la lacuna», chiede Giorgio Santini (Cisl). Mentre secondo Guglielmo Loy (Uil) si tratta di una norma oltre che sbagliata, «incostituzionale». Di un provvedimento «inaccettabile» parla anche l'ex ministro del lavoro, Cesare Damiano (Pd). Confindustria invece canta vittoria, con le parole del direttore generale Maurizio Beretta: «Un po' di semplificazione e di minor rigidità è quello che serve al mercato del lavoro. In questo, come in altri casi, non è di sanzioni che abbiamo bisogno ma di norme praticabili».

Dal Manifesto del 27 luglio 2008

sabato 26 luglio 2008

Note sulla Finanziaria Berlusconi-Tremonti

La manovra economica che sta giungendo in dirittura d’arrivo alle Camere in questi giorni (Decreto Legge 112 e Dpef triennale) costituisce una violenta accelerazione in senso antioperaio e antipopolare delle politiche economiche e sociali di questo governo; nel quadro definito dal precedente governo con la trasformazione in legge del protocollo su Welfare e politiche del lavoro definito nell’estate del 2007 insieme alle burocrazie sindacali di Cgil Cisl Uil.
La scelta del Governo Prodi di non rimettere mano alla precedente legislazione berlusconiana in materia di lavoro ( la legge 30) ed il disastro elettorale della sinistra di quella coalizione,frutto del profondo malcontento popolare che quelle politiche avevano suscitato,hanno creato le condizioni politiche propizie all’attuale violenta aggressione condotta dal berlusconi-quater e dai suoi ministri contro il movimento dei lavoratori e ciò che rimane dello Stato sociale in questo paese.
L’obiettivo del governo Berlusconi è quello di approfittare della paralisi dell’opposizione politico istituzionale, dello scompaginamento della ex-“sinistra radicale” e della complicità di Cgil Cisl e Uil per sferrare un colpo mortale a qualunque forma di garanzia collettiva dei diritti e delle condizioni di lavoro. Il sostegno alle esigenze di Confidustria è esplicito e senza infingimenti. In questo senso il Berlusconi quater riesce a coniugare meglio di quello precedente la difesa dei “fatti propri” del premier e della compagnia di affaristi di cui si circonda con gli interessi delle classi dominanti di questo paese .E le esigenze delle classi dominanti oggi, nel contesto di una recessione in arrivo, sono quelle di una “camicia di forza” preventiva per il conflitto sociale ,annichilendo i lavoratori,offrendogli il capro espiatorio di turno (i rom, la criminalizzazione dei migranti, ma anche i “fannulloni” del lavoro pubblico…) per dividerli e impedirne la necessaria risposta a fronte del tentativo in atto di far pagare a loro i costi della crisi della globalizzazione e della conseguente riorganizzazione dell’economia capitalistica.

Con il Dl 112 si ottengono diversi risultati: si colpisce preventivamente il lavoro pubblico- dove ancora tengono sindacalizzazione e rapporti di forza, e quindi capacita’,per quanto relative, di contrattazione delle proprie condizioni di lavoro-, si demolisce lo Stato sociale con i tagli micidiali a sanità, enti locali e scuola, si accelera con le privatizzazioni.
E ancora: si accentua la precarizzazione dei rapporti di lavoro con il peggioramento della normativa relativa ai contratti a tempo determinato,facendo saltare con la modifca all’articolo1 della legge 368 qualunque limitazione alla loro reiterazione;si impone una modifica radicale in senso negativo a tutta la normativa sugli orari di lavoro,i riposi giornalieri e quelli settimanali,il lavoro notturno e quello straordinario .Infine con il “tetto di inflazione programmata” all’1,7% a fronte di una inflazione reale che supera il 4% si programma nei prossimi tre anni la riduzione del potere di acquisto dei salari,peggiorando le condizioni di vita dei salariati ed accrescendone la ricattabilità. Tutto ciò per accrescere la competitività delle esportazioni delle industrie italiane- scontando anche un forte restringimento del mercato interno- come via di uscita per difendere le proprie posizioni sul mercato mondiale.
Ma con il Dl 112 si ottiene anche un altro obiettivo: mettere con le spalle al muro la Cgil, costringerla a bere fino in fondo l’amaro calice della partecipazione al tavolo contestuale sulla riforma della contrattazione oppure, di fronte a qualche suo segnale di insofferenza e difficoltà, andare avanti sulla strada degli accordi separati- vedi esperienza del contratto del commercio…-con Cisl e Uil per piegare successivamente al proprio disegno un gruppo dirigente- quello intorno ad Epifani - che appare deciso a non ripetere l’esperienza della mobilitazione contro il governo, come nel caso dell’art.18 nel 2002.
In pratica il governo Belusconi, con la scatenatissima coppia Brunetta Tremonti al centro della propria azione,vuole imporre una accelerazione verso destra di tutto il quadro delle politiche concertative oppure far saltare il banco incassando la prevedibile crisi della Cgil.
In questo quadro ancora deboli appaiono le reazioni nel movimento sindacale e più in generale,nel movimento dei lavoratori,nelle forze di opposizione e nelle diverse sinistre.
Tra i lavoratori pubblici il decreto Brunetta ha suscitato indignazione e qualche accenno di mobilitazione. Si sta preparando lo sciopero generale dei sindacati di base,già convocato per il 17 ottobre, vi è stata l’assemblea del 23 luglio delle diverse sinistre sindacali della Cgil, sono in atto, sia nel pubblico che nel privato, alcune vertenze importanti e alcune lotte difensive (Alitalia ,per esempio, ma anche alcuni gruppi industriali in crisi, o la lotta delle educatrici del Comune di Milano).
Tutto ciò è importante ma inadeguato, e l ‘attesa delle ferie, la stanchezza dei lavoratori, il rallentamento di tutte le attività in questa fase certo non aiutano.
Occorre prepararsi per una ripresa del conflitto a settembre.
Alcuni nodi potranno venire al pettine e ,soprattutto, non è detto che il piglio decisionista di Berlusconi continui tra qualche settimana ad essere pagante ed efficace,in termini di creazione di consenso per sé e di “narcotizzazione” delle opposizioni, come lo è in questo momento. Prima o poi qualcuno si accorgerà che i rifiuti a Napoli sono stati tolti soltanto dalle strade del centro o che, tornati dalle ferie, occorre stringere ancora più la cinghia per arrivare alla terza settimana… E che non basta sgomberare qualche campo rom per rendere tutti più felici(oltreche’ fetentemente razzisti) e “sicuri”…
Ma il conflitto non si sviluppa “motu proprio”…
Occorre l’azione consapevole di tutti i soggetti sindacali e politici materialmente interessati a ricostruire una opposizione di sinistra ed anticapitalistica in questo paese.
Occorre rompere con le politiche concertative e quindi costruire pronunciamenti e iniziative di tutte le strutture e le sinistre sindacali per imporre l’alt ai “tavoli” sulla riforma della contrattazione. Non si può invitare alla mobilitazione contro il decreto Brunetta e contemporaneamente partecipare agli incontro programmati tra Governo e Cgil Cisl e Uil per cancellare di fatto il contratto nazionale, raggiungendo così per un'altra strada quanto si prefigge il Dl 112…
Occorre rilanciare la piattaforma dell’assemblea dei sindacati base del 17 maggio scorso e preparare con una grande campagna di massa lo sciopero generale del 17 ottobre lavorando per una convergenza nella pratica tra chi sceglie di battersi dentro la Cgil e chi ha scelto di ricostruire in modo indipendente un sindacato di classe ,democratico e partecipativo.
Occorre lavorare per una grande manifestazione di massa delle opposizioni su obiettivi chiari e capace di “metter insieme” tutto ciò che già esiste in termini di resistenza sociale alle politiche neoliberiste ,razziste,antidemocratiche ed antioperaie:dalle vertenze territoriali ai No Dal Molin, per arrivare alle lotte sociali e sindacali.
Per quello che riguarda i/le militanti di sinistra critica,l’autunno ci vedrà impegnati non solo a sostenere tutte le mobilitazioni che mettono bastoni tra le ruote all’azione devastante di questo governo;ma ci vedrà pronti nel rilanciare la nostra campagna di raccolta di firme per l’iniziativa di legge popolare sul salario in tutti i luoghi di lavoro che riusciremo a raggiungere, offrendolo come strumento da utilizzare per tutti coloro che non si accontentano della “difesa in ordine sparso” ma si pongono il problema di “rovesciare il tavolo” con una iniziativa che rimetta al centro dell’attenzione – e della pratica sociale- di tutti i soggetti interessati al cambiamento radicale, una proposta che risponda ai propri bisogni, alle proprie esigenze,senza autolimitazioni e senza “vincoli” dettati da qualsivoglia compatibilità…

Milano 25/07/08 Roberto Firenze (coordinamento nazionale sinistra critica)

martedì 22 luglio 2008

Berlusconi e i rifiuti di Napoli: quattro mesi di bugie

Berlusconi e i rifiuti di Napoli: quattro mesi di bugie

di Teresa Scherillo (makia)

Nel capoluogo campano il Consiglio dei Ministri annuncia la risoluzione alla crisi. Tutto sparito, come per magia? Una città linda e pinta, senza più “monnezza”? Vediamo

L’ aveva detto che bisognava lanciare segnali di ottimismo, ma come al solito, per Napoli, si tratterà solo di segnali di fumo. “L’ emergenza rifiuti è finita e la scommessa è vinta, la città è pulita. Le strade sono sgombre dalla spazzatura, l’ arretrato è smaltito. Riecco Napoli, finalmente : bella e possibile. E soprattutto pulita“. E noi come nel poker andiamo a vedere.

L’ incognita-inceneritori

L’ unico inceneritore che non è nemmeno ancora completato è sempre lo stesso. Quello di Acerra. Ancora da sciogliere pure il nodo sull’ affidamento della sua gestione a privati. Chi e quando ? Gli altri progetti restano sulla carta e soprattutto c’è ancora da individuare quello cosiddetto di città, dopo la bocciatura da parte dei tecnici di Bertolaso del sito di Agnano proposto dalla Iervolino.

Le discariche

La cava di Chiaiano è stata militarizzata, ma da qui a diventare una discarica a tutti gli effetti, ne passerà di tempo. Intanto continuano le proteste dei Comitati che proprio in questi giorni hanno occupato il Duomo di Napoli. Aperte, invece, le discariche di Savignano Irpino (Av) e Sant’Arcangelo Trimonte (Bn), realizzate di fatto dal Commissario De Gennaro e che rappresentano la boccata d’ossigeno che ha permesso di liberare le strade da 35mila tonnellate di rifiuti. Ma attenzione, perché se è vero che centro storico, monumenti e strade principali appaiono sgombre dai rifiuti, basta spostarsi di qualche metro, in qualche quartiere meno frequentato per ritrovare intatti i cumuli di immondizia. Per non parlare dell’ immediata periferia di Bagnoli e Ponticelli (ma qui non hanno nessuna Sofia Loren che possa fare un appello come per Pozzuoli ) e della provincia vesuviana. Quantizzando, stiamo parlando ancora di più di 9 mila tonnellate di rifiuti ancora per le strade, più ulteriori 40 mila tonnellate che giacciono a macerare sotto il solleone nei siti di stoccaggio provvisori. Vale a dire che non essendo ufficialmente delle discariche non sono controllati dall’Esercito e dunque il tipo di rifiuto ( tossico, radioattivo, ecc. ) che vi può essere depositato può mettere a rischio la salute pubblica.

L’ incognita-raccolta differenziata

Doveva essere una sperimentazione, quella della raccolta porta a porta partita da un paio di settimane e che sulla carta doveva coinvolgere 19.000 persone. Cioè l’ equivalente di un solo quartiere napoletano : i Colli Aminei. Invece sta diventando una lotta senza quartiere tra l’Asìa, la municipalizzata per i servizi di igiene ambientale, e l’assessore regionale all’ ambiente Ganapini, già presidente di Greenpeace Italia.

INIZIO IN SALITA - Partita con tutta la lentezza che necessitano le situazioni di emergenza come quella sui rifiuti della regione Campania, continua sfiorando addirittura il ridicolo. E i comitati cittadini che si battono per attuare la differenziata avevano addirittura chiesto l’ estensione ad almeno centomila unità. Dietro le polemiche come al solito ci sono i fondi, per laprecisione 30 milioni di euro da dividersi tra Napoli e Caserta stanziati dalla Regione Campania e finalizzati a sostenere lo start-up, ad acquistare automezzi, compostiere domestiche e contenitori. E’ per questo che Ganapini ci va giù pesante quando afferma che il piano napoletano per la differenziata è ridicolo “non c’è bisogno di una sperimentazione per 20 mila abitanti che già ci risulta fanno la differenziata raggiungendo una buona percentuale. C’è bisogno che Napoli tutta passi alle pratiche civili e normali in Europa. Gli fa eco il Sindaco che difende a spada tratta municipalizzata, progetto e fondi “di raccolta differenziata — ha replicato stizzita — parli solo chi può farlo e quindi l’Asìa. Ho già chiesto agli altri, cortesemente, se non sanno, di non parlare “. Parlare no, ma dare uno sguardo nel quartiere si può ?

FINE… IN SALITA - Due assistenti dell’ assessore Ganapini esperti in materia, uno dei due nel 2002 preparò un piano di raccolta differenziata porta a porta per l’Asìa che comprendeva l’intero comune di Napoli, un piano che costò un milione di euro e che non è mai stato messo in atto, sono andati a verificare di persona. La situazione che hanno trovato è di massima confusione. In tutte le strade interessate ci sono ancora cassonetti e campane (l’ annuncio era stato appunto : niente più cassonetti e campane) pieni zeppi di materiale, con buste ancora a terra. Nessuno passa a ritirare l’ organico per il quale i commercianti erano stati dotati di bidoncini e buste biodegradabili. Con il risultato che tutto l’ umido invece di essere ritirato tre volte alla settimana, marcisce sotto il sole. Non sono stati ancora consegnati a tutti i contenitori del porta a porta. Laddove sono stati consegnati spesso non sono adeguati. La loro denuncia ha di fatto innescato ulteriori polemiche con qualche consulente dell’Asìa tanto da paventare addirittura minacce e querele. Come se non bastasse, si è innescata pure una diatriba tra i vigili urbani che vogliono che i bidoni siano posti all’interno degli esercizi commerciali, pena multa salata per occupazione di suolo pubblico, e l’ASL che vuole che il bidone dell’organico venga posto fuori dagli esercizi commerciali, pena multa salata per violazione delle norme igienico-sanitarie.

La vera beffa

Forse non tutti sapranno che di fatto, il decreto sui rifiuti approvato d’urgenza dal Parlamento obbliga la Campania a restituire allo Stato i fondi stanziati per l’ emergenza. Una vittoria tutta della Lega che ne aveva fatto esplicita richiesta. La Campania, invece, è indietro tutta. La crisi esiste ancora, solo che ripulite le strade del turismo, non fa più notizia, nemmeno all’ estero. L’operazione “ rifiuti sotto il tappeto “ è perfettamente riuscita. Vediamo se gli annunci riusciranno a far risalire il gradimento del Premier dopo le ultime vicissitudini. E Bassolino ringrazia.

lunedì 21 luglio 2008

Cosa vogliamo? Vogliamo tutto. Il '68 quarant'anni dopo


Cosa vogliamo? Vogliamo tutto. Il '68 quarant'anni dopo. AA. VV. (a cura di Cinzia Arruzza), pag. 232, 16,00 euro.




Italia, Cecoslovacchia, Stati Uniti, Germania Est, Francia, Polonia, Germania Ovest: non solo la più grande ribellione giovanile, studentesca e operaia in Occidente, ma anche l’esplosione dei movimenti antiburocratici nei paesi del socialismo reale, generalmente meno discussi. Un dibattito tra protagonisti del movimento e studiosi che ripensano insieme il ’68 a quarant'anni di distanza. Un evento che ha modificato in maniera decisiva costumi, abitudini e modi di vita a livello mondiale, ma anche la risposta al revisionismo di destra, che cerca di indicare nel movimento del ’68 l’origine dei mali e delle disfunzioni attuali delle società occidentali.

Autori:

Daniel Bensaïd, Silvia Casilio, Lidia Cirillo, Diego Giachetti, Augusto Illuminati, Ambre Ivol, Zbigniew Kowalewski, Antonio Moscato, Devi Sacchetto, Marco Scavino, Marica Tolomelli, Massimiliano Tomba, Emanuela Vita.

Cinzia Arruzza, è dottore di ricerca in filosofia e Direttore del Centro Studi Livio Maitan.


Puoi acquistare i libri anche direttamente e riceverli a casa con spese postali a nostro carico, con versamento sul ccp n. 65382368 intestato a Edizioni Alegre società cooperativa giornalistica, C.so Francia 216 00191 Roma, specificando nella causale i titoli che si intende ricevere.
www.edizionialegre.it

domenica 20 luglio 2008

Sinistra Critica aderisce allo sciopero del 17 ottobre promosso dai sindacati di base

Sinistra Critica aderisce all'appello per lo sciopero generale del 17 ottobre , condividendone pienamente la piattaforma scaturita dall'assemblea unitaria di Milano del 17 maggio scorso, e si adopererà per la massima riuscita della mobilitazione. In particolare, attraverso la campagna per la Legge popolare sul salario, che ha già avuto centinaia di adesioni di dirigenti e delegati delle forze sindacali non concertative, intendiamo contribuire alla crescita di un forte movimento e di una rinnovata coscienza di classe tra i lavoratori e le lavoratrici, nativi e migranti, consapevoli che solo con la lotta è possibile strappare risultati al governo e al padronato.

Per leggere la piattaforma e aderire alla mobilitazione: http://www.scioperogenerale2008.org/

venerdì 18 luglio 2008

Francia, nuova fuga radioattiva

'episodio nell'impianto a Romans-sur-Isere, nel sud-est della Francia
L'Autorità francese per la sicurezza nucleare: "Nessun impatto sull'ambiente"

Governo: ispezioni nei siti nucleari

Il ministro dell'Ambiente ordina inchiesta su 58 impianti
dopo l'incidente di dieci giorni fa nella centrale di Tricastin


La centrale di Tricastin

PARIGI - Mentre infuria la polemica intorno alla centrale nucleare di Tricastin, teatro 10 giorni fa di un riversamento accidentale di acque contenenti uranio nei fiumi vicini, un nuovo episodio è stato reso noto oggi dall'Autorità francese per la sicurezza nucleare (Asn). Fuoriuscite di acque contaminate da elementi radioattivi, "senza impatto sull'ambiente", sono state registrate in un impianto della Areva a Romans-sur-Isere, nel dipartimento della Drome, anche questo nel sud-est della Francia.

A causa della rottura di una condotta nello stabilimento Fbfc, dove si produce combustibile nucleare destinato alle centrali elettriche e ai reattori utilizzati per fini di ricerca, un'imprecisata quantità di uranio è fuoriuscita all'esterno. L'Asn ha comunque precisato che si tratta di "poche centinaia di grammi" di sostanza fissile, e che "in base ai primi rilievi" non sussistono rischi di contaminazione delle acque giacché nella zona "il terreno è fortemente impermeabile", e "le falde freatiche sono situate troppo in profondità"; una squadra di esperti e di tecnici è stata comunque inviata sul posto per gli accertamenti del caso.

Si tratta della seconda fuga di liquidi registrata in due settimane dopo quella nella centrale di Tricastin (Vaucluse), che ha spinto il governo a richiedere la verifica delle falde freatiche situate vicino a tutte le centrali nucleari francesi. Dopo l'incidente infatti agli abitanti della zona è stato ordinato di non bere acqua corrente e di non mangiare pesce di provenienza locale; sono stati inoltre vietati l'irrigazione dei campi, i bagni nei corsi potenzialmente inquinati e gli sport acquatici in generale.

Da qui l'inchiesta ordinata dal ministro dell'Ambiente Jean-Louis Borloo su 58 impianti nucleari per fugare ogni timore sulle condizioni di sicurezza. "Non voglio che la gente sia sfiorata dal dubbio che venga nascosta o sottaciuta la benché minima situazione", ha affermato il ministro in un'intervista rilasciata al quotidiano francese Le Parisien.

Intanto l'Asn ha annunciato di aver trasmesso nei giorni scorsi un fascicolo alla procura di Carpentras, in seguito all'ispezione che ha rilevato "gravi irregolarità" nella tenuta degli impianti di Tricastin. "Sebbene non si tratti propriamente di un incidente nucleare, bensì di un malfunzionamento a livello della gestione della centrale, quando si lavora in ambito nucleare nessuna negligenza può essere tollerata. La trasparenza, inoltre, deve essere esemplare", ha osservato il ministro.

Nella notte tra il 7 e l'8 luglio, durante alcune operazioni di pulizia di una vasca di custodia, trenta metri cubi di una soluzione contenente 12 grammi di uranio per litro si sono riversati in due fiumi adiacenti al sito nucleare di Tricastin, gestita da due società filiali del gruppo Areva. Dopo un'inchiesta interna, Areva ha ammesso che all'origine dell'incidente c'è stata "mancanza di coordinamento" tra chi gestiva i lavori di sistemazione in corso nell'impianto e i responsabili delle attività di sfruttamento.

(18 luglio 2008) repubblica.it

Quattro ruote e una crisi

L'auto è a fine corsa? Il modello fondato sulla mobilità privata è spinto fuori strada dalla crisi, dal prezzo del petrolio e dalle ragioni ambientali. Marchionne non fa più miracoli. Un seminario della Fiom
Loris Campetti
TORINO

I miracoli riescono raramente. A Sergio Marchionne ne è riuscito uno, qualche anno fa, quando la multinazionale italiana delle quattro ruote era data da tutti per spacciata per effetto della crisi esplosa nel 2002. Una ventina tra presidenti e amministratori delegati della Fiat e della Fiat Auto si erano succeduti alla guida di un'automobile impazzita, a cui non erano bastati il monopolio nazionale e i ripetuti sostegni pubblici per mantenere una qualche rotta. I lutti e le risse nella famiglia proprietaria, la perdita di quote di mercato e di redditività, l'esplosione dei debiti, l'evidente fallimento del matrimonio con una General Motors che da big mondiale stava iniziando una discesa che l'avrebbe fatta precipitare sull'orlo della bancarotta, l'espansionismo insensato a 360 gradi che aveva indebolito fino all'infarto il core business - l'auto -, lasciavano ben poche possibilità di sopravvivenza autonoma alla maggiore industria italiana. Alla fine era arrivato lui, l'uomo dei miracoli, amministratore delegato con ampi poteri: Sergio Marchionne. Come ben sintetizza Sergio Cusani, il consulente finanziario che per conto della Fiom ha condotto a partire dal 2001 un'analisi attenta e talvolta spietata della situazione eco-finanziaria della Fiat, il nuovo a.d. è riuscito a sfilare il Lingotto dalla trappola (una «vendita differita») in cui Gianni Agnelli e Paolo Fresco avevano gettato l'azienda con l'accordo con la Gm. Marchionne aveva poi valorizzato il gruzzolo sganciato dagli americani per ottenere il divorzio ed evitare l'acquisto a costo zero di un moribondo, ingestibile per un gigante dai piedi d'argilla già sotto osservazione medica. Un utilizzo serio del danaro Gm, insieme a una politica di risanamento dei conti e a un rapporto agevolato con le banche che hanno concesso alla Fiat quel che nessuna banca avrebbe mai garantito ad alcun cliente (il convertendo), hanno riportato l'auto italiana sul mercato. Senza licenziamenti e chiusura di stabilimenti, senza rapporti duramente conflittuali con i sindacati. Uno dopo l'altro, ha portato a casa 34 accordi internazionali sui prodotti e sulla loro distribuzione, joint-venture, pianali e motori comuni, sinergie, avevano fatto balzare il titolo in borsa sopra i 21 euro. L'auto aveva ripreso a tirare, anche grazie alla droga delle rottamazioni che non rappresenta che una delle tante forme di sostegno dei nostri governi all'industria automobilistica. Dunque, onore a Marchionne, a cui si deve anche un recupero d'immagine dei marchi rendendo l'azienda più presentabile.
Il motore batte in testa
I venti di crisi che soffiano dall'Atlantico, passando per i pozzi di petrolio del Golfo, in pochi mesi hanno costretto tutti i costruttori di automobili a ridimensionare i propri progetti, a rivedere le previsioni e occuparsi del pessimo stato di salute del malato grave. La malattia è più pericolosa delle tante che l'hanno preceduta, dalla crisi del Kippur a oggi. I costi dei carburanti alle stelle mandano in tilt lo stesso modello americano, finora indifferente ai consumi automobilistici come ai danni ambientali, figuriamoci se potevano risparmiare la vecchia Europa. La crisi - economica, ambientale, culturale - delle quattro ruote non grazia alcuno dei mercati ricchi del Nordamerica, dell'Europa e del Giappone dove si scatena la più feroce delle competizioni tra le multinazionali delle quattro ruote. In palio ci sono pochi posti numerati nel futuro mercato. Sono in molti, per ora, a salvarsi la pelle grazie ai mercati emergenti: la vivacità della domanda brasiliana e di una parte dell'America latina (in Argentina l'auto gode di buona salute) e l'avvio della motorizzazione nei giganti asiatici (l'India e, tra mille contraddizioni, la Cina), non fa che estendere la guerra tra i produttori in questi paesi, con i grandi marchi giapponesi ed europei pronti a gettarsi come avvoltoi sulle quote eventualmente lasciate libere dalla precipitazione dei conti delle tre big americane, Chrysler, Gm e Ford.
La Fiat risente come tutti i suoi concorrenti della crisi. L'avvio di un ciclo che non sarà breve di cassa integrazione in tutti gli stabilimenti italiani, con l'eccezione di Cassino, ne è il segno più evidente perché coinvolge decine di migliaia di lavoratori il cui salario inadeguato sarà ulteriormente decurtato. E' da alcuni mesi che ogni occasione per ridurre la produzione viene accolta malcelata soddisfazione dal Lingotto, che sia dovuta allo sciopero dei camionisti, alla ristrutturazione di uno stabilimento, al mancato arrivo di componenti. Qui a Mirafiori, dicono i delegati della Fiom, si passa più tempo a fare corsi che a costruire macchine. Anche perché la Punto che si doveva in parte costruire a Torino in cambio del sostegno garantito al Lingotto dagli enti locali torinesi, è stata riportata per intero a Melfi.
Piange la Borsa
L'altro segnale rosso arriva dalla borsa, dove il titolo del Lingotto ha subito un tracollo dai 21 agli attuali 10 euro: non bastano gli annunci di nuove alleanze, l'ultimo quello con Bmw, a invertire la tendenza al ribasso. Analisti e operatori sanno che la crisi non è passeggera e che l'auto è la prima delle vittime designate. Anche la decisione della Fiat di rivedere al rialzo i listini dei prezzi delle vetture non lascia presuppore alcunché di buono. Neppure la promessa di Sergio Marchionne che conferma i dati previsionali relativi agli utili dell'azienda può tranquillizzare, in particolare i lavoratori. Il mantenimento e persino il miglioramento della quota Fiat nel mercato italiano e solo in parte in quello europeo avviene in una rincorsa al ribasso della domanda. E' vero che Marchionne si salva con i nuovi mercati, in particolare in Brasile e in prospettiva in India grazie all'accordo con Tata, ma proprio per questo le nuvole sono destinate ad addensarsi sui cieli italiani, dove fabbriche, linee di montaggio e posti di lavoro cominciano a tentennare.
Del nuovo ciclo aperto in Fiat dalla crisi dell'auto si è discusso venerdì scorso a Torino per iniziativa della Fiom. Più che un'assemblea, un seminario, una scuola quadri per i delegati del gruppo industriale torinese, presenti il segretario generale dei metalmeccanici Cgil Gianni Rinaldini e Sergio Cusani. La crescita di una cultura ambientalista mette alle corde un modello di sviluppo incentrato sul trasporto privato e su motori alimentati con i derivati del petrolio, inquinanti e sempre più costosi. Si riapre dunque a sinistra un sano confronto sul modello, tra chi teme come il demonio il petrolio a 200 dollari e chi invece vi legge una possibilità, una speranza per ripensare al modo in cui muoversi e, soprattutto, in cui vivere. Dubbi, questi, che attraversano gli stessi delegati operai, che sono anche cittadini, prima ancora che produttori e consumatori. Secondo Cusani la Fiat ha perso un'occasione rinviando all'infinito la quotazione in borsa dell'Auto che avrebbe consentito l'afflusso di capitali freschi da destinare ai nuovi prodotti. Con il risultato che la Fiat è indietro rispetto alla concorrenza e troppo legata a un'idea vecchia di trent'anni di automobile, intesa come bene di consumo veloce. Oggi, dice Cusani, bisognerebbe tornare agli anni Cinquanta, quando l'auto era un bene durevole che non si cambiava ogni due o tre anni ma ogni otto o dieci. E' questa la scelta fatta dalla Toyota che arriva a offrire garanzie per 9 anni e per 5 sull'auto elettrica, mentre il Lingotto continua con la politica dei restyling dei modelli ogni due anni, fidando su un mercato drogato dalla politica delle rottamazioni. I dati di realtà - costi economici e ambientali - spingono nella direzione di un consumo critico crescenti soggetti impoveriti dalla crisi e dalle politiche liberiste.
La Fiat è in ritardo sul terreno dell'innovazione di prodotto, e questa è un'opinione comune dal segretario all'ultimo delegato della Fiom. La concorrenza è lanciata ormai da tempo sul versante dei motori ibridi, sull'auto elettrica, sull'idrogeno e già si parla di propulsori trifuel. E pensare che per decenni la multinazionale torinese ha investito invece sull'innovazione di processo, ammaliata dall'illusione del miracolo pantecnologico che avrebbe emancipato la produzione dal lavoro umano. L'unico terreno su cui la Fiat è all'avanguardia è quello del metano, in un paese però che non investe sulla rete distributiva, rendendo le vetture alimentate con questo gas, se non inutilizzabili, quasi. Non sarebbe più sensato, sia pure in una prospettiva immediata e non strategica perché il futuro viaggia a idrogeno e a elettricità, fare quella lobbyng di cui la Fiat è maestra da oltre un secolo, per spingere il governo a investire (e far investire i petrolieri) sulla distribuzione del metano, invece che spargere i fondi della collettività a pioggia con le rottamazioni? Che la Fiat sia brava a incidere sulle scelte politiche è testimoniato dall'andamento della mobilità nel nostro paese, l'unico al mondo che nell'ultimo decennio è riuscito ad aumentare dal 70 all'80% la quantità di merci trasportate su gomma. Innovazione di prodotto vuol dire investimenti, ricerca, vuol dire ripensare all'oggetto automobile che in passato si è salvato dalla crisi grazie alla quantità di tecnologia incorporata. Siamo arrivati alle utilitarie munite di ogni confort, navigatore satellitare compreso, mentre a conquistare i mercati impoveriti dalla crisi sono oggi vetture sobrie, «risparmiose», senza troppi fronzoli.
Il divorzio tra auto e petrolio
Un primo elemento di riflessione, per chi ha a cuore il futuro, più ancora che dell'auto privata dei lavoratori che la fabbricano, è l'esigenza di separare il destino delle macchine da quello del petrolio, investendo ogni risorsa, come si diceva, su nuovi propulsori più compatibili, sia da un punto di vista ambientale, che economico, che politico, considerando quel che il petrolio riesce a mettere in movimento. A partire dalle guerre. A che serve ingaggiare battaglie durissime per rinviare e mitigare le riduzioni di emissioni di Co2 da parte dell'Unione europea? Che scelta miope è questa, che ha visto tra i suoi maggiori protagonisti proprio Sergio Marchionne, in qualità di presidente di turno dell'Acea, la potente associazione europea di costruttori di automobili? Meglio sarebbe tentare di recuperare il ritardo nella ricerca e nella sperimentazione sull'auto elettrica, ammesso che per la Fiat non sia già troppo tardi. E ammesso che il Lingotto abbia le risorse necessarie. Questo dubbio ne lascia trapelare un altro: non si tornerà a parlare di vendita dell'automobile italiana, magari a un soggetto in grado di investire le risorse necessarie per essere competitiva sul mercato che, molto presto, verrà?
Qui in Europa, come negli Usa, non c'è più spazio per nuove automobili, un ormai ipotetico mezzo di locomozione che invece di garantire la mobilità condanna all'immobilismo. Si può pensare solo a un mercato di sostituzione, sapendo che nell'arco di pochi anni le vetture, dice Rinaldini, saranno ben diverse da quelle che conosciamo, per materiali e soprattutto motori. Bmw va avanti con l'idrogeno, e non è su questo versante che si basa l'accordo stipulato dalla Fiat; Toyota con la Prius si permette di perdere soldi perché può permettersi di investire sull'innovazione di prodotto. E la Fiat dov'è? E fino a quando potrà salvarsi senza prodotti competitivi, puntando sul Brasile, o sui camion e le macchine movimento terra? C'è chi teme l'estensione della crisi anche a Iveco e Cnh.
Ci sono tanti modi per far tornare i conti. Il più semplice e miope sembra conquistare anche Marchionne: bassi salari, orari allungati e straordinari alternati alla cassa integrazione, aumento della prestazione e della flessibilità delle tute blu, circostanziano i delegati di Mirafiori. Ma se è vero che la crisi riguarda (anche) l'intera Europa, al punto che per la prima volta in Germania è in forte rallentamento la produzione manifatturiera, mentre tutta la produzione di elettrodomestici si è trasferita o sta trasferendosi nell'est europeo, si può pensare di far tornare i conti aumentando lo sfruttamento? La globalizzazione è un affare serio, e la crisi generale dei sindacati sta proprio nel fatto di non aver saputo costruire un'idea diversa di globalizzazione. Senza un passo avanti in questa direzione, non potrà che imporsi il trasferimento del conflitto dal livello classico tra capitale-lavoro a quello tra stati, tra aziende, tra stabilimenti e, alla fine, tra lavoratori. Con politiche sociali al ribasso che cancellano i diritti nei punti alti dello «sviluppo», agitando il ricatto delle delocalizzazioni. Anche i sindacati si adattano a questo trend, come avviene in Germania. O come testimonia la fusione dei sindacati siderurgici - minacciata anche nell'auto - negli Usa, Canada e Gran Bretagna che ha generato la rivolta dei paesi poveri contro il protezionismo dei ricchi. Sempre negli Usa, molte imprese si trasferiscono al sud degli States dove non c'è sindacato, e in Brasile le aziende pensano di trasferire la produzione di automobili dallo stato di San Paolo, dove l'orario di lavoro è di 40 ore, a quello del Minas Gerais, dove di ore se ne lavorano 44 alla settimana. Il mese scorso, durante una riunione mondiale dei sindacati metalmeccanici, i brasiliani che si battono per le 40 ore hanno accolto con disperazione la direttiva dell'Unione europea che porta a 60 ore il lavoro settimanale. E chi si batte nel mondo per conquistare il contratto nazionale (che sopravvive a fatica sono in Italia e in Germania, dove però si rischia di ripiegare sul salario minimo) non è certo sostenuto dall'orientamento, prevalente in Italia, a liquidarlo.
Si può affrontare il futuro dell'auto senza un'ipotesi globale, forte, alternativa a quella culturalmente egemone della globalizzazione neoliberista? Così conclude Rinaldini, senza trascurare il fatto che la crisi strutturale dell'automobile impone un ripensamento generale di modello nei punti alti dello sviluppo: o si sogna forse di scaricare il problema sulle economie emergenti, convincendo i cinesi che per salvare il pianeta devono rinunciare a quel che abbiamo noi, e a cui non siamo disposti a rinunciare? Neanche a San Sergio Marchionne riuscirebbe un miracolo del genere.

Manifesto del 17 luglio 2008

giovedì 17 luglio 2008

I giudici ciechi di Bolzaneto

di GIUSEPPE D'AVANZO

I giudici ciechi di Bolzaneto

Il presidente del Tribunale di Genova, Renato Delucchi
Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un "campo" dove esseri umani - provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali - possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative. Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato "entro stasera vi scoperemo tutte". Agli uomini, "sei un gay o un comunista?". Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C'è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un "trauma testicolare". C'è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l'altro piede".

C'è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.

Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B. B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?". Percuotono S. D. "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare pompini a tutti". S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano.

J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere - tranne che in un caso - l'inumanità degli abusi e delle violenze. Era questo il cuore del processo.

Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l'ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere - contro i custoditi - atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.

È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo - in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione.

Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico.

Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti - governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune - di archiviare il caso come un imponderabile "episodio" (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa "degli altri". Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.

I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell'autentica posta del processo fin dal primo momento. "Bolzaneto è un "segnale di attenzione"", hanno detto. È "un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell'uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere".

I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l'ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l'attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inhumana, "tutto è possibile". Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che "bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l'ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi". È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato.

Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato "gli atti di tortura", "i comportamenti crudeli, disumani, degradanti". E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c'è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati - dove i corpi vengono rinchiusi - dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto).

L'invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti - e soprattutto le istituzioni - a guardarsi da ogni minima tentazione d'indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d'eccezione che lasciano cadere l'ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell'orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, ministro di giustizia dell'epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella "posizione del cigno" contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.

"Bolzaneto" è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della "sicurezza", dell'"ordine pubblico", del "pericolo concreto e imminente", della "sicurezza dello Stato" si potesse configurare un'inattesa zona d'indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio.

Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un "diritto di polizia" che prevede - anche per i bambini - lo screening etnico, la nascita di "campi di identificazione" che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il "campo". Avverte che in questi luoghi "fuori della legge", dove le regole sono sospese come l'umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.


(16 luglio 2008) (repubblica.it)

Chi condanna e chi si accontenta

Se la destra esulta, a partire dall'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli, a sinistra e tra le associazioni le opinioni sull'esito di Bolzaneto non sono concordanti. C'è chi pensa che si tratti di una sentenza che non fa giustizia e chi invece sostiene che un risultato è stato ottenuto, e se non si è fatto di meglio è perché nel nostro ordinamento penale non esiste il reato di tortura. E' il caso di Amnesty international, che attribuisce alle carenze del codice penale la mitezza delle pene. Ed è il caso di Giuliano Giuliani, per il quale «è la prima volta nella storia di questa nostra povera repubblica che un gruppo dirigente di medio livello delle forze dell'ordine viene condannato per un comportamento che nulla ha a che vedere con i compiti d'istituto». Di tutt'altro avviso l'ex segretario del Prc Franco Giordano, che se la prende con l'ex ministro Antonio Di Pietro che nella passata legislatura ha ostacolato in ogni modo l'istituzione di una commissione d'inchiesta. Di «una sentenza contraddittoria, che non fa giustizia» parla il presidente dell'Arci, Paolo Beni, per il quale «ci saremmo aspettati che il ruolo di pubblici ufficiali degli imputati venisse considerata un'aggravante tale da giustificare una maggiore severità». Anche Beni mette però in luce come la sentenza «faccia comunque luce su un pezzetto di verità», riconoscendo come reati alcuni comportamenti delle forze dell'ordine e riconducendone la responsabilità anche su chi politicamente le dirigeva. Man mano che si va verso sinistra, le posizioni si fanno più intransigenti. E così il leader del Partito comunista dei lavoratori Marco Ferrando parla di uno «Stato che assolve la propria criminalità» e Gigi Malabarba di Sinistra critica chiede di accertare le «responsabilità politiche». Di sentenza «assurda e vergognosa» parla Pino Sgobio del Pdci, mentre per il verde Paolo Cento si tratta di una «verità dimezzata». Nelle fila del Pd parla invece Giovanna Melandri («attendiamo di leggere la motivazioni della sentenza, tuttavia possiamo affermare che si è cominciato, anche se un pò troppo timidamente, a far luce e ad intervenire su quanto è avvenuto a Genova»).

Dal Manifesto del 16 luglio 2008

«Lì scoprii la banalità del male»

Luca Arrigoni fu uno dei primi a denunciare le torture nella caserma. Ora si racconta
Le violenze gratuite, gli inni fascisti e oggi l'impunità. «Era assurdo sperare»
Alessandra Fava
GENOVA

Nell'unico sopralluogo fatto dai magistrati genovesi alla caserma di Bolzaneto l'8 agosto 2001 c'erano tre savonesi, tra i primi a denunciare gli spruzzi col gas urticante alle finestre, le botte e gli inni fascisti e far aprire un fascicolo in procura. Il sopralluogo fu fissato il giorno successivo alle dimissioni imposte dall'allora ministro Claudio Scajola ad Ansoino Andreassi, Arnaldo La Barbera e il questore genovese Francesco Colucci. Agli occhi degli avvocati che assistevano i pestati la visita a Bolzaneto sarebbe stato un punto fermo per le indagini che s'arricchivano giorno dopo giorno delle prime denunce che arrivavano per telefono, perché gli stranieri usciti dagli ospedali o dalle carceri furono subito allontanati dal territorio italiano. L'edificio in cui erano state detenute e picchiate decine di persone era talmente piccolo che sembrava impossibile dire: non sapevo. Invece ci vollero più di tre anni per arrivare all'inizio del processo. Uno dei tre savonesi era Luca Arrigoni, ora 27enne, studente di scienze della comunicazione e lavoratore part-time in un negozio video.

Non erano passate neppure tre settimane. Che cosa ricordi?
Avevamo sporto denuncia, perciò ci avevano chiamato. Non avrei mai voluto tornare in quel posto. Mi metteva un'ansia tremenda. Era come aprire una scatola che volevo chiudere e invece tutto era chiarissimo, ci ricordavamo dove ci avevano visitato, dove ci identificavano, dove erano successe le violenze. La cosa più tremenda è stato ritrovare là anche uno di quelli che mi avevano portato nelle celle, uno con la mascella pronunciata che si occupava della spola e ci aveva letteralmente lanciato fuori dal pullman. Insomma due settimane dopo in servizio a Bolzaneto c'erano gli stessi, con lo stesso atteggiamento strafottente. Perciò all'angoscia si univa la paura. Ma il magistrato mi disse che non era il momento di procedere ai riconoscimenti. Tante malizie forse le ho capite già allora.

Come mai eri a Genova?
Avevo vent'anni, non ero particolarmente schierato anche se arrivo da una famiglia di sinistra ma moderata. Ero venuto a Genova per caso, per sfida contro i miei. Esperienza di manifestazioni zero. Era il sabato del G8, siamo andati a Boccadasse e ci siamo uniti al corteo. Quando siamo arrivati a piazzale Kennedy c'è stata una carica, abbiamo cercato di fuggire e una genovese ci ha aperto un garage. E' stato là che la finanza e la polizia ci ha arrestato, messo in ginocchio per la strada e ritirato i documenti. Ma non ci perquisirono e io che avevo ancora il cellulare riuscii a chiamare mia madre e dirle che stavo bene, ero in arresto ma non avevo fatto niente. Per questo lei poi attraverso delle conoscenze seppe che ci avevano portato a Bolzaneto e venne fuori della caserma nella notte. Due poliziotti le dissero che era tutto a posto, che era già passato il carrello delle vivande e di star tranquilla perché avevamo anche le coperte e lei tornò a casa.

Che cosa è cambiato da allora?
Ho cambiato idea sullo stato e i suoi apparati. Mi sono chiesto che cosa poteva essere calcolato, previsto. Ho aperto gli occhi su tante questioni. Intanto prima del G8 studiavo ingegneria e pensavo di entrare nell'esercito. Dopo, sono passato a scienze della comunicazione e forse anche grazie ai miei studi ho trovato la ragione storica di quello che mi era successo e seguendo il processo sui giornali e in aula ho capito che ogni sforzo era teso a non delegittimare lo stato. In qualche modo la sentenza dell'altro ieri è consequenziale a questo. Insomma è stata una delle questioni centrali della mia vita per tanto tempo.

Come ne sei uscito?
Grazie agli amici. Anche quello che era con me a Bolzaneto. Così ho superato le violenze fisiche perché nella caserma ho preso anche un calcio fortissimo nel coccige, che mi sono fatto operare tre anni dopo. Mentre per rimettermi in sesto dal punto di vista psicologico è stata più lunga, forse ne sono uscito solo da pochi anni. Allora mi sentivo una bestia dentro che mi mangiava di continuo. Non ho voluto chiudermi in un centro sociale, non ho voluto frequentare solo gente che potesse comprendere. Ho continuato a parlarne con tutti, ma la reazione della persona media era di trattare il fatto come una disattenzione, un incidente, mentre penso che Bolzaneto sia uno dei fatti più gravi degli ultimi anni, anche se tutta la storia italiana è piena di macchie. O forse c'è da pensare che si vive meglio nell'ignoranza, nell'ignorare di essere ignoranti. In effetti prima ero più spensierato e meno consapevole, anche se, tornassi indietro, scapperei a Genova di nuovo. Siccome poi nella vita ci sono sempre dei paradossi, uno dei miei migliori amici era entrato in polizia mentre io uscivo dalla prigione di Alessandria.

Che cosa pensi della sentenza di primo grado?
C'è un clima di tensione in questo paese che pochi percepiscono. Speravo che la sentenza facesse un passo verso la giustizia. Eppure se guardo il governo, guardo la crisi, mi rendo conto che era assurdo sperare. La battaglia si gioca sull'autorità. Vedi, quello che mi ha ferito di più è la facilità con cui venivano commesse delle cattiveria. Atti di violenza gratuita a persone inermi. A vent'anni scoprire un lato dell'essere umano che ignoravo è stato allucinante. E se poi queste violenze arrivano da un mio coetaneo, riesco a capacitarmene ancora meno. Ho visto bruciare le sigarette sul corpo di qualcuno, buttare il gas lacrimogeno alle finestre, ho sentito gli inni fascisti e gli sfottò contro gli arrestati. Direi, un quadro che diventa tipicamente italiano.

Dal manifesto del 16 luglio 2008

mercoledì 16 luglio 2008

Sinistra Critica aderisce allo sciopero del 17 ottobre promosso dai sindacati di base

Sinistra Critica aderisce all'appello per lo sciopero generale del 17 ottobre , condividendone pienamente la piattaforma scaturita dall'assemblea unitaria di Milano del 17 maggio scorso, e si adopererà per la massima riuscita della mobilitazione. In particolare, attraverso la campagna per la Legge popolare sul salario, che ha già avuto centinaia di adesioni di dirigenti e delegati delle forze sindacali non concertative, intendiamo contribuire alla crescita di un forte movimento e di una rinnovata coscienza di classe tra i lavoratori e le lavoratrici, nativi e migranti, consapevoli che solo con la lotta è possibile strappare risultati al governo e al padronato.

Per leggere la piattaforma e aderire alla mobilitazione: http://www.scioperogenerale2008.org/

La delusione in aula: «Una presa in giro»

La rabbia dei giovani picchiati
Alessandra Fava
GENOVA

Alla lettura del dispositivo è venuto con madre, padre e fidanzata. Luca Arrigoni, 27 anni, savonese, studente e commesso in un negozio video, dopo la lettura del dispositivo non si capacita: «E' uno schifo, voglio andarmene dall'Italia. E' la fine della pantomima che pensavo fosse questo processo. I responsabili pagano un prezzo irrisorio. E' un messaggio anche a chi non c'era: la prossima volta sapranno che potranno agire impunemente». Sua madre accanto è ancora più arrabbiata: «Una presa in giro. Mio figlio nel 2004 ha dovuto essere operato per un calcio nel sedere ricevuto a Bolzaneto. Questa è la giustizia italiana».
Se l'avvocato Vincenzo Galasso parla di «pena molto mite», Vittorio Agnoletto allora portavoce del Genoa Social Forum sostiene che «è positivo il riconoscimento dei reati e delle vittime attraverso i risarcimenti e il fatto che i ministeri siano chiamati in solido a rispondere e che le assoluzioni per insufficienza di prove riconoscono la gravità dei fatti anche se si tende a diminuire la portata delle responsabilità individuali».
Contenti sono gli avvocati dei 45 imputati tra poliziotti, penitenziaria, carabinieri dei quali solo 15 condannati. L'avvocato Giovanni Scopesi che difende Alessandro Perugini il massimo grado per la polizia a Bolzaneto, allora vice della Digos, dice che: «Il tribunale ha cassato tutte le tesi dell'accusa, condanna solo ai risarcimenti dei detenuti, risarcimenti che saranno comunque fatti dai ministeri e bisognerà vedere quando».
«Delusa», lo dice con rabbia e stupore, Arianna Subri, anche lei passata per la caserma, «mi aspettavo un sacco di condanne, forse ero troppo ottimista, mi sembrava che le cose fossero state ampiamente appurate».
Uno dei pm, Vittorio Ranieri Miniati che con Patrizia Petruziello ha fatto tutta l'indagine e la costruzione delle accuse, salendo le scale dell'aula bunker si chiede «come mai hanno cancellato il 323, l'abuso d'ufficio», anche se è soddisfatto delle condanne per abuso d'autorità, «sulle posizioni dei singoli mai fatte questioni», assicura anche se del fatto che si sia cancellato l'unico reato che non sarebbe finito in prescrizione nel gennaio del 2009, il falso ideologico (473) non vuole commentare.
Sono state lunghe per tutti le ore d'attesa. Alle cinque una piccola folla si era già riunita nella sala bunker del Tribunale. Un pubblico folto di genovesi rappresentanti di associazioni, ambientalisti, pacifisti, molti pezzi dell'allora Social Forum erano già in aula. «Di Bolzaneto non voglio parlare - mette le mani avanti Francesco, studente universitario - Penso che sia un processo troppo mediatizzato. Non avviene lo stesso nei cpt, nelle caserme o negli arresti e nessuno se ne occupa? chi ha preso le botte per strada magari poteva prevederlo ma chi è stato coinvolto alla Diaz si è trovato spiazzato come trovarsi un ladro in casa mentre dormi».
Siccome di giornali è un appassionato lettore pensa anche che sulla comunicazione si sia sbagliato e parecchio: «Certo se avessero fatto comunicati diversi sin dall'inizio i processi sarebbero stati meno politicizzati. Avremmo dovuto far capire alla gente che le cose sono andate veramente come le abbiamo descritte e non è la tesi di una banda di comunisti».
Se c'è emozione è certo tra gli avvocati delle parti civili, alcuni giovani. Elena Quartero che con l'avvocato Lerici assiste quattro francesi tra cui Valerie Vie (che in all'inizio del processo si chiedeva come infondere speranza ai suoi figli dopo le porcate viste nella caserma) commenta che «è il primo processo che porta la polizia italiana a giudizio».
«Non ho nessun fiducia spero solo che esca fuori chi ha dato gli ordini e chi comandava», è il commento di Norma Bertullacelli della rete per la globalizzazione dei diritti - in ogni caso archiviato il caso Giuliani penso che nessun processo sia sufficiente a ristabilire che cosa successe nel 2001. E paradossalmente si prospetta il G8 alla Maddalena finanziato nuovamente dal centro-sinistra». Sarà per questo che Norma veste una maglietta nera con «Genova 2001, niente da archiviare».

Dal Manifesto del 15 luglio 2008

Impunità per le torture

IL LODO BOLZANETO
Impunità per le torture
Su 46 imputati per gli abusi nella caserma genovese, 30 assolti. Gli altri condannati a pene lievi o lievissime. Il primo processo alle forze dell'ordine per i massacri del G8 si conclude con la vittoria dei torturatori
Sara Menafra
INVIATA A GENOVA

Scarnificata, privata dei particolari più raccapriccianti. La storia delle torture della caserma di Bolzaneto che nelle notti del G8 genovese coinvolsero quasi trecento persone (209 sono le parti civili che hanno partecipato al processo) emerge ripulita e stravolta dalla sentenza che ieri sera ha assolto la maggior parte degli imputati e condannato quindici persone su quarantasei ad un totale di ventiquattro anni di carcere, contro i 76 e quattro mesi chiesti dai pm Patrizia Petruziello e Ranieri Miniati.
E anche se i magistrati che hanno seguito l'inchiesta per sette anni si dicono «soddisfatti» perché «l'impianto accusatorio ha retto, nonostante alcune valutazioni differenti del tribunale», basta scorrere le condanne per capire che il collegio presieduto da Renato Delucchi ha creduto solo parzialmente alle accuse delle parti civili che in questi anni hanno ripercorso le notti di Bolzaneto cercando di ricordare volti e torture.
Assolti tutti i carabinieri, quelli che, dopo la morte di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, erano stati dirottati a Bolzaneto ad occuparsi dell'«accoglienza» ai manifestanti arrestati e fermati . Via gli agenti della polizia penitenziaria Oronzo Doria, Ernesto Cimino e Bruno Pelliccia. E a casa anche i poliziotti che si occupavano dell'«ufficio matricole», gli unici per i quali i pm avessero chiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche.
La condanna più grave, a cinque anni, contro i 5 anni 8 mesi e 5 giorni chiesti dalla procura, è stata chiesta per Antonio Biagio Gugliotta, l'ispettore della polizia penitenziaria responsabile dell'intero «sito penitenziario». Quello che, secondo le testimonianze delle vittime, introdusse a Bolzaneto la «posizione del cigno» decidendo che la maggior parte dei detenuti dovessero attendere in piedi, faccia al muro con gambe divaricate e braccia alzate (la cosiddetta «posizione del cigno», appunto) per tutto il tempo della detenzione, fosse anche un giorno intero. Alfonso Sabella, coordinatore di tutte le attività dell'amministrazione penitenziaria durante il G8 (archiviato alla fine delle indagini preliminari), raccontò ai pm: «Gugliotta mi fece capire che la polizia di stato teneva gli arrestati in quel modo e dunque poteva essere visto come una sorta di delegittimazione operare una scelta differente».
Decisamente ridimensionata la posizione di Giacomo Toccafondi, il medico «in tuta mimetica», per il quale i pm avevano chiesto tre anni e mezzo di carcere e che è stato condannato a un anno e due mesi. Evidentemente - ma saranno le motivazioni a chiarire quale sia stata la ratio - i giudici non hanno creduto ai racconti delle tante vittime passate in infermeria, che hanno parlato delle minacce del medico, di come costringesse le ragazze a spogliarsi e girarsi e rigirarsi nude davanti a lui. O di come abbia ricucito senza anestesia la mano strappata di Giuseppe Azzolina.
Per quel taglio in due parti, che ha danneggiato in modo irreparabile il giovane genovese, il responsabile, Massimo Luigi Pigozzi, 44 anni, assistente capo di polizia ancora in servizio a Genova, è stato condannato a tre anni e due mesi. Una punizione a metà: la corte ha deciso che quel gesto, quello strappo, non era aggravato dall'aver agito con «crudeltà nei confronti della vittima». Anche lui, come tutti gli altri, potrà beneficiare di una rapida prescrizione, a gennaio del 2009.
Perché la beffa nella beffa, più crudele delle condanne fortemente ridimensionate, è proprio questa. L'incapacità della giustizia italiana di riconoscere che quel che accadde a Bolzaneto era tortura ha fatto in modo che i responsabili della caserma che accoglieva i detenuti fermati durante i cortei fossero accusati di abuso d'ufficio (art. 323 del codice penale, pena massima 3 anni), solo in alcuni casi di lesione personale (art. 582, 3 anni) o di falso (art. 479, 6 anni) perché nel nostro paese il reato di tortura non esiste. E non c'è norma che riconosca i calci, i pugni, l'attesa per ore in piedi, il passare tra due ali di agenti che picchiano, il dover cantare «Uno due tre, viva Pinochet» o «duce duce». E nei prossimi mesi prescrizione e indulto cancelleranno tutto il resto. Con l'incubo lasciato appena dietro l'angolo di un decreto «blocca processi» che poteva fermare persino questa sentenza.
Serve a poco pensare che i giudici abbiano riconosciuto anche le responsabilità dell'ex numero due della Digos genovese, Alessandro Perugini, vicequestore e dirigente più alto in grado presente a Bolzaneto, condannato a due anni e quattro mesi (invece di tre e mezzo) insieme ad Anna Poggi, vice di Canterini all'interno della struttura.
E le parole del pm Vittorio Ranieri Miniati, «nella sostanza l'accusa di abuso d'autorità (e dunque di tortura, ndr) è stato riconosciuta», lasciano l'amaro in bocca.

Dal manifesto del 15 luglio 2008

lunedì 14 luglio 2008

G8, BOLZANETO: SINISTRA CRITICA, E’ ORA DI METTERE SOTTO ACCUSA LA CATENA DI COMANDO

“Violenze e torture da parte di poliziotti e guardie a Bolzaneto sono avvenute, anche se la magistratura ha accertato solo specifici episodi: è vero che il reato di tortura non esiste in Italia, ma è un po' troppo poco dopo sette anni! Ora va messa sotto accusa l’intera catena di comando che ha pianificato e realizzato la repressione al G8 di Genova” dichiara Gigi Malabarba, già senatore di Sinistra Critica presente a Genova durante il G8 e testimone ai processi contro le forze dell’ordine.

“Le 15 flebili condanne di oggi andranno anche in prescrizione, ma le responsabilità politiche possono e devono essere individuate, perché i protagonisti, a partire dall’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, sono tuttora ai vertici delle istituzioni. Non esiste alcuna possibilità che le violenze poliziesche di piazza, che hanno portato all’uccisione di Carlo Giuliani e all’aggressione a migliaia di manifestanti, così come le torture e i pestaggi a Bolzaneto e alla scuola Diaz possano essere frutto di iniziative casuali e spontanee da parte di singoli” continua Malabarba. "E sulla notte cilena della Diaz, con tanto di prove false e depistaggi, non sarà così facile spargere assoluzioni a piene mani..."

“La mancata istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta anche da parte di un governo di centrosinistra, che pure l’aveva nel suo programma, pesa come un macigno sull’isolamento in cui la magistratura genovese è stata lasciata nella ricerca della verità e della giustizia sui fatti del G8. Il nuovo governo di centrodestra, dal canto suo, farebbe bene non solo a spostare dalla Maddalena, ma ad annullare il nuovo vertice previsto in Italia il prossimo anno” conclude l’esponente di Sinistra Critica.

giovedì 10 luglio 2008

Lettera di protesta al Manifesto

Caro Manifesto,
siamo un gruppo di lavoratori e lavoratrici, delegati e Rsu che hanno sottoscritto la lettera di sostegno da parte di Cremaschi, Leonardi e Tomaselli al progetto di Legge di iniziativa popolare sul Salario minimo intercategoriale proposto da Sinistra Critica. Si tratta della proposta di fissare per legge un Salario minimo a 1300 euro netti al mese, un Salario sociale e un Minimo previdenziale di 1000 euro. Ci sembra un'idea interessante nello scarno dibattito offerto dalla sinistra in questa fase e, al di là dell'organizzazione che l'ha proposta, appare un modo per riprendere l'iniziativa su questioni di contenuti e di "classe" e non solo sulle formule. Eppure, di questa proposta su "il manifesto" non abbiamo trovato granché. Con molta fatica, siamo riusciti a leggere dieci scarne righe, molto anonime, seminascoste nell'impaginazione di un giornale che in questi giorni ha dato ampissimo risalto a convegni di quella sinistra istituzionale in larga parte responsabile del disastro in cui ci troviamo. Libero "il manifesto" di sostenere chi vuole e di informare come vuole, ma a noi questa impostazione lascia perplessi perché ancora una volta esaurisce la discussione dentro luoghi tradizionali, con il solito personale, e tralascia gli spazi di novità per quanto piccoli e parziali possano essere. Davvero non riuscite a dare conto di questa complessità? Se davvero "il manifesto" vuole rappresentare tutti, come dice il vostro nuovo corso, dobbiamo ancora ricorrere a lettere come questa per attirare la vostra attenzione?

Con l'affetto di sempre

Daniele Bordo, Compagnia portuale "P.Chiesa" Genova
Nedo Pieri, Comune di Livorno
Antonello Tiddia, Carbosulcis
Pino La Robina, Kuehne Nagel Iveco Torino
Adriano Alessandria, Lear Torino
Enrico Baroni, Amsa Milano
Margherita Napoletano, osp. S.Raffaele Milano
Enzo Salvitti, az. Spec. Farmac Roma
Pietro Capodiferro, Meccanica Bassi Brescia
Donatella Benini, Invatec Brescia

Basta con salari e pensioni da fame!!! Firma la proposta di legge

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Ci hanno imbrogliato per oltre 15 anni. Abolita la ‘scala mobile’ nel 1992 –l’unico strumento per difendere il potere d’acquisto- tutte le retribuzioni hanno perso mediamente 7.000 euro all’anno e ora il 20% di lavoratori e lavoratrici è sotto la soglia di povertà! Anche l’Istat ha riconosciuto che gli aumenti dei beni di maggior consumo sono da 3 a 5 volte più di quelli registrati.

Mentre i profitti di imprese, banche e assicurazioni hanno il tasso di incremento più alto d’Europa, i salari in Italia sono precipitati all’ultimo posto, anche con la complicità dei sindacati confederali che hanno contrattato al ribasso. Si è avuto un gigantesco spostamento di 120 miliardi di euro all’anno dai salari ai profitti e alle rendite (dati BRI, istituto dipendente dalla Banca centrale europea): per questo non si arriva a fine mese!!

Sinistra Critica avvia una campagna nazionale di raccolta-firme di massa per una Legge di iniziativa popolare , che sarà presentata in Parlamento, per:
* un Salario minimo intercategoriale di 1300 euro netti al mese

* un Salario sociale per tutti periodi di non lavoro e un Minimo previdenziale di 1000 euro

* la restituzione integrale del Fiscal drag : se ciò non avviene si attua un furto nelle buste paga, perché per effetto dell’aumento nominale dei salari (che non corrisponde al potere d’acquisto) si pagano più tasse di quanto dovuto dalla legge

* una nuova Scala mobile , nella forma del recupero automatico annuale del differenziale tra inflazione reale e inflazione programmata

I soldi ci sono, basta contenere i profitti, eliminando la riduzione del cuneo fiscale alle imprese deciso da Prodi (15 miliardi di euro in due anni!) e introducendo la tassazione al 20% delle rendite finanziarie per chi ha redditi superiori a 50.000 euro all’anno.

I nostri nemici non sono gli altri lavoratori – italiani o migranti che siano – ma i padroni che hanno fatto fortuna sia coi governi di centrodestra che di centrosinistra.

è questo il pacchetto sicurezza che ci vuole!
sicurezza di poter campare decentemente!!

Contattaci, aiutaci a raccogliere le firme, a costruire banchetti in ogni quartiere e azienda

I nostri no alla Tav in Val di Susa

A seguito degli ultimi accadimenti sulla questione Tav abbiamo deciso di uscire dalla maggioranza del Consiglio di comunità montana. L'Osservatorio si è ancora una volta rivelato, dopo l'utilizzo per il dossier di richiesta di finanziamenti europei, lo strumento per la prosecuzione dell'iter di realizzazione della nuova linea a alta velocità Torino-Lione, come da denunciato da noi, altri consiglieri e tanti valsusini. Altro che pareggio dichiarato!
Il 30 giugno scorso, la notizia di apertura di tv, radio, giornali, è stata: «raggiunto l'accordo per la realizzazione dell'alta velocità Torino-Lione», con particolare enfasi sull'assenso-consenso di tanti sindaci della Val di Susa. Siamo convinti, aldilà di ogni ragionevole dubbio, che la linea coerentemente portata avanti da alcuni amministratori, nell'ultimo anno, sia stata ambigua e determinata da scelte maturate in stretti e limitati ambiti decisionali. Riteniamo che alcuni amministratori abbiano disatteso il proprio programma elettorale che ribadiva la contrarietà a ogni proposta di realizzazione di un nuovo tunnel e a ogni ipotesi progettuale relativa alla costruzione di una nuova linea ferroviaria nella Valle di Susa.
Il tempo, la storia, ripartirà noi tutti nelle caselle della coerenza, della ragione, della dignità, dell'ambiguità, della doppiezza, dell'opportunismo. «A ciascuno il suo» , affermava Sciascia. Pertanto in un contesto economico e ambientale del paese, che non è certo migliorato nell'ultimo periodo, si possono solo confermare le ragioni del No all'Alta Velocità ferroviaria e noi ribadiamo il nostro fermo No al tunnel di base e a nuove infrastrutture: per la loro inutilità di fronte alla riduzione dei traffici sulla direttrice ovest-est; per il crescente costo stimato, che non regge il confronto con quello sostenuto dagli altri paesi europei; per insostenibilità del territorio della valle a una massiccia cantierizzazione; per la fragilità del territorio già fortemente antropizzato(a rischio sorgenti idropotabili e irrigue, frane e smottamenti, interruzioni e turbativa delle falde anche del fondo vallivo); per la pericolosità derivanti dalla enorme movimentazione di materiale geologicamente intriso di uranio, radon e amianto. Tanto più che: l'attuale linea internazionale Torino-Modane non è satura e offre ampie potenzialità; il quadro economico nazionale e internazionale non ha prospettive rosee (vedi il petrolio); le tratte italiane iniziate, con ritardi di anni, sono da completare e hanno sforato ogni preventivo di spesa; i danni ambientali sono talmente ingenti da non poter essere, in alcuni casi, neppure quantificabili; la cantierizzazione ha spesso inferto ferite insanabili sul piano ambientale e sociale; nelle attività connesse con le grandi opere è stata più volte denunciata dalla magistratura una costante infiltrazione mafiosa.
Vediamo purtroppo che è cambiato l'approccio di molti colleghi amministratori e non ci riconosciamo in questo cambiamento dell'agire politico-amministrativo, e quindi per rispettare l'impegno assunto verso i nostri amministrati e la popolazione della Valle di Susa, che per anni hanno lottato e credono nelle ragioni del No Tav, riteniamo ormai superflue e inutili le programmate verifiche di maggioranza e comunichiamo, con decorrenza immediata, la nostra uscita dalla maggioranza del Consiglio di comunità montana.
* per il gruppo Indipendenti di centro-sinistra (Bussoleno)

Dal Manifesto del 9 luglio 2008

mercoledì 9 luglio 2008

La base Dal Molin va al referendum

Il consiglio comunale approva la proposta della giunta di centrosinistra. La parola ai cittadini, a ottobre
Il sindaco Variati (Pd) durissimo con Berlusconi, Prodi e il commissario di governo Costa
Orsola Casagrande
VICENZA

Alla fine è arrivato il sì che apre ufficialmente un conflitto istituzionale tra il comune di Vicenza e il governo. Che si somma alla sospensiva del Tar e all'opposizione frontale dei no Dal Molin, di fronte alle quali Berlusconi e il commissario straordinario Costa fanno la faccia dura. Il consiglio comunale di Vicenza ha approvato nella tarda serata di ieri, a larga maggioranza, un ordine del giorno contrario al progetto di realizzazione della nuova base militare americana all'aeroporto Dal Molin e congiuntamente la delibera che indice la consultazione popolare sulla destinazione d'uso della stessa area.
Il sindaco Achille Variati ha così fatto quello che aveva promesso di fare in campagna elettorale. E' stato proprio il primo cittadino ad aprire il consiglio ripercorrendo con parole anche molto dure la storia del Dal Molin fin qui. Ce l'ha con la vecchia giunta, Variati, ma anche con il governo Prodi. «Hanno risposto alle interrogazioni parlamentari dicendo che nulla sembrava essere definitivo. E' responsabile questo? - si è chiesto Variati - No, è irresponsabile. E' stato responsabile da parte di Prodi quello che io e altri abbiamo chiamato editto di Bucarest? E' responsabile approfittare di una visita all'estero dicendo la base si farà, quasi a esprimere una forza che quel governo non aveva?». E ancora, il sindaco si è chiesto se sia stato «responsabile da parte di quel governo non mandare mai a Vicenza nemmeno un sottosegretario dei tanti, non dico un ministro. A spiegare, a sentire una città che nel frattempo cominciava a muoversi. No, io dico, è stato irresponsabile». Il sindaco non ha risparmiato neppure Costa. «E' stato spedito un commissario di governo, l'onorevole Costa, al quale il governo Prodi non ha dato un potere di negoziato tra le parti dicendogli che l'obiettivo è realizzare al Dal Molin quello che il governo chiama allargamento della Ederle e che io chiamo, molto più propriamente, una nuova base. Non è stato responsabile. Il lavoro del commissario è stato quello di tentare di minimizzare gli impatti. La città chiede notizie che non vengono date, mai. Il dissenso, le manifestazioni, la grande manifestazione demonizzata equiparata a momento di violenza. Io c'ero, ho visto, so che gente c'era. Di Vicenza e non solo. Ma la Costituzione di fronte alle dichiarazioni dei ministri di allora non deve garantire anche il dissenso, o il dissenso va demonizzato?»
Variati ha quindi sottolineato di aver «cercato documenti anche sulle cosiddette compensazioni. Non c'è nessuna sicurezza su nulla. In questo pasticcio - ha detto ancora il sindaco - dove le vittime principali sono gli americani ai quali hanno detto tutti che va tutto bene e bene non va, e la nostra città. La responsabilità oggi è quella di non lasciare la città vittima, di non continuare in quella cappa di silenzio». Quindi Variati ha detto di aver parlato con «il governo che ha da salvaguardare una ragion di stato. Secondo me la ragion di stato deve sapersi coniugare con le ragioni della comunità. Sarebbe drammatico per la nostra libertà e democrazia se la ragion di stato fosse imposta con i manganelli». Il sindaco ha infine ricordato che «il consiglio di stato ha ritenuto di rinviare al 29 luglio pur con le pressioni che ritengo non siano state da poco. Credo che il pensiero della città si debba sentire, seppur in zona cesarini. Ecco, deriva da qui questa delibera».
L'opposizione di centrodestra ha chiesto di sospendere la seduta ritenendo illegittima la delibera. Ma la richiesta è stata respinta e il consiglio, a volte teso, è proseguito. Il sindaco ha anche ricordato di aver posto un quorum «che non era richiesto, ma è per me segno di responsabilità. So che qualcuno avrebbe preferito non ci fosse. Ma dobbiamo capire se la città interpellata sull'idea di avviare il procedimento di acquisizione dell'area riterrà di interessarsi o di disinteressarsi». Applausi da parte dei consiglieri di maggioranza, ripresi dal presidente del consiglio che ha ammonito i suoi colleghi a esprimere il loro consenso soltanto con il voto. Voto che è giunto a tarda sera, dopo un dibattito dai toni anche molto accesi da parte dell'opposizione che non ha lesinato accuse (ma sembravano più che altro attacchi di rabbia) al sindaco e alla giunta.
Fuori, in piazza dei Signori, centinaia di cittadini si sono ritrovati per assistere al consiglio, visto che in sala i posti erano limitati. Il presidio permanente no Dal Molin aveva allestito dei maxischermi per poter dare a tutti la possibilità di partecipare.

Dal Manifesto del 9 luglio 2008

Alla Fiat dopo due anni torna la cassa integrazione

A Torino si salva la linea della MiTo. Non si fermano Cassino e la Sevel
MARINA CASSI
TORINO
Torna la cassa integrazione alla Fiat. Dopo due anni dalla fine della crisi del 2002 il mercato dell’auto subisce i contraccolpi della difficile situazione economica internazionale e le Carrozzerie si fermano. A Mirafiori le settimane saranno tre - una a settembre, ottobre e novembre - e coinvolgeranno 3200 addetti, tutti, esclusi quelli della MiTo. Tre settimane anche a Termini Imerese. Quattro, invece, a Melfi che anticipa una settimana ad agosto e a Pomigliano che ne farà due a settembre, una a ottobre e una a novembre. Le settimane sono state «spalmate» in mesi diversi per non incidere sui ratei di tredicesima degli operai. Fermate di sette settimane anche per la Cnh di San Mauro vicino a Torino e di Imola.

E con la cassa tornano anche le diverse posizioni del sindacato. Dura la risposta della Fiom con il segretario Gianni Rinaldini che chiede «rapidamente» un incontro con l’ad Sergio Marchionne «sul piano industriale e sugli obiettivi della Fiat». Dice di voler capire «come si possa superare questa fase: se si tratta di un fatto congiunturale o se siamo di fronte a una crisi più strutturale perchè è evidente che il futuro dell’auto si gioca sull’innovazione dei motori».

Nessuna sorpresa, invece, per Eros Panicali della Uilm. Dice: «Era nell’aria, ma non è un problema specifico della Fiat». E anche Bruno Vitali della Fim non drammatizza, ma mette le mani avanti: «La cassa integrazione non deve influire sulla contrattazione aziendale dal momento che la Fiat ha registrato ottimi risultati di bilancio e Marchionne ha confermato quelli per il 2008». Giovanni Centrella della Ugl ritiene che «la situazione evidentemente è più seria di quanto percepito».

Per Roberto Di Maulo della Fismic «la cassa è una conseguenza di mercato, che però avrà la grave ripercussione di lasciare a casa migliaia di lavoratori precari oggi occupati» polemizza con gli altri sindacati. E lo fa sui 17 turni chiesti a Torino dalla Fiat Powertrain technologies sia per l’Iveco - dove già sono in corso - sia per le Meccaniche di Mirafiori a partire da fine agosto. Analizza: «I tempi della negoziazione in Italia sono troppo lunghi rispetto ai cicli economici. Il sindacato deve snellire le procedure burocratiche».

Ma l’ipotesi di arrivare a una trattativa complessiva sull’incentivo economico ai turnisti, da discutere a livello di segreterie nazionali, si sta complicando. La Fiom non ha mai condiviso questa impostazione. E Enzo Masini dice: «Non andremo il 17 luglio a un incontro se prima non ci saranno state le assemblee e se non ci sarà una posizione comune delle Rsu».

La Stampa web

lunedì 7 luglio 2008

Dichiarazione di Franco Turigliatto

L'8 luglio Sinistra Critica aderisce e partecipa anche a Torino alla manifestazione per la difesa dei diritti democratici e contro i provvedimenti liberticidi e anticostituzionali del governo di centro destra. Giudichiamo infatti la piattaforma politica dei promotori positiva anche se insufficiente.

Pensiamo infatti che per contrapporsi alle politiche del governo e per poterlo battere non basti l'antiberlusconismo "democratico" ma sia indispensabile un antiberlusconismo "sociale" centrato sulla difesa dei salari e dei diritti dei migranti, sull'opposizione alla manovra finanziaria e all'alleanza con Confindustria, sulla difesa ecologica dei territori contro le nuove grandi opere e il nucleare, sul rifiuto "senza se e senza ma" della guerra.

Saremo quindi in Piazza Castello, dalle ore 17.00, con le nostre bandiere e per raccogliere le firme sul progetto di Legge di iniziativa popolare per il Salario minimo a 1300 euro che Sinistra Critica ha già lanciato da una settimana e la cui raccolta firme prosegue con successo. Accanto alla Legge di iniziativa popolare raccoglieremo le firme anche sulla Petizione per i diritti dei migranti rivolta al Presidente della Repubblica e al Presidente del Senato.

Erre n.28 - La sinistra sinistrata

Erre n. 28

Erre n. 28 Maggio/Giugno 2008

Leggi il Sommario

Editoriale:
L'Italia dopo il voto di aprile (Salvatore Cannavò)

il Tema
Rimuoviamo le macerie e costruiamo l'opposizione (Tavola rotonda con Giorgio Cremaschi, Sergio Cararo e Flavia D'Angeli)
Di cosa parliamo quando parliamo di radicamento (Lidia Cirillo)
L'occasione mancata di Rifondazione (Cinzia Arruzza)
Voto operaio e flussi elettorali (Roberto Firenze)
La terza onda leghista (intervista a Roberto Biorcio)
Il voto a Roma (Fabrizio Burattini)

Osservatorio sud
'ndrangheta, capitale e potere politico (Gennaro Montuoro)

Il mondo
Attenti a Zapatero (Joan Guitar)

Le idee
A proposito di capitale e lavoro (Marco Bertorello)
Recensioni: L'amara morte di Pietro Tresso (Antonio Moscato)
Identità rancorose (Felice Mometti)
Lotta continua, storie di donne (Silvia Casilio)
Il noir secondo Casarini (Checchino Antonini)
Da Matrix a Marx: Ecco il nuovo cinema-inferno (Boris Sollazzo)

domenica 6 luglio 2008

«Tutti in piazza contro la Tav» E i valsusini bocciano l'«accordo»

ALTA VELOCITÀ Ieri sera a Bussoleno la prima discussione pubblica. Presenti solo i sindaci dissidenti
Elsa Camuffo
BUSSOLENO (VAL DI SUSA)

«Siamo tutti d'accordo?». Il titolo dell'assemblea di ieri sera a Bussoleno non poteva essere più eloquente. E la risposta alla domanda non si è fatta attendere: a centinaia sono arrivati nel piazzale dietro al centro polivalente di Bussoleno. Sono i valsusini arrabbiati che non ci stanno all'accordo, vero o presunto, raggiunto a conclusione dei lavori dell'osservatorio tecnico sulla Torino-Lyon. Vogliono dire la loro anche perché si sentono ingannati dai loro sindaci, quei sindaci di movimento che ormai raramente si fanno vedere in piazza. Un'assenza che tutti notano e sottolineano. «Non vogliono più il confronto pubblico», dice qualcuno ricordando che proprio in questo spazio nei momenti caldi della lotta contro il Tav la comunità si ritrovava unita a votare, a decidere insieme del futuro della valle. Oggi ci sono tantissimi cittadini, i comitati no Tav, i sindaci «dissidenti». Un migliaio di persone, giovani, vecchi, donne e lavoratori, per una assemblea che è ormai classica nella sua composizione per la val Susa.
Ha aperto l'assemblea Alberto Perino, per i comitati no Tav. «Stanno vendendo la pelle dell'orso - ha detto in maniera efficace e colorita - non solo prima di averlo ammazzato ma prima ancora di averlo trovato». Tra gli amministratori presenti Loredana Bellone, sindaco di San Didero, una dei quattro sindaci che non hanno partecipato ai lavori dell'osservatorio e che ha ribadito il suo impegno a fianco della gente della val Susa. Presenti anche gli altri tre sindaci dissidenti e vari amministratori. Assenti invece totalmente, ed è un'assenza pesante che segna una svolta in qualche modo in valle, i sindaci che hanno partecipato alle riunioni dell'Osservatorio.
In risposta alla presidente della provincia di Torino Mercedes Bresso e a quanti, nelle istituzioni, chiedono un referendum sull'alta velocità, ieri sera l'assemblea ha ribadito che il referendum è già stato fatto e lo dimostrano le 32mila firme raccolte in valle. Viene sottolineato da più interventi il poco rispetto dei cittadini, della loro volontà e in qualche modo di quello stesso metodo di democrazia dal basso che ha caratterizzato la lotta di questi anni.
Claudio Cancelli, ingegnere del Politecnico, ha rilevato come tra i quattro punti manchi l'opzione zero che invece era stata la conquista della valle nell'autunno caldo del 2005, vale a dire la possibilità di non realizzare affatto l'opera. Lele Rizzo dei comitati popolari no Tav ha ricordato l'appuntamento con il campeggio che si svolgerà dal 21 al 27 luglio e che sarà un ulteriore momento per discutere anche delle iniziative da intraprendere in autunno. Prima fra tutte una nuova manifestazione nazionale in valle, dove i comitati e i movimenti no Tav ribadiranno la convinzione di essere la maggioranza. «I sindaci - ha detto Rizzo - hanno scelto da che parte stare e hanno scelto di ingrassare la lobby del Tav».
L'assemblea ha registrato le comunicazioni di Rifondazione della val Susa e degli indipendenti di sinistra, che hanno confermato di voler uscire dalla giunta della comunità montana Bassa val Susa. «Vediamo purtroppo che è cambiato l'approccio di molti colleghi amministratori, riconoscendo un ruolo super partes al tavolo politico, con governi che vogliono comunque fare l'opera», hanno detto gli indipendenti di centrosinistra. «Per rispettare l'impegno assunto verso i nostri amministrati - hanno concluso - riteniamo ormai superflue e inutili le programmate verifiche di maggioranza e comunichiamo, con decorrenza immediata, la nostra uscita dalla maggioranza». Lo stesso ha fatto Rifondazione, che ha sottolineato come «la storia dei cedimenti è lunga e viene da un passato che avevamo deciso di superare, grazie soprattutto alle mobilitazioni che hanno avuto il punto più alto nella liberazione di Venaus del dicembre 2005».
Sono quattro i punti del presunto accordo sbandierato da Mario Virano, che proprio ieri è stato riconfermato a capo dell'Osservatorio. Il punto 1 è quello più importante per i sindaci perché sancisce che «la politica delle infrastrutture non è scindibile dalla politica dei trasporti e del territorio». Si parla dunque di prevedere un «miglior utilizzo per la linea storica Torino-Lyon sia per i passeggeri che per le merci». Il punto 2 stabilisce la necessità di una «regia unitaria». Mentre il punto 3 pone l'accento sulle «convergenze sulle fasi progettuali e le divergenze su quelle realizzative». Le due posizioni esplicitate sono quella che ritiene si debba «operare per lotti funzionali, affidandosi alla programmazione degli interventi e alla loro razionale attuazione secondo un quadro di riferimento». La seconda posizione invece «ritiene indispensabile sottoporre l'attivazione dei lotti per fasi successive a una verifica dell'effettivo conseguimento degli obiettivi della fase precedente». A questo orientamento si rifanno i sindaci. Al punto 4 i riferimenti per una progettazione ispirata dal territorio e rivolta all'Europa.
(hanno collaborato Gianluca Pittavino e Gabriele Proglio)

Dal Manifesto del 5 luglio 2008

La mozione finale del cordinamento nazionale di Sinistra Critica 5-6 Luglio

Un'alleanza politica e sociale contro Governo e Confindustria
Costruire Sinistra Critica per una nuova sinistra anticapitalista

La situazione politica italiana dopo le elezioni del 13 e 14 aprile mantiene ed aggrava la situazione di debolezza e di difficoltà del movimento operaio italiano e delle classi subalterne e richiede uno scatto nell’iniziativa della sinistra antagonista, dei movimenti, del sindacalismo di classe.

1. Il governo Berlusconi forte della sua maggioranza può permettersi di attivare una politica di offensiva capitalistica che si inscrive nel quadro più in generale delineato dall’Unione europea – vedi direttive su orario di lavoro e migranti – che trova consensi nel mondo dell’impnrenditoria proiettato a ridisegnare la contrattazione nazionale e che si avvale del supporto ideologico e materiale della Chiesa cattolica. Condizioni ultrafavorevoli che permettono al premier di lanciarsi in una guerra personale contro la magistratura italiana e spezzare una volta per tutte l’accerchiamento giudiziario attorno a Berlusconi. Un’attitudine che resta identica nella propensione del personaggio ma che, tuttavia, non costituisce l’elemento saliente del governo i cui atti più pericolosi e da avversare sono il “pacchetto sicurezza” la politica filo-padronale, la propensione alla guerra e alla militarizzazione del conflitto sociale.

2. Il governo Berlusconi presenta quindi elementi di continuità con le sue versioni precedenti ma anche elementi di innovazione importanti. La forza numerica, evidentemente, e il tentativo di utilizzarla per stabilizzare la destra, omogeneizzarla e quindi renderla più coesa e dunque pericolosa. In secondo luogo, il governo può utilizzare l’ampio lavoro di sminamento operato dal governo Prodi che ha aperto la strada alle più pericolose misure antisociali: dall’offensiva ideologica contro i Rom alla flessibilità del lavoro; dalla base di Vicenza alla Tav fino alla subordinazione al Vaticano. Terzo fattore di novità, il più importante: per la prima volta in Italia la destra non è solo al governo ma può ambire a conquistare un’egemonia culturale nella società italiana raccogliendo i frutti di uno slittamento conservatore maturato nel corso degli anni 90. Questa egemonia non è scontata anche perché richiede un personale e un apparato intellettuale che la destra non mostra ancora di avere. Ma il grado di consenso ai valori della destra (nazionalismo, xenofobia, liberismo) e al capitalismo in generale è oggi più forte che mai anche se esistono importanti contraddizioni ed elementi di controtendenza.

3. Chi appare senza fiato e senza prospettiva politica è l’opposizione del Pd che, non a caso, preferisce rifugiarsi nel governo “ombra”. Veltroni paga l’illusione del proprio progetto e più in generale del progetto che ha animato gli eredi del Pci dopo il suo scioglimento: gestire in prima persona il capitalismo italiano occupando tutto lo spazio a sinistra. Una contraddizione insanabile che ha portato il Pd, prima Ds, a regalare alle destre la forza che dieci-quindici anni fa non avevano, a snaturare la sinistra di classe coinvolgendo in questa deriva la stessa Rifondazione.

4. E’ dentro questa crisi che prende forza e fiato l’antiberlusconismo più tradizionale, più semplice e in fondo più innocuo, quello concentrato sulle vicende personali del presidente del Consiglio. L’Idv di Di Pietro si muove con naturalezza in questo ambito ma dimostra, allo stesso tempo, un’agilità e una determinazione che manca alle altre forze di opposizione. Ma come è stato già dimostrato, l’antiberlusconismo “democratico” – per quanto positivo - non è nulla senza una seria mobilitazione sui temi sociali. Per questo noi saremo in piazza l’8 luglio a Roma alla manifestazione promossa da Antonio Di Pietro, ma per raccogliere le firme in calce alla Legge popolare sul Salario minimo e alla Petizione per i diritti dei migranti.

5. Il Prc e le forze della Sinistra Arcobaleno, dal canto loro, non riescono a uscire dalla crisi che le ha viste protagoniste alle scorse elezioni, anzi si dibattono in una diatriba interna dalle dinamiche indecenti e dagli effetti esplosivi. Ma soprattutto non riescono a trarre le giuste conclusioni dall’esperienza attraversata rimanendo, il proprio orizzonte politico, tutto interno all’orizzonte dell’alleanza con il Pd e, quindi, della prospettiva di governo. Anche chi, apparentemente, oggi prende le distanze da questa linea non lo fa per un’elaborazione strategica e cerca di coprire le proprie contraddizioni dietro la battaglia identitaria che accomuna, sia pure in forme diverse, sia la linea Diliberto-Rizzo del congresso Pdci (con la dependance dell’Ernesto) che la mozione Ferrero-Grassi-Mantovani nel congresso di Rifondazione.

6. La crisi è profonda e non basterà l’ennesima “mossa del cavallo” per risolverla. Anzi, se un elemento positivo è riscontrabile nella fase attuale è proprio il fatto che è finito il tempo delle “mosse”. C’è un lavoro lungo davanti a noi, un lavoro che è fatto di recupero dell’egemonia culturale del movimento operaio ma, prima ancora, di ricostruzione di una soggettività del movimento stesso, un recupero della “classe per sé” che è sempre più flebile e che resta alla radice della crisi attuale. Per fare questo lavoro servono due linee direttrici fondamentali. Lavorare nei tempi giusti, senza forzature o illusioni a ricostruire una forza politica della sinistra di classe, radicata e di massa che sappia parlare al moderno proletariato e che sappia relazionarsi alle sue esigenze; costruire nell’immediato una “massa critica” necessaria a fronteggiare le destre e l’offensiva capitalistica attraverso un Fronte unitario, una stabile Alleanza sociale e politica, che non metta insieme solo pezzi di gruppi dirigenti ma riunisca, anche solo parzialmente, le migliori esperienze di lotta e le energie disponibile a un lavoro di opposizione.

7. I terreni per costruire questa Alleanza non mancano, come hanno dimostrato le esperienze, parziali, dei vari Patti: dall’opposizione alla guerra alla resistenza ecologista; dal “Pacchetto sicurezza” alle vertenze di lavoratori e lavoratrici; dal rifiuto dell’ingerenza vaticana alla battaglia per i diritti civili. Ma non si tratta solo di fare lotte parziali, manifestazioni, episodi di resistenza – tutti importanti e utili – quanto costruire un movimento più ampio, un’Alleanza stabile, appunto. L’organizzazione di una Mobilitazione nazionale dell’opposizione sociale è un primo obiettivo che proponiamo a tutte le forze antagoniste. Allo stesso tempo, un’alleanza sociale e politica si sostanzia anche di progetti concreti di lavoro che vivano quotidianamente sui territori o nei posti di lavoro e di studio. Un’organizzazione nazionale studentesca, una Rete permanente delle associazioni migranti e antirazziste, uno strumento di informazione e comunicazione effettivamente plurale sono solo alcuni degli esempi possibili.

8. Il terreno del movimento, del fronte unitario politico e sociale evidentemente non basta. Occorre costruire ex novo una sinistra di classe che innanzitutto sappia riprendere parola e che abbia la necessaria credibilità per farlo. I gruppi dirigenti della sinistra storica, tutti, compresi i dirigenti dei giornali e dei centri culturali, quella credibilità l’hanno persa. Occorre innanzitutto fare tesoro dell’esperienza che dice che non è possibile governare il sistema capitalista, che una simile strategia favorisce le destre e aiuta il padronato. E occorre cimentarsi sul terreno dei grandi riferimenti strategici. L’egemonia culturale e politica delle destre si batte sul terreno delle aspettative sociali, della società che intendiamo costruire. Una nuova sinistra di classe deve ridare senso e concretezza alla prospettiva dell’anticapitalismo, riconquistandone le ragioni direttamente nei luoghi del conflitto ma anche nei luoghi in cui si lavora, si studia, si vive.

9.Non ci sono oggi, nel breve termine, le condizioni per una ricomposizione politica che non sia politicista, identitaria o sradicata socialmente, tutti presupposti che vogliamo battere. La necessità di riaggregare una sinistra anticapitalista, radicata e di massa è quanto mai necessaria nella fase attuale e questa resta la nostra prospettiva di fondo. Per favorirla c’è oggi bisogno di concentrare risorse e attenzione sul rafforzamento e la costruzione di Sinistra Critica. Il risultato, per noi positivo, delle elezioni, la crescita del nostro Movimento politico, sono passaggi che riteniamo non finalizzati a se stessi o alla nostra crescita autoreferenziale ma presupposti per favorire l’affermazione di una nuova sinistra anticapitalista, radicata e di massa. Verso questo obiettivo ci possono essere tappe intermedie che prevedano alleanze stabili, soprattutto sul piano dell’incidenza sociale. Ma Sinistra Critica è oggi per noi uno strumento indispensabile che mettiamo a disposizione di quanti e quante non vogliono rassegnarsi alla faida interna alla sinistra, alla politica istituzionale o all’autoproclamazione di se stessi. Uno strumento in grado di favorire la nascita di una sinistra “nuova” che oggi non è visibile e per la quale dobbiamo lavorare attivamente.

10. Parte integrante di questo processo è la partecipazione alla costruzione della Conferenza Anticapitalistica Europea che ha visto un primo importante e riuscito appuntamento agli inizi di giugno a Parigi e che è incamminata a favorire la convergenza e l’azione comune fra forze di diversa provenienza ma animate da una prospettiva comune. Sinistra Critica si riconosce nei lavori e nell’agenda della Conferenza, compresa la necessità di dare vita a una lista comune alle prossime elezioni europee.

11. Dentro questo processo, Sinistra Critica lavorerà nei prossimi mesi alla Legge di iniziativa popolare per il Salario minimo intercatecategoriale. Una proposta di legge che mettiamo a disposizione di tutti coloro vogliano prendere parola nell’immediato contro il governo e Confindustria, vogliano agire concretamente anche per ottenere l’effetto simbolico della prima legge da sinistra nel Parlamento di Berlusconi. E per mobilitarsi nei luoghi di lavoro contro il nuovo razzismo firmando e facendo firmare la Petizione popolare per la difesa e l’estensione dei diritti del popolo migrante.

12. E’ in questi termini che intendiamo lavorare nel prossimo futuro e in particolare che intendiamo costruire la nostra, vera, prima Conferenza Nazionale che si svolgerà da ottobre a febbraio, accompagnata non solo da conferenze territoriali ma da vere e proprie conferenze tematiche sui principali ambiti del nostro lavoro politico.Una Conferenza per costruire Sinistra Critica, per dibattere con il resto della sinistra, per sperimentare forme più incisive sul piano dell’opposizione sociale e per mettere in agenda la scadenza delle elezioni europee che costituirà un banco di prova tanto importante quanto impegnativo.