domenica 30 dicembre 2012

Oltre le elezioni

Di Piero Maestri.

L’assemblea del 22 dicembre al teatro Quirino ha rappresentato l’ultimo atto di una speranza che si era aperta a sinistra per una presenza elettorale alternativa al patto PD-SEL, con caratteristiche davvero nuove di costruzione dal basso, facendo tesoro degli errori del passato per non ripeterli.
In realtà già il giorno precedente un duro colpo al progetto di «Cambiare si può» era stato dato da Antonio Ingroia, con la sua assemblea nazionale che ha segnato una vera e propria «Opa» nei confronti di tutto il processo, con la sua idea di «dialogo» con il PD che rappresenta una scelta non tattica ma di collocazione: esterni ma non alternativi al centrosinistra e «spina nel fianco» perché questo possa cambiare politica.
D’altra parte lo stesso «decalogo» presentato dal magistrato siciliano rappresenta un programma davvero poco di sinistra e contiene affermazioni imbarazzanti e inaccettabili per chi vorrebbe presentarsi come alternativo: pensiamo anche solamente all’idea reazionaria secondo la quale in Italia gli imprenditori subiscano ancora «lacci e laccioli» burocratici o di tasse. Per non parlare di quello che non dice sulle politiche di austerità, il «fiscal compact», i diktat dell’Unione Europea…
L’assemblea del 22 dicembre non è riuscita a difendersi dal ritorno di un ceto politico della sinistra già «radicale» che si ripresenta sulla scena senza aver mai davvero fatto i conti con le sue scelte degli anni passati. E’ in questo senso imbarazzante vedere che all’intervento di un’attivista contro la base Dal Molin come Cinzia Bottene seguano quelli di ministri, viceministri e sottosegretari del governo Prodi che quella base militare ha accettato e sottoscritto (così come l’acquisto degli F35) senza fare nemmeno un briciolo di autocritica (e magari le loro scuse a quelle e quegli attiviste/i) e senza nemmeno chiedersi se in fondo l’assenza della «sinistra radicale» dal parlamento non sia avvenuta proprio per quella partecipazione al governo e l’incapacità di pensarsi davvero come alternativi al centrosinistra (siamo infatti ancora all’infausto detto «in politica mai dire mai» di bertinottiana memoria).
Ed è ancora l’ennesima “performance” in un teatro del nuovo leader Antonio Ingoia a dare i tempi e i modi dell’avvenuta decisione di “scendere in campo”: ieri al Capranica è nata “Rivoluzione civile”, caratterizzata da un simbolo con il nome di Ingoia scritto a caratteri cubitali (alla faccia del rifuto di personalismi e leaderismi) e un !”quarto stato” stilizzato – che vorrebbe simboleggiare la volontà di rappresentare le classi oppresse (con qualche forzatura, vista la composizione sociale di chi ha voluto questa lista…). A questo punto la possibile lista degli arancioni si caratterizza come un «quarto polo» elettoralmente distinto dal centrosinistra con il quale però si lasciano aperte le strade per accordi successivi, di governo o sostegno in qualche modo (con qualche ammiccamento a Grillo, anche…).
I partiti presenti sono disposti ad accettare questa conclusione non solo perché per loro è l’ultima spiaggia per ritornare in parlamento con qualche deputato e rientrare così nei giochi della «politica alta» (vale per il Prc e ancor più per Di Pietro e la sua Italia dei Valori in piena crisi e per i decotti «comunisti» italiani di Diliberto, ai quali fornisce un’occasione per potersi presentare all’elettorato con un po’ di riverniciatura sfruttando l’autorevolezza di Ingoia), ma i partiti stessi rimangono protagonisti (altro che “un passo indietro”) visto che la lista sembra avere una “cabina di regia” con la presenza dai segretari di partito (Idv, Prc, Pdci e verdi) più De Magistris).
Insomma, tutti questi giochetti hanno fatto rientrare dalla finestra quelle tanto aborrite manovre politiciste che si volevano far uscire dalla porta e ha riproposto logiche verticistiche senza alcun rispetto per le discussioni delle assemblee locali e le speranze suscitate dall’insieme del processo.

Ma questo finale va bene al progetto di «Cambiare si può»?

Le assemblee del progetto “Cambiare si può”, con molti limiti, hanno rappresentato un dato molto positivo per la partecipazione, per la discussione approfondita, per lo spirito unitario che le ha animate e per l’interesse e il consenso che hanno ricevuto contenuti di radicale alternativa alle politiche liberiste, al cappio del debito, alla distruzione del bene pubblico.
A questo punto dobbiamo prendere atto che questo spirito, queste speranze, questa disponibilità a ricostruire forme unitarie di partecipazione politica a sinistra – con caratteristiche nuove e di rottura con le esperienze del passato – non possono essere sprecate in un imbuto elettorale (reso già vecchio e poco affascinante da chi lo anima e dalle modalità di costruzione).
Dobbiamo allora spostare la nostra attenzione, già dalle assemblee che “Cambiare si può” sta tenendo nelle varie province, ad un altro livello, per cominciare a costruire una “Agenda alternativa” al liberismo del centrosinistra e distinta dal “decalogo” di Ingoia; un’agenda dei movimenti e delle lotte sociali, con robuste dosi di anticapitalismo – oggi assente da questo dibattito – che non cerchi scorciatoie elettorali ma provi con «lenta impazienza» a ricostruire radicamento ed egemonia nella società.

Leggi anche “Cambiare si può. No, si poteva” sul sito di Alegre – il megafono delle idee






Cambiare è difficile

di Livio Pepino (pubblicato su il manifesto del 30/12/2012 e su www.soggettopoliticonuovo.it)

Un partito personale, un programma debole. Non basteranno le candidature della società civile

Due mesi fa, in settanta (diversi per storie e provenienza ma uniti negli obiettivi), abbiamo lanciato il documento «Cambiare si può». Volevamo verificare la possibilità di una presenza alternativa alle elezioni politiche del 2013. Alternativa al liberismo, al governo Monti e a chi ne è stato il socio di riferimento (le destre da un lato e il Pd dall’altro) sulla base di una diversa idea di Europa, di sviluppo, di politiche per uscire dalla crisi, di centralità del lavoro (e non del capitale finanziario). E, poi, alternativa al sistema politico che ha caratterizzato gli ultimi decenni (anche a sinistra) portandoci allo sfascio attuale: un sistema soffocato da un rapporto corrotto con il denaro e con il potere economico, dalla trasformazione della rappresentanza in delega incontrollata, dalla incapacità di affrontare i problemi reali della vita delle persone; un sistema da trasformare nel profondo con segni tangibili di radicale discontinuità e con nuovi metodi, nuove pratiche, nuove facce (designate dai territori, all’esito di un dibattito pubblico, senza quote o riserve per ceti politici).
A che punto siamo oggi, due mesi dopo? Vale la pena ripercorrere le tappe del percorso. Abbiamo suscitato un entusiasmo impensato coinvolgendo in centinaia di incontri e assemblee, decine di migliaia di «cani sciolti» e orfani di partiti e sindacati ma anche associazioni, movimenti, gruppi, comitati: se ne facessimo l’elenco raggiungeremmo numeri a tre cifre. Sempre con lo stesso riscontro: se andate (andiamo) avanti forse torneremo ad appassionarci alla politica, forse andremo di nuovo a votare o voteremo finalmente con convinzione anziché per abitudine. E abbiamo avviato una contaminazione con alcune forze politiche: talora con asprezze, ma anche con l’aprirsi di nuove dimensioni dell’agire politico in vista di una collaborazione virtuosa (ancorché difficile). A metà percorso abbiamo incontrato il Movimento arancione (espressione di alcuni sindaci e, in particolare di Luigi De Magistris) che ci ha portato in dote, come possibile leader, Antonio Ingroia. Non era il nostro progetto e anche quella candidatura – al di là della stima personale per Ingroia – non era la nostra: per ragioni di forma (riteniamo che anche il candidato premier debba essere scelto dal basso e non precipitato dall’alto), per il rischio di un appiattimento della lista sulla questione giustizia (che è un tema fondamentale ma solo dentro una prospettiva più ampia di società e di sviluppo), per le posizioni aperturiste di Ingroia nei confronti del Pd e delle sue politiche in una dimensione di (auspicati) colloqui di vertice che non ci appartiene. Nonostante questo abbiamo accettato di avviare un processo unitario, anche per evitare che divisioni e settarismi (reali o presunti) travolgessero le speranze di cambiamento che avevamo suscitato. Lo abbiamo detto, peraltro, espressamente: il nostro candidato presidente non sarà il leader ma uno tra gli altri e il nostro portavoce non sarà un singolo ma un gruppo (in cui dovranno trovar posto un operaio licenziato dalla Fiat, una precaria del Sud, un esponente del Movimento no Tav: non come «fiori all’occhiello» ma come espressione visibile delle nostre priorità); tutti gli altri candidati dovranno uscire da un dibattito pubblico sui territori ed esserne espressione: la campagna elettorale andrà fatta con l’entusiasmo e la partecipazione (come accaduto nei referendum) e non con i soldi residui, portati da qualche partito, di quel finanziamento pubblico che tutti a parole contestano.
Forse eravamo (siamo) degli ingenui. Certo oggi, all’esito di quel percorso e alla vigilia delle elezioni, la lista alternativa che si delinea sotto la leadership di Ingroia va in una direzione diversa. Debole nel programma, subalterna alla logica del partito personale (basta guardare il simbolo…), pronta a proiettare in primo piano le candidature dei segretari di partiti e partitini alla ricerca di un seggio (anche di chi si è distinto, in un recente passato, per il sostegno a quelle grandi opere il cui rifiuto è il cuore di un progetto veramente alternativo), essa ripete la logica della Sinistra Arcobaleno del 2008. Non basteranno a modificare il segno dell’operazione le candidature di alcuni (validi) esponenti della cosiddetta società civile, la cui esposizione finirà, al contrario, per indebolire e demotivare proprio quella società. E non basterà un pugno di eletti – se ci saranno – a dare prospettive di cambiamento al quadro politico. Questa la situazione ad oggi.
Può ancora cambiare? Forse. Se Ingroia avrà il coraggio di rovesciare il tavolo e di privilegiare il rapporto con la società piuttosto che quello con il ceto politico, se metterà al centro i grandi problemi del Paese anziché le polemiche personali, se abbandonerà il leaderismo promuovendo la partecipazione. Ma dubito che lo farà e, dunque, questa lista, pur meno impresentabile di altre, non sarà la mia.
La domanda è, a questo punto, obbligata: abbiamo sbagliato nel buttarci in questa impresa? Non credo perché abbiamo, almeno, aperto una strada. E, dunque, non smobiliteremo, ma ci attrezzeremo meglio per le prossime scadenze. Sì, forse siamo degli ingenui. Ma abbiamo ogni giorno sotto gli occhi che cosa ha prodotto la politica dei cinici.



Risoluzione del Coordinamento nazionale di Sinistra Critica sulle liste del movimento arancione

1. L’assemblea del 22 dicembre al teatro Quirino di “Cambiare si può” ha chiuso una serie di assemblee locali, svoltesi nel fine settimana precedente, in cui sono state espresse le speranze per un progetto nuovo, programmaticamente ancorato a sinistra e fondato su modalità nuove di costruzione delle liste e nettamente distinto dal centrosinistra.
Queste richieste e proposte si sono scontrate con l’operazione di De Magistris e Ingroia (sostenuta in particolare da IDV e PdCI, con l’assenso di Rifondazione e Verdi), finalizzata ad sussumere nel loro progetto quanti si sono mobilitati intorno a «Cambiare si può».
Come in altre occasioni le assemblee di base sono il luogo di una sensibilità a sinistra, ma poi le decisioni di fondo di segno moderato vengono prese in ambiti più ristretti dai gruppi dirigenti.
Così l’assemblea, al di là della richiesta di alcune correzioni programmatiche, non ha avuto la forza di chiarire i nodi fondamentali di una possibile presenza alle elezioni davvero alternativa al centrosinistra, prima e soprattutto dopo le elezioni.
Questa situazione è stata determinata prevalentemente dall’invasione di campo, sul piano del metodo e dei contenuti politici, della candidatura di Ingroia e dal ruolo dei partiti. Questi due fattori accentuano le ambiguità attuali; il ruolo leaderistico di Ingroia e del suo “decalogo” spingono a una sintesi prodotta dalle forze favorevoli ad accordi col centrosinistra (forse meno in campagna elettorale, necessariamente, ma certamente dopo sul piano istituzionale nel caso in cui la lista avesse eletti in parlamento) e peseranno anche nelle scelte delle candidature.
Per tutte queste ragioni le nostre compagne e i nostri compagni non hanno partecipato al voto sui quesiti proposti per il referendum on line.
2. Sinistra Critica si è impegnata nelle assemblee locali e anche nelle due assemblee nazionali nel dibattito sul progetto elettorale alternativo di Cambiare si può, riscontrando significative convergenze ed interlocuzioni politiche sulle sue proposte programmatiche e di metodo. Nelle assemblee dei prossimi giorni le nostre compagne e i nostri compagni interverranno per spiegare che, mentre nel processo partecipativo che l’appello Cambiare si può aveva innescato stavano profilandosi le condizioni per un nostro impegno nelle liste, il nuovo progetto di Ingroia e dei partiti che lo sostengono ha preso il sopravvento, determinando altri equilibri e profili politici da noi non condivisibili: per questo Sinistra Critica non sarà impegnata in questo progetto elettorale.
Porteremo anche nella discussione, come per altro già fatto nelle assemblee, la necessità della convergenza nella costruzione sul piano sociale di una “Agenda alternativa” al liberismo del centrosinistra, distinta dal “decalogo” di Ingroia, e distinta dai progetti elettorali in gestazione, capace cioè di operare prima e dopo le elezioni.
Va infine specificato che un’eventuale nostra indicazione di voto a favore della lista in gestazione sarà verificata sulla base delle liste e del profilo politico definitivo della coalizione arancione.
Il Coordinamento Nazionale di Sinistra Critica invita naturalmente le/i compagne/i dei circoli territoriali a non avanzare a nome di Sinistra Critica alcuna proposta di candidatura di compagne/i dell’organizzazione (e/o a nome della stessa) nelle liste di questo percorso elettorale.
3. Sinistra Critica non presenterà proprie liste alle elezioni, ritenendo che su questo terreno non esistano oggi le condizioni, né politiche né organizzative, per una presentazione autonoma né per una presenza anticapitalista più ampia efficace e nuova. Questa presenza va costruita più che mai sul piano delle lotte e dei movimenti sociali, affinché questi possano dare vita a una forte risposta sociale e politica alla violenza dell’attacco della classe dominante.



martedì 25 dicembre 2012

Dichiarazione video di Franco Turigliatto sull’assemblea di Cambiare si può del 22 dicembre

Dichiarazione di Franco Turigliatto sull’assemblea del 22 dicembre 2012

Assemblea nazionale di Cambiare si può – Roma, 22 dicembre 2012


Dichiarazione di Franco Turigliatto (Sinistra Critica)

L’iniziativa dell’appello “Cambiare si può” ha raccolto la spinta di migliaia di compagne e di compagni che l’hanno giudicata un’occasione e uno strumento prezioso per ricostruire una presenza politica e istituzionale per la sinistra di alternativa dopo i cinque anni di estromissione a causa del fallimento dell’avventura della “Sinistra arcobaleno”.
Anch’io nel mio intervento ho affermato come sarebbe necessaria questa presenza, anche per dare più forza e voce ai movimenti che altrimenti trovano un parlamento totalmente sordo e ostile alle loro rivendicazioni.
Le due assemblee nazionali e le 109 assemblee locali, a cui le compagne e i compagni di Sinistra Critica hanno dato un importante contributo, non solo hanno visto la partecipazione appassionata di migliaia di persone ma hanno anche saputo arricchirne la piattaforma sociale e politica e, nella loro grande maggioranza, sottolineare la necessità di indipendenza e di alterità rispetto al centrosinistra e a qualunque altra forza che si sia compromessa con le politiche neoliberali.
Ma, parallelamente, si è imposta la candidatura a premier di Antonio Ingroia, con una piattaforma di 10 punti di netta impostazione sociale interclassista e politica liberal democratica. Quella di Ingroia è una chiara proposta di annettere “Cambiare si può” all’interno del suo schieramento e di annacquarne le rivendicazioni nella sua piattaforma. Una ipotesi che renderebbe la cosa inaccettabile per noi di Sinistra Critica.
Questa convergenza, inoltre, rende ancor meno credibile la possibilità di una gestione trasparente e democratica nella formazione delle liste e delle teste di lista, e, ancor più, di un controllo dal basso sugli eventuali elette/i.
Molte e molti, nell’assemblea nazionale di oggi, hanno manifestato con forza posizioni analoghe, ma non è ancora chiaro quale sarà il possibile approdo. Le ipotesi in campo sono tante e con identità e proposte molto diverse, in qualche caso antitetiche. La mozione finale non risolve né chiarisce i punti più discussi e lascia aperte e irrisolte tutte le questioni politiche e organizzative.
Non possiamo, perciò, ad oggi, esprimere quale sarà l’orientamento di Sinistra Critica, come organizzazione politica, rispetto alla lista in formazione.
Verificheremo nei prossimi giorni quale saranno il programma definitivi e il profilo politico e organizzativo della lista. Riuniremo perciò il nostro Coordinamento nazionale per formulare un giudizio e un orientamento definitivi.



Assemblea Cambiare si Può del 22 dicembre – intervento di Franco Turigliatto

L'intervento di Franco Turigliatto è al minuto 2:13:21



martedì 18 dicembre 2012

Si può (ancora) cambiare….

Un’occasione da non perdere per costruire un’alternativa al centrosinistra

Comunicato dell’Esecutivo nazionale di Sinistra Critica

Migliaia di donne e uomini in tutt’Italia hanno nei giorni scorsi partecipato alle assemblee locali del progetto “Cambiare si può”, dando vita ad un’esperienza importante di discussione, di relazione e di proposta politica.
Queste assemblee hanno rappresentato un dato molto positivo per la partecipazione, per la discussione approfondita, per lo spirito unitario che le ha animate e per l’interesse e il consenso che hanno ricevuto (e sono stati recepiti) contenuti di radicale alternativa alle politiche liberiste, al cappio del debito, alla distruzione del bene pubblico. Contenuti di radicalità che si sono sempre accompagnati all’affermazione di una collocazione a sinistra e alternativa al centrosinistra. Un percorso che parte dal basso e vuole fare a meno di leader, di schemi predefiniti, di una politica ormai vecchia e assolutamente distante dai bisogni, dalle speranze e dalle passioni di lavoratrici e lavoratori (precari e non), disoccupate/i, pensionate/i, giovani.
Questo percorso rappresenta una grande occasione che rischia di non essere sfruttata, anzi, di essere sacrificata sull’altare delle alleanze politiche verticistiche. Il gioco su più tavoli di forze politiche già del centrosinistra (Prc, Idv, Verdi) in cerca di uno spazio certo per tornare in parlamento; l’autoproclamazione di un magistrato come Ingroia che fa un suo “decalogo” politicamente non certo di sinistra e con punti per noi inaccettabili (a partire dall’assurda idea che oggi gli imprenditori abbiano ancora “lacci e laccioli” burocratici o di tasse, oppure sulla scuola dove non si può avallare l’ideologia del “merito” con cui sono stati troppo spesso giustificati enormi tagli di risorse all’istruzione pubblica statale) e farà una sua assemblea preventiva il 21 dicembre; contemporaneamente De Magistris convoca una sua assemblea e ora parteciperà a quella di Ingoia insieme a Leoluca Orlando – assemblea che ovviamente definirà i confini dell’alleanza e si prefigge di tenere aperti i canali di comunicazione con il centrosinistra: tutto questo rappresenta il rientro dalla finestra delle manovre politiciste che si volevano far uscire dalla porta e il riproporsi di logiche elitarie e di non rispetto delle discussioni delle assemblee locali.
Allo stesso tempo ci pare contraddittorio che forze (come il Prc) che partecipano a questo progetto che dovrebbe essere alternativo al centrosinistra si alleino in Lombardia, Lazio, Friuli, con lo stesso centrosinistra a guida PD – a volte sostenendo candidati che con il progressismo e la sinistra proprio nulla hanno a che fare (come Umberto Ambrosoli).

Così non si cambia, davvero!

Abbiamo partecipato alle assemblee portando le nostre idee, le nostre proposte, i nostri legami sociali, il nostro modo di concepire la politica, dal basso e a sinistra.
Parteciperemo all’assemblea nazionale del 22 dicembre ancora con questo spirito costruttivo e l’interesse per un’occasione da non perdere per costruire un’alternativa al centrosinistra, con il quale non si possono e non si devono fare accordi politici, elettorali e di governo. Un’alternativa con chiari e forti punti programmatici, che partono dai “10 punti” di “Cambiare si può” e vadano oltre – come abbiamo espresso nei nostri interventi di queste settimane (allegati).
Se il cammino finora percorso continuerà sullo stesso indirizzo, con le stesse modalità, con la stessa radicalità e spirito alternativo, sosterremo fino in fondo questa esperienza elettorale.
Ma non potremo farlo con i Di Pietro, i Diliberto, gli Orlando – che sono parte del problema della sinistra, non la soluzione. E questo non per volontà di esclusione aprioristica, ma per le loro politiche di questi anni, per la loro mancata opposizione (o addirittura accettazione) a provvedimenti pesanti per lavoratrici e lavoratori, per la loro concezione di una “politica politicante”.

Cambiare si può, ancora. Proviamoci.



Se Iren è diventata un bancomat

Quotata in Borsa, la multi-utility è stata utilizzata dai Comuni di Torino e Genova per estrarre liquidità, sfruttando la Finanziaria Sviluppo Utilities (FSU) srl, attraverso la quale i due enti detengono la propria partecipazione. Lo spiega un dossier (in allegato) del Comitato acqua pubblica Torino, anticipato da Altreconomia di dicembre, presentato alla stampa a Torino venerdì 7 dicembre.

 Finanziaria Sviluppo Utilities (FSU) è una holding controllata dai Comuni di Genova e Torino. Detiene le partecipazioni dei due enti locali nella società quotata Iren. È un veicolo finanziario, semplicemente. Ma da un'analisi incrociata dei bilanci della Finanziaria e della società quotata Iren (e prima ancora di Iride), il Comitato acqua pubblica di Torino ha evidenziato che la società operativa Iride/Iren è stata utilizzata come un bancomat dal quale estrarre liquidità, anche a costo di intaccare le riserve patrimoniali, gettando le basi per la crisi finanziaria nella quale attualmente versa.
I Consigli Comunali di Torino e Genova, che rappresentano gli effettivi proprietari della partecipazione, sono di fatto rimasti all’oscuro: una sostanziale perdita di controllo democratico sulla gestione di attività fondamentali a servizio del territorio. Una dinamica che, a Torino, è resa ancor più pericolosa dalla situazione finanziaria del Comune di Torino, su cui grava -come ricostruiamo sul numero di dicembre di Altreconomia, nell'articolo "Torino non ha buone carte"- la spada di Damocle del dissesto, che potrebbe essere deciso dalla Corte dei Conti qualora la società non riesca a completare, entro fine 2012, l'alienazione delle proprie partecipazioni in 4 società "strategiche" (Gtt, Amiat, Trm, Sagat), che gestiscono però servizi pubblici locali (dal trasporto pubblico locale all'igiene urbana). Operazioni su cui pende un ricorso al Tar, presentato da alcuni cittadini torinesi, che fanno parte del Comitato acqua pubblica.

La storia della Finanziaria Sviluppo Utilities srl (FSU)

FSU è la società individuata dai Comuni di Genova e Torino quale veicolo finanziario per gestire la partecipazione da essi detenuta in Iride prima e Iren poi, la società multiservizi del Nord Ovest.
La sua vicenda è emblematica per capire qual è la reale portata delle operazioni di trasformazione delle vecchie aziende municipalizzate di gestione dei servizi pubblici in società per azioni quotate in borsa, non più regolate dal diritto pubblico.
Emblematica ed importante per evidenziare che la ricetta neoliberista per risanare i bilanci pubblici attraverso la vendita (svendita) del patrimonio pubblico produce per i cittadini piatti avvelenati.
A Torino la vicenda prende avvio nel 1997 con la trasformazione dell’Azienda Energetica Municipale, AEM, da azienda municipalizzata in società per azioni. Ciò anche sulla base degli incentivi legislativi che lasciavano presupporre dall’operazione vantaggi fiscali, rivelatisi poi infondati.
Nel 2000 AEM Spa viene quotata in Borsa. Pur mantenendo il Comune una netta maggioranza del capitale (69% ca.), il fatto che ad esso si affianchi un azionariato diffuso, tra cui banche, fondi di investimento e fondi pensione, fa si che il Comune, snaturando gradualmente il suo ruolo di gestore di un servizio pubblico, divenga “azionista”, cioè portatore di interessi in contrapposizione con quello pubblico.
Con la nascita di Iride Spa, multiservizi del Nord Ovest risultante dalla fusione di AEM con AMGA, società genovese con identica storia, si rafforzano le caratteristiche di azionista del Comune. Iride infatti intende “competere” a tutto tondo sul mercato energetico nazionale.
Quindi, si determina l’abbandono di quel legame con il territorio di appartenenza che era caratteristica fondamentale delle due società originarie.
FSU nasce proprio in questo contesto e con l’unico scopo di gestire la partecipazione Iride incassandone i dividendi e distribuendoli ai due Comuni azionisti.
Vale la pena sottolineare che sin dalla sua costituzione, il contenitore FSU già si indebitava, con il Gruppo Intesa Sanpaolo, per circa €230 milioni per acquistare, dal Comune di Torino, parte delle azioni di AEM.

Come ha utilizzato queste somme l’amministrazione comunale torinese?

Con FSU si crea, di fatto, un cuscinetto tra la società operativa e i Comuni.
Essendo FSU l’azionista di riferimento di Iride contribuisce a cancellare la responsabilità politica di gestione del patrimonio pubblico, trasformandola in responsabilità “tecnica” degli amministratori di Iride e, appunto, di FSU.
Con l’accordo del 2010 tra Iride e Enia, analoga società i cui principali azionisti sono i comuni di Reggio Emilia, Parma, Piacenza, l’operazione multiservizi del Nord Ovest viene rafforzata. Nasce infatti Iren, uno dei principali operatori italiani nei settori dell’energia elettrica, del gas, del teleriscaldamento, dei servizi idrici, energetici e ambientali.
Le accresciute dimensioni rendono ancora più evidenti le criticità sopra esposte, in termini di svuotamento del ruolo dei Comuni nella gestione di quello che ormai ha sempre meno le caratteristiche del servizio e sempre più quelle di attività dalla quale estrarre un valore finanziario.
A questo riguardo è illuminante la gestione che gli amministratori di FSU hanno fatto della partecipazione Iride/Iren. Nonostante la progressiva perdita di valore di quest’ultima rispetto al costo sostenuto, fino al 2010 gli amministratori di FSU mantengono il valore di carico, 831 milioni, basandosi sulla quotazione di Borsa del titolo.
Nel bilancio 2011, a seguito di una perizia richiesta a Deloitte che stima il valore dell’azione Iren compreso tra €1,28 e €1,36, viene effettuata la svalutazione assumendo il valore di €1,35, per un totale di € 257 milioni, determinando quindi una perdita di esercizio di 259 milioni. Ma, la quotazione del titolo Iren ha continuato a scendere: a dicembre 2011 non raggiungeva gli €0,8 e a giugno 2012, data di approvazione del bilancio 2011, era prossima agli €0,5, quotazione che sostanzialmente mantiene a fine ottobre.
Nonostante la ben nota e prolungata fase di crisi dei mercati finanziari, in questi anni gli amministratori FSU non hanno ritenuto di procedere alla creazione di accantonamenti a fronte del concreto rischio di svalutazione della partecipazione.
Gli utili di FSU derivano dai dividendi assegnati da Iren.
È fondamentale evidenziare che questi dividendi sono stati erogati assorbendo totalmente gli utili prodotti da Iren stessa, anzi, intaccando spesso le riserve.
La politica di bilancio di FSU ha consentito di garantire un costante flusso di dividendi ai comuni azionisti, che non si sarebbero potuti erogare se fossero stati disposti prudenziali e progressivi accantonamenti in conto economico.
Questa strategia ha dei risvolti particolarmente gravi:
- gli amministratori di FSU, pur operando negli ambiti previsti dalla legge, hanno dato prova di una pessima gestione societaria, mantenendo inalterato il valore della partecipazione in Iride/Iren nonostante la progressiva perdita di valore e senza provvedere agli opportuni accantonamenti;
- la società operativa Iride/Iren è stata utilizzata come un bancomat dal quale estrarre liquidità, anche a costo di intaccare le riserve patrimoniali, gettando le basi per la crisi finanziaria nella quale attualmente versa;
- i Consigli Comunali, che rappresentano gli effettivi proprietari della partecipazione, sono di fatto rimasti all’oscuro di quanto stava avvenendo, determinando quindi la sostanziale perdita di controllo democratico sulla gestione di attività fondamentali al servizio del territorio.
Ancora, FSU pur non svolgendo alcuna attività di produzione di beni o servizi, è un “contenitore” che ha dei costi non indifferenti, rappresentati prevalentemente da compensi agli amministratori, al collegio sindacale, alla società di revisione mentre la fornitura di servizi aziendali (contabilità, amministrazione etc.) è resa, guarda caso, da Iren.. Complessivamente, i costi ammontano a ben €4.6 milioni. A questi vanno aggiunti gli oneri relativi al finanziamento contratto con Intesa S. Paolo, che nello stesso periodo sono stati pari a circa €35 milioni ai quali vanno aggiunti altri 9 milioni su contratto derivato a copertura rischio di tasso stipulato con Goldman Sachs.
In sostanza, sono stati generati costi improduttivi salvo che per le banche con le quali FSU si è indebitata e salvo che per i componenti dei suoi organi societari, che percepiscono significativi compensi. Va notato, inoltre, che i nominativi di questi ultimi, in alcuni casi ricorrono nei consigli di amministrazione di altre società o fondazioni bancarie.

Attac Torino e Genova - CARP Coord. Ambientalista Rifiuti Piemonte - Comitato Acqua Pubblica Torino e Genova – Comitato Gestione Corretta Rifiuti Genova - Comitato NO Debito Torino– Pro Natura Torino – Re.Common – Rifiuti Zero Torino



lunedì 17 dicembre 2012

I LETTORI DEL POPOLO UNA BANDA DI CITTADINE E CITTADINI

Martedì 18 dicembre 2012, nei seguenti luoghi di Torino:
h 17.00 – Libreria LINEA451 – Via Santa Giulia 40
h 18.15 – Libreria Golem – Via Rossini 21 bis
h 19.30 – Su strada – Via Montebello 20 (di fronte alla Mole Antonelliana)

Partecipazione libera

I LETTORI DEL POPOLO
UNA BANDA DI CITTADINE E CITTADINI

”I lettori del popolo”, una banda di cittadine e cittadini in giro a piedi per la città di
Torino, a leggerne pubblicamente un pezzo di storia: tra il 18 e il 20 dicembre 1922 i
fascisti uccisero quanti più oppositori poterono, andandoli a cercare casa per casa.
La lettura attinge soprattutto alla testimonianza di Teresa Noce, che nel libro
Rivoluzionaria professionale racconta con grande efficacia ciò che accadde in quei
giorni.
Si intende non tanto commemorare una strage, quanto piuttosto contribuire a costruire una memoria
attiva. Rendere noto come le cittadine e i cittadini furono allora capaci di reagire all'ingiustizia e alla
violenza facendo rete, aiutandosi l'un l'altro, collaborando: fino al punto di scambiarsi le case per non
essere identificati e riconosciuti all'arrivo delle squadracce fasciste. Mostrare la possibilità di un'azione
individuale consapevole volta al bene proprio e comune, radice di una politica sana e sincera.
In questo senso, almeno potenzialmente, è questa solo la prima azione di tante: la banda “I lettori del
popolo”, a sua volta una rete di cittadine e cittadini, potrebbe in futuro scandagliare altri momenti della
storia che, analogamente, meritino di essere "letti" pubblicamente; momenti nei quali una reazione ad
un abuso di potere fu resa possibile grazie alla maturità e alla forza di legami civili autonomi che,
seppur sotterranei, furono preziosi per la collettività.

Annamaria Balsamo (lettrice)
Carla Bergero (lettrice)
Serena Bongiovanni (lettrice)
Marco Brunazzi
(consulente storico, lettore)
Giulia Cardellino (lettrice)
Lavinia Caruso (lettrice)
Massimiliano Leite
(lettore)
Emiliana Losma (lettrice)
Fabio Montesanti (lettore)
Isabella Privitera (lettrice)
Virginia Rossi (lettrice)
Carmen Seia (lettrice)
Giancarlo Tommasi (lettore)
Franca Treccarichi (ideatrice del progetto, lettrice)
Beppe Turletti (musicista)
Luigi Valentini (lettore)
Thuline Andreoni, Marco Gobetti (coordinamento artistico)

“I LETTORI DEL POPOLO” è una banda autonoma di cittadine e cittadini: si sostiene grazie alle
libere offerte - in denaro o in beni di consumo (libri o cibo, buoni acquisto ecc.) – che direttamente il
pubblico intervenuto e i luoghi ospitanti vorranno offrire ai suoi componenti.
Per quanto riguarda la comunicazione e l’organizzazione, la banda “I LETTORI DEL POPOLO” si
avvale in questo caso della collaborazione di: ISMEL (Istituto per la Memoria e la Cultura del Lavoro,
dell'Impresa e dei Diritti Sociali), Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, Fondazione culturale Vera
Nocentini, Ass. Cult. Compagnia Marco Gobetti.

Cosa si sono detti gli "arancioni"


Salvatore Cannavò

Cronaca delle assemblee tenute nel fine settimane. Buona partecipazione, pochi giovani, molta ambiguità sul rapporto con l'Idv e, quindi, con il Pd di Bersani. Se ne riparla il 22. De Magistris permettendo.
Sono state decine le assemblee di Cambiare si può svoltesi nel fine settimana. E dai resoconti della maggior parte dei casi se ne deduce un primo quadro: piuttosto mosso, con alcune contraddizioni.
La partecipazione è sembrata piuttosto alta. Cinquecento a Milano, circa 300 a Roma, oltre 400 a Torino e a Napoli, assemblee tra le 60-80 persone nelle città di provincia. Un dato non indifferente vista la situazione di stasi. Nella maggior parte dei casi si tratta di un pubblico piuttosto adulto, pochi o pochissimi i giovani, difficile la presenza delle donne tranne quando il loro protagonismo ha fatto la differenza. Differenziate le presenze dei movimenti anche se c'è stata una presenza NoTav a Torino, di centri sociali a Roma o di movimento anti-debito a Milano.
Le assemblee, che per forza di cosa hanno riunito soprattutto un pubblico "militante" - lampante l'assenza di De Magistris a Napoli - hanno visto soprattutto una gestione da parte di Rifondazione comunista e di Alba - promotrice dell'appello "Cambiare si può" - con una presenza diffusa di Sinistra Critica e, in alcune situazioni, di espressioni ecologiste o di diversi movimenti.
Unanime, in ogni assemblea, la richiesta di un passo indietro alle forze politiche organizzate, rivolta soprattutto al Prc che ha partecipato in massa e che è intervenuto anche direttamente con il suo segretario nazionale, Ferrero a Torino, il quale ha perorato l'alleanza anche con l'Idv di Di Pietro. Che invece, in genere, è stato percepito come un alleato scomodo, distante dalla piattaforma, e dalla cultura politica, che ha animato le assemblee locali. Significativa la "trombatura" di una eventuale premiership di Antonio Ingroia avvenuta a Roma dove l'assemblea tenuta all'ex Cinema Palazzo ha modificato un solo punto dei dieci indicati dall'appello originario, quello sulla legalità chiedendo una visione più garantista e compatibile con le "azioni" compiute dai movimenti (si pensi alle reti della Tav o alla violazione dei divieti a manifestare). In ogni caso, a Roma è stato detto da più interventi che "un magistrato non può guidare una lista come questa".
Presente, ma non ufficialmente, anche la Fiom. Un suo autorevole delegato, Antonio De Luca, tra i 19 operai ammessi dal Tribunale alla nuova fabbrica di Pomigliano, ha introdotto l'assemblea di Napoli e un altro, molto prestigioso alla Fincantieri di Ancona, ha partecipato a quella delle Marche. A Milano, invece, c'è stata una certa ricezione delle istanze contro il debito e del movimento che richiede l'audit ma si è registrata l'assenza del movimento No-Expo. Poco presente la Fiom, invece, nell'assemblea di Torino.
Se l'orientamento generale è quello del "quarto polo" e quindi di una lista a sinistra dell'attuale centrosinistra, il dibattito che si è tenuto non ha sciolto del tutto alcune ambiguità. Ad esempio, rispetto a cosa succederebbe nel caso in cui i voti di eventuali eletti della lista arancione fossero necessari alla formazione di un possibile governo Bersani. Di fronte alle richieste di chiarimento su questo punto, i dirigenti di Rifondazione, ma anche quelli di Alba in alcuni casi, hanno preferito soprassedere. Un modo per consentire all'alleanza che si sta formando di essere la più ampia possibile anche se il nodo Di Pietro potrebbe essere alla fine quello decisivo. Un pezzo più militante, impegnato nei movimenti e con istanze più radicali, difficilmente potrebbe accettare di far parte di una lista che dovrebbe confrontarsi con due leaderismi, quello di "Tonino" e quello di De Magistris. Tra l'altro, entrambi ex magistrati.
Il rischio, percepito da alcuni, è che alla fine i giochi si facciano fuori dalle assemblee. Quella nazionale di Cambiare si può è convocata per sabato 22 dicembre ma il 21 Luigi De Magistris ha convocato la sua. E allora, in quella sede, potrebbe essere presa la decisione finale - un'alleanza tra Prc, Idv e De Magistris - costringendo "Cambiare si può" ad allinearsi o a farsi da parte.



Doha, 26 novembre-8 dicembre

Nessun Paese si impegna più rispetto al taglio di emissioni di CO2, nè è disposto a sottostare a regole che siano eque, ambizione e legalmente vincolanti.
Si registra il ‘deficit di ambizione’ tra la percentuale attuale di riduzione di gas serra pari a 11-16% rispetto a quella necessaria entro il 2020 pari al 25-40% sui livelli di emissione del 1990. Il 15% delle emissioni è costituito da UE, Svizzera, Australia e Norvegia; l’85% viene principalmente dagli USA (17 ton pro capite anno di CO2) e Cina (7 ton pro capite anno, come l’UE). Per un aumento della temperatura media globale sotto i 2°C la concentrazione di CO2 nell’atmosfera ddeve essere sotto le 450 parti per milione.
La 18^ COP (conferenza dei paesi che nel 1992 hanno firmato la Convenzione dell’ONU sul cambiamento del clima) sottolinea cioè un passaggio ormai acquisito dentro il percorso dell'UNFCCC, e cioè la trasformazione di tutto il sistema da una cornice legale vincolante ad una più legata ad impegni presi unilateralmente e poi verificati, volta per volta, con la comunità internazionale. Si chiama ‘pledge and review’: impegni volontari da verificare collettivamente.
All’ordine del giorno non la giustizia climatica ma la linea della mitigazione e dell’adattamento … alle conseguenze sul clima della inarrestabile distruzione del pianeta.
Una specie apparsa solo qualche migliaio di anni fa quarda alla Terra come se fosse dissociata dal suo destino.
Compito di questa Conferenza era di concludere il Piano d’Azione delineato a Bali 2007 e consegnare i risultati al gruppo di lavoro designato l’anno scorso a Durban COP 17 che dovrà trattare un accordo vincolante per tutti entro il 2015 che entri in vigore nel 2020.
Il Presidente qatariota della COP, già dirigente di Qatar Petroleum, è riuscito a non far fallire il negoziato, che viene però svuotato di significato. Dal 1 gennaio 2013 inizierà il Kyoto 2, con il Doha climate gateway. Si riconosce il risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici ed i paesi industrializzati si impegnano a stanziare per il Fondo verde almeno una somma pari alla media degli aiuti climatici di questi 3 anni.
Il secondo periodo di impegni sarà, per ora, in continuità legale con il primo ma ancora da riempire di impegni e numeri vincolanti.
La data cardine per proporre impegni si sposta al 30 aprile del 2014, esattamente 7 mesi prima del capodanno 2015, anno in cui l'IPCC aveva chiesto il picco delle emissioni di CO2, per poi decrescere.
Metafora e paradigma dell’indirizzo preso nelle politiche per il clima è il Paese che ha ospitato questa COP: il Qatar. L'ex diplomatico argentino Raul Estrada, uno dei padri del protocollo di Kyoto era infatti contrario: ‘il Qatar ha sistemativamente evitato di prendere impegni volti a diminuire l'uso di combustibili fossili».
Il Qatar è il 19esimo più grande produttore di petrolio grezzo e il quarto esportatore mondiale di gas naturale. Statistiche economiche alla mano è il più ricco paese del pianeta, con i suoi 250mila cittadini che si godono un reddito pro-capite sui 400mila dollari l'anno generato da un milione e mezzo di lavoratori stranieri. Un paese con queste caratteristiche, impegnato ad accumulare ricchezze enormi, grazie al petrolio e al gas, da investire in strategie diplomatiche talvolta oscure, ha sempre prestato poca attenzione alle sue emissioni di anidride carbonica.
Se è vero come è vero che il mondo non può aspettare, allora lo sdegno o la delusione rispetto alle decisioni dei governi deve incontrare una opinione pubblica e delle pratiche alternative che escano dalla nicchia della testimonianza per contrastare le strutture di morte che stritolano la vita sulla Terra.

Antonella Visintin

DOHA – Il vertice sul clima

di Daniel Tanuro*.


Il 26 novembre 2012 si è aperto a Doha (Qatar) il vertice annuale dell’ONU sui cambiamenti climatici. Dal punto di vista formale, il vertice comprende due incontri distinti: la 18° seduta della Conferenza delle parti che hanno sottoscritto la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (CCNUCC) conclusasi a Rio nel 1992, da un lato e l’8a seduta delle parti aderenti al Protocollo di Kyoto, dall’altro lato. I principali scopi dell’incontro sono: 1) l’assunzione da parte dei paesi sviluppati di una seconda fase di impegno ai sensi del Protocollo di Kyoto (la prima fase si chiude alla fine di quest’anno); 2)il negoziato di un accordo globale che impegni tutti gli Stati nella lotta contro il surriscaldamento, a partire dal 2020.
I due risvolti sono intimamente connessi in quanto i cosiddetti paesi “in via di sviluppo” esigono da quelli cosiddetti “sviluppati” che diano l’esempio – essendo loro i principali responsabili storici dei mutamenti climatici, mentre i secondi esigono dai principali paesi emergenti che si assumano le proprie responsabilità – in quanto oggi figurano tra i principali responsabili delle emissioni di gas a effetto serra.

Da Bali a Doha

Il vertice di Doha rientra nel solco delle precedenti riunioni, in particolare quelle di Bali, Copenhagen, Cancún e Durban. Per capire le poste in gioco, occorre dunque risalire un po’ indietro.
• Il vertice di Bali (2008) ha adottato una “road map” che stipula: “sono indispensabili tagli a fondo nelle emissioni globali” per stabilizzare il clima, sottolineando inoltre “l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico come indicato nel IV Rapporto di valutazione del GIEC [Gruppo di Esperti Intergovernativi sull’Evoluzione del Clima]”. Al termine di accanite discussioni contro i rappresentanti dell’amministrazione USA, è stata aggiunta una nota a pie’ di pagina al Rapporto 2007 del GIEC, che rimanda alla pagina 776 del contributo del III Gruppo di lavoro, come anche alle pagine 39 e 90 della Sintesi tecnica del suddetto contributo.
Si tratta di un dettaglio importante, poiché questi documenti forniscono diversi scenari di stabilizzazione climatica, tenendo conto delle “responsabilità comuni ma differenti” dei paesi ricchi e di quelli poveri. Secondo questi scenari, per non superare di 2°C l’aumento della temperatura rispetto al XVIII secolo: 1) la emissioni dei paesi sviluppati devono diminuire del 25-40% di qui al 2020, e dell’80-95% di qui al 2050, rispetto al livello del 1990; 2) le emissioni mondiali devono diminuire del 50-85% di qui al 2050; 3) la riduzione deve cominciare al più tardi nel 2015; 4) i paesi in via di sviluppo possono continuare ad aumentare le proprie emissioni nette per un certo periodo, ma quelle relative devono scendere del 15-30% rispetto alle proiezioni.
• A Copenhagen (2009) la road map di Bali sarebbe dovuta approdare a un’intesa globale, che fissasse per i paesi ricchi obblighi di riduzione assoluta delle loro emissioni e per gli altri paesi obblighi di riduzione relativa, in funzione dell’obiettivo di una limitazione del riscaldamento, e attraverso il trasferimento di tecnologie pulite dal Nord verso il Sud (per garantire il diritto allo sviluppo di quest’ultimo). Ma nel frattempo era intervenuta la crisi dei subprimes. Nel contesto di recessione e di esacerbata concorrenza capitalistica, i grandi inquinatori, Stati Uniti in testa, non volevano assolutamente saperne di un accordo che avrebbe minacciato la competitività delle loro imprese. Per questo, Barak Obama organizzò una trattativa ufficiosa con Cina, India, Brasile, Sud Africa e Unione Europea, che partorì un accordo che invitava ogni Stato a elaborare a suo modo il proprio piano climatico e a comunicarlo alla Segreteria della CCNUCC.
In questo modo, paesi sviluppati e grandi Stati “emergenti” sfuggirono alla minaccia di un trattato multilaterale con obbligo di rispettare obiettivi di riduzione drastica, stabiliti in base alla perizia scientifica del GIEC. La Conferenza “prese nota” di questo accordo in un clima burrascoso, contrassegnato dall’opposizione coraggiosa di alcuni Stati del Sud (Bolivia, Venezuela, Cuba, in particolare), che denunciarono il diktat delle grandi potenze. Il rappresentante di Tuvalu, da parte sua, attaccò gli Stati “in via di sviluppo” che accettavano i “denari di Giuda” come prezzo della loro sottomissione.
• Il vertice di Cancún, l’anno successivo, fu dominato dal tema dell’adattamento al riscaldamento. Anziché prendere energiche misure per ridurre le emissioni, i paesi ricchi promisero di mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per i paesi poveri nel 2010-2012, per aiutarli ad adeguarsi al riscaldamento, e che la busta avrebbe raggiunto i 100 miliardi annui a partire dal 2020. Si decise di affidare la gestione di queste somme a un Fondo verde per il clima, in cui svolge un ruolo preminente la Banca Mondiale. La Conferenza ha affermato peraltro la necessità di limitare l’aumento di temperatura a 2°C in media, di tenere regolarmente sotto esame questo obiettivo ed anche di pensare a un consolidamento a 1,5°C come massimo, in funzione degli sviluppi delle conoscenze scientifiche sull’impatto del riscaldamento. Fin là, la sola Europa si era pronunciata per l’obiettivo dell’aumento massimo di 2°C.
Secondo logica, la decisione al vertice avrebbe dovuto portare i congressisti di Cancún a riprendere la road map di Bali e la sua famosa nota a pie’ di pagina, per adottare in fretta un piano d’urgenza che includesse le riduzioni di emissioni giudicate indispensabili dagli specialisti. Essi invece, si accontentarono di “prender nota” degli obiettivi di riduzione delle emissioni che 80 paesi avevano spontaneamente comunicato alla Segreteria della CCNUCC, secondo il modo di procedere di Copenhagen. I climatologi fecero notare che, in base a quei piani climatici nazionali, la temperatura di superficie della Terra aumenterebbe probabilmente del 3-5°c di qui a fine secolo – pressappoco due volte di più, ma non si fece nulla. Il 2°C massimo era passato in cavalleria.
• A Durban, l’anno scorso, si strapparono faticosamente due accordi, relativi rispettivamente ai paesi ricchi e a quelli poveri. Il primo stipula che vi sarà, certo, una seconda fase di impegno nel quadro del Protocollo di Kyoto (ricordiamo che la prima – 2008-2012 – ingiungeva ai paesi ricchi di ridurre le proprie emissioni del 5,2% in media, rispetto al 1990). Il secondo riconosce la necessità di elaborare “un protocollo, un altro strumento giuridico, o una conclusione concordata avente forza di legge a titolo della Convenzione (CCNUCC) applicabile a tutte le parti”. È stato avviato un processo di contrattazione di questo accordo climatico globale. Dovrebbe completarsi nel 2015, con un testo da sottoporre poi ai parlamenti nazionali di tutti gli Stati. Sempre che veda la luce, l’accordo entrerebbe in vigore come minimo nel 2020.

Slittamenti progressivi

Nel corso di questi incontri (intervallati da altre riunioni annuali, soprattutto a Bonn), si registrano vari scivolamenti.
1) Il principio delle “responsabilità comuni ma differenti” dei paesi del Nord e del Sud è stato sottoposto a pressione costante; con il pretesto che i principali paesi emergenti emettono attualmente una quota assai rilevante di gas a effetto serra immessi nell’atmosfera, si è sistematicamente relativizzata, se non cancellata, la responsabilità storica fondamentale dei paesi imperialisti (responsabili per oltre il 70% del riscaldamento).
La risposta dei governi e delle istituzioni internazionali ha assunto sempre più un taglio neoliberista, al punto di basarsi ormai quasi esclusivamente su meccanismi di mercato (incentivi alle energie rinnovabili, mercato dei diritti di emissione e acquisti di crediti d’emissione). È vero che questi meccanismi erano previsti dal Protocollo di Kyoto ma, nonostante la sua notoria insufficienza questo comunque manteneva un carattere ibrido, poiché assegnava agli Stati quote obbligatorie di riduzione delle emissioni (con sanzioni in caso di mancato rispetto). Da un lato, oggi non resta più granché di questo approccio “regolatore” – i principali inquinatori (paesi imperialisti e “sub imperialismi” emergenti, in particolare Cina e Brasile) lo hanno espunto a Copenhagen; dall’altro lato, si è considerevolmente allargata la gamma delle possibilità di sostituire le riduzioni delle emissioni con misure compensative. È così che non solo la piantagione di alberi ma anche la protezione dei boschi esistenti, la valorizzazione energetica del metano delle carbonaie, o la distruzione di alcuni gas industriali ad elevato effetto serra si considerano ormai come equivalenti a riduzioni nette di emissioni. In realtà, l’equivalenza non esiste se non nella testa di chi l’ha immaginata e la cui principale preoccupazione è quella di consentire all’industria di sostituire misure costose per ridurre le emissioni con l’acquisto di crediti di carbonio al prezzo più basso possibile, cosa che in realtà ha come effetto quello di ritardare l’indispensabile transizione energetica. [I crediti di carbonio o riduzioni certificate delle emissioni (RCE) sono attestati rilasciati a un agente, che abbia ridotto le sue emissioni di gas serra. Per convenzione, una tonnellata di anidride carbonica (CO2) corrisponde ad un credito di carbonio NdR].

Gli sceicchi del petrolio in testa alla manovra

Va da sé che la conferenza di Doha non comporterà alcun cambiamento di rotta a questa politica disastrosa. Il luogo stesso dove si svolge è emblematico. Insediato su riserve di idrocarburi e petrodollari, il Qatar ha il triste privilegio di essere il paese del mondo che emette più gas a effetto serra per abitante. Il regime è uno dei più retrogradi dell’area: alle ultime elezioni municipali, nel 2011, una sola donna è riuscita a conquistare un seggio nel consiglio comunale. Vi si calpestano i diritti umani e il paese, pur avendo abolito la schiavitù nel 1952, applica una legge scellerata, cosiddetta di “padrinato”, secondo cui i lavoratori stranieri posso entrare, soggiornare e lavorare nell’emirato, ma non possono andarsene senza l’autorizzazione del loro “padrino”.
Considerato come il cinquantunesimo Stato degli USA, il Qatar sostiene tutte le dittature della regione: è per suo tramite che Washington e Tel Aviv cercano di sabotare le rivoluzioni arabe; sostiene incondizionatamente i nuovi regimi oscurantisti islamisti (ha appena consegnato importante materiale per la repressione al ministero dell’Interno tunisino) ed è sospettato di aver trafficato nel finanziamento di progetti di colonizzazione israeliana a Gerusalemme Est. Aggiungiamo che gli emiri non sono più rispettosi della natura di quel che non lo siano con gli esseri umani: bracconieri senza scrupoli e di padre in figlio, si recano regolarmente in Nord Africa per cacciare l’otarda e la gazzella di Thomson, due specie protette che massacrano impunemente, malgrado le grida indignate delle associazioni tunisine e algerine di difesa dell’ambiente.
Ecco i personaggi che presiedono i dibattiti della XVIII Conferenza dell’ONU sul clima… Credere che questa possa tracciare il cammino che consenta all’umanità di evitare la catastrofe è più che mai un’illusione.

La catastrofe è in marcia

Vent’anni dopo l’adozione della CCNUCC, l’incuria capitalistica snocciola gli effetti sotto i nostri occhi: il riscaldamento del pianeta continua ad accelerarsi, al punto che si rischia davvero di raggiungere il punto di non ritorno. Dall’inizio del XXI secolo, le emissioni di gas a effetto serra aumentano del 3-4% l’anno, contro circa il 2% negli anni Novanta. L’aumento si spiega soprattutto con l’esplosione dei trasporti e l’accresciuta utilizzazione del carbone nell’officina cinese del mondo, ma anche in India, negli Stati Uniti e in Australia. È dunque direttamente legato alla mondializzazione neoliberista.
Di colpo, i fenomeni metereologici estremi (piogge violente, siccità anomale, canicole o gravi ondate di freddo, tempeste, cicloni…) si moltiplicano e guadagnano intensità. Lo scioglimento estivo dei ghiacci dell’Artico ha raggiunto un record assoluto nel 2012, al punto che la banchisa polare potrebbe sparire completamente in un futuro ravvicinato. Soprattutto, si osserva la preoccupante accelerazione della dislocazione della calotta glaciale della Groenlandia e dell’Antartico occidentale – fenomeno che fa correre all’umanità il rischio di fondo di un innalzamento del livello dei mari di due metri o più di qui a fine secolo.
Queste terribili minacce, di cui i poveri saranno le vittime principali, sono state ricordate di recente in un rapporto della Banca Mondiale. Intitolato “Abbassiamo il calore: occorre infatti evitare assolutamente l’innalzamento di 4°C della temperatura del pianeta” e redatto insieme da Climate Analytic e dal Potsdam Institute for Climate Impact Research, questo documento non dice niente di fondamentalmente nuovo sugli impatti dei cambiamenti climatici. Di fatto, la sua vistosa diffusione subito prima della Conferenza di Doha sembra avere soprattutto lo scopo di preparare gli animi al superamento dei 2° C. Potrebbe anche servire a legittimare, in nome dell’urgenza, le sedicenti “soluzioni” fornite dalla Banca nel quadro della sua offensiva per una “economia verde”: gli agrocarburanti, il nucleare, il carbone “pulito” e la massiccia appropriazione delle risorse naturali, soprattutto i boschi e le terre arabili.
Secondo Oxfam, gli investitori internazionali acquistano ogni sei giorni nei paesi del Sud una superficie di terra delle dimensioni di Londra. Negli ultimi dieci anni, le terre acquistate cosi costituiscono otto volte la superficie della Gran Bretagna. In Cambogia, si stima che più del 60% dei terreni coltivabili sono stati acquistati da multinazionali. Quest’ondata di appropriazioni è largamente dovuta al fatto che la finanza internazionale specula sui prezzi delle materie prime agricole e sulla produzione di agrocarburanti.. a detrimento del diritto dei popoli all’alimentazione. Ecco un esempio della barbarie di cui sono portatrici le “soluzioni” della Banca.
Ogni volta che si apre una conferenza dell’ONU sul clima, i mezzi di comunicazione di massa ci ripetono il solito ritornello: i governi ricercano un’intesa perché l’aumento della temperatura non superi i 2°C rispetto al periodo preindustriale. In realtà è più che probabile che questo obiettivo sia ormai fuori portata. Se l’Unione Europea è andata meglio rispetto all’obiettivo assegnato da Kyoto, è in gran parte grazie alla recessione economica, al’importazione di agrocarburanti, al massiccio acquisto di crediti di carbonio (spesso crediti bidone), e alla delocalizzazione della produzione in Cina. Gli Stati Uniti, com’è noto, non hanno mai ratificato gli accordi di Kyoto e le loro attuali emissioni superano di oltre il 30% quelle del 1990. Il Canada si è ritirato dal protocollo e il Giappone, come la Russia, non ne vogliono più sapere.
Eppure, il testo adottato nell’ex capitale imperiale imponeva soltanto obiettivi irrisori, insignificanti rispetto a quel che è indispensabile per salvare il clima. È quindi semplicemente impensabile che l’economia capitalistica mondiale, basata sulla crescita, la concorrenza e il profitto, riesca a mettere in atto le riduzioni drastiche evocate dalla nostra nota a pie’ di pagina della road map di Bali. Basta dare un’occhiata alle tendenze della politica capitalistica per convincersene: le fonti rinnovabili restano globalmente marginali, il loro sviluppo copre solo una parte dell’aumento della domanda; il grosso dei bisogni resta garantito dalle energie fossili, con un crescente ricorso al carbone, la febbre delle risorse petrolifere dell’Artico, il delirante sfruttamento delle sabbie bituminose dell’Alberta, senza contare quello dei gas da scisti, nuovo joker delle multinazionali dell’energia.

Il vicolo cieco capitalistico è totale

L’impossibilità di raccogliere la sfida climatico/energetica nel quadro produttivistico del capitalismo è così evidente che emerge dalle righe stesse di alcuni Rapporti di istituzioni internazionali al di sopra di ogni sospetto di sovversione comunista. A questo proposito, il World Economic and Social Survey 2011 dell’ONU costituisce una lettura edificante. Secondo questo documento, l’incidenza delle moderne rinnovabili sulla produzione primaria di energia è passata dello 0,45% nel 1990 allo 0,75% nel 2008, pari a una crescita media annua del 2,9%. Nel frattempo, l’impiego del carbone, del petrolio e del gas naturale è aumentato dell’1,6%, 1,5% e 1,2%, rispettivamente. I governi sono intervenuti massicciamente per promuovere le rinnovabili, e il settore privato ha cominciato a partire, “ma il cambio di tecnologia energetica è rallentato considerevolmente al livello del mix energetico complessivo a partire dagli anni Settanta e non si hanno prove a sostegno della convinzione popolare che questo cambiamento di tecnologia energetica conosca un’accelerazione (…) A dispetto degli impressionanti saggi di crescita della diffusione di tecnologie energetiche rinnovabili dal 2000, è evidente che l’attuale traiettoria non si avvicina da nessuna parte al percorso realistico verso la totale de-carbonizzazione del settore energetico globale nel 2050”, sostiene il Rapporto (pp. 49-50).
Una delle ragioni del paradosso è che l’utilizzazione pienamente razionale e economica delle rinnovabili richiederebbe di costruire in dieci anni un sistema energetico completamente nuovo. Spiegazione nel caso della produzione elettrica: nel quadro attuale, 1 GW di capacità eolica intermittente richiede il backup di 0,9 GW fossile. Per evitarlo, c’è bisogno di una rete “intelligente”. Ma, costruire una simile rete costituisce un’impresa “gigantesca, che richiede progresso tecnologico, collaborazione internazionale e trasferimenti senza precedenti” (p. 52). In linea generale, osserva il Rapporto, “la magnitudine fisica dell’attuale sistema energetico basato sui combustibili fossili è veramente enorme. Esistono migliaia di grandi miniere di carbone e di grandi centrali elettriche a carbone, circa 50.000 campi petroliferi, una rete mondiale di almeno 300.000 chilometri di oleodotti e di 500.000 gasdotti, e 300.000 chilometri di linee elettriche. Globalmente, il costo della sostituzione dell’infrastruttura fossile e nucleare esistente è perlomeno di 15-20.000 miliardi di dollari [da un quarto a un terzo del PIL mondiale – D.T.]. La Cina da sola ha aumentato la propria capacità elettrica a carbone di oltre 300 GW tra il 2000 e il 2008, un investimento di più di 300 miliardi di dollari, che comincerà ad ammortizzarsi a partire dal 2030-2040 e funzionerà probabilmente fino al 2050-2060. In effetti, la maggior parte delle infrastrutture energetiche sono state dispiegate di recente nelle economie emergenti e sono completamente nuove, con durate di vita di 40-60 anni almeno. Chiaramente, è improbabile che il mondo (sic) decida dall’oggi al domani di cancellare 15-20.000 miliardi di dollari di infrastrutture e di sostituirle con un sistema energetico rinnovabile il cui prezzo è più elevato” (p. 53).
Evidentemente non è il “mondo” che decide – lui non ha voce in capitolo. Sono i governi, sotto la tutela dei grandi gruppi energetici… e del capitale finanziario che eroga i crediti per gli investimenti. Le riserve comprovate di combustibili fossili – che rientrano negli attivi delle lobbies del carbone, del gas, del petrolio, ed anche dei fondi pensione – sono superiori di cinque volte al quantitativo di carbone che l’umanità può ancora permettersi di bruciare. Secondo i calcoli del Potsdam Institute e dell’ONG Carbon Tracker, per salvare il clima occorrerebbe che l’80% di quelle riserve restassero per sempre nelle profondità geologiche del globo. Per il “mondo” andrebbe meglio, ma non per i proprietari dei giacimenti, va da sé.
A parte questo piccolo “dettaglio”, il World Economic and Social Survey 2011 inquadra bene il problema. Oltre il 50% delle emissioni mondiali riguardano appena il 7% della popolazione, i 3,1 miliardi di poveri sono “responsabili” solo per il 5-10% dei gas a effetto serra (p. 29). Di conseguenza, il successo della transizione è possibile solo se “l’Europeo medio riduce il proprio consumo di energia di circa la metà e i residenti negli Stati Uniti dei tre quarti circa” (p. XIV). Il Rapporto ha l’onestà di riconoscere che obiettivi del genere non si possono raggiungere con “soluzioni semplicistiche” quali “l’internazionalizzazione delle esternalità ambientali” o le politiche spontaneistiche di “big push [sforzo molto elevato]” tecnologico. “nessuno di questi approcci ha la potenzialità di accelerare sufficientemente il cambiamento tecnologico alle scale globali richieste” (p. 29).

Per un piano d’urgenza ecologico e sociale

Gli autori del World Economic and Social Survey 2011 non traggono naturalmente la conclusione che si impone a partire dalla loro analisi. Al contrario, si ispirano allo scenario Blue map dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE). Ora, a parte il fatto che ritiene ragionevole protrarre lo sviluppo degli agrocarburanti e costruire una centrale nucleare di 1GW a settimana per quattro anni, lo scenario dell’AIE, soprattutto, permetterebbe tutt’al più di limitare la concentrazione di CO2eq a 550ppm, che corrisponde a un aumento di temperatura compreso tra 2,8° e 3,2°C…Mettere in opera la Blue map: ecco sicuramente quel che ha in testa la Banca Mondiale quando afferma che bisogna “assolutamente evitare un innalzamento di 4°C della temperatura del pianeta”…
La conclusione inevitabile ma tabù è la seguente: il salvataggio del sistema climatico è possibile solo attraverso una pianificazione democratica su scala mondiale, la soppressione di produzioni inutili o dannose, un’ampia rilocalizzazione della produzione (soprattutto agricola) e la radicale redistribuzione delle ricchezze. Essa dovrebbe comprendere in particolare: la nazionalizzazione senza indennizzo dei gruppi energetici e del credito, la drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, l’abolizione dei debiti pubblici, la soppressione dei diritti di proprietà intellettuale sulle tecnologie pulite e un notevole ampliamento del settore pubblico sotto controllo delle popolazioni. Solo un orientamento anticapitalistico verso una società che produca per il soddisfacimento dei reali bisogni umani, democraticamente scelti, può consentire di ridurre drasticamente il consumo energetico e la produzione materiale può permettere di ridurre radicalmente il consumo energetico e la produzione materiale, pur consentendo di soddisfare i bisogni sociali dei più.
Il salvataggio del clima – che determina le nostre condizioni di esistenza sulla Terra – ha questo prezzo. Ciò significa che la lotta deve imperativamente essere assunta dai movimenti sociali, soprattutto dal movimento sindacale. Anziché farsi mettere alle corde mediando la “ripresa” del capitalismo, come stanno facendo, le organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici dovrebbero avere il coraggio di elaborare un vasto piano pubblico di urgenza sociale ed ecologica. Un piano che puntasse, al tempo stesso, a fornire occupazione a tutti e tutte e a cancellare il mortale ingranaggio della crescita capitalistica otterrebbe un’enorme legittimazione sociale, di fronte a questo sistema che, come diceva Marx, “distrugge le due uniche fonti di qualsiasi ricchezza: la terra e il lavoro”.
[Questo testo aggiornatissimo è stato scritto da Daniel Tanuro, autore del libro L’impossibile capitalismo verde pubblicato da Alegre, il 27 novembre 2012, ossia subito dopo l’inizio della conferenza, ma aveva colto esattamente cosa sarebbe avvenuto a Doha - Dal sito di: Europe Solidale Sans Frontières. La traduzione è di Titti Pierini]

venerdì 7 dicembre 2012

Sul contratto separato dei metalmeccanici

Prime considerazioni di merito sul testo dell’accordo Fim-Uilm-Federmeccanica sul CCNL metalmeccanici

di Sergio Bellavita (Rete28Aprile Fiom)

Sul salario

I 130 euro di incremento dei minimi definiti dall’intesa separata nascondono due gabole non da poco:
In primo luogo si sana qualsiasi scostamento tra quanto avuto nel triennio precedente, i 127 euro, e il tasso di inflazione reale. In termini sindacali significa che persino la foglia di fico dell’accordo separato sul modello contrattuale del 2009 che defini’ l’indicatore IPCA e il successivo recupero dello scostamento, tranne la famosa inflazione importata su cui si erano esercitati molti sindacalisti di professione, altro non era che una balla colossale per consentire la riduzione dei salari.
In secondo luogo l’intesa stabilisce che la seconda rata ( 45 euro al quinto livello il 1/1/14)e la terza ( 50 euro al quinto livello il 1/1/15) sono nei fatti a disposizione delle singole aziende che potranno posticiparne il riconoscimento fino a 12 mesi e/o darli alla contrattazione di secondo livello, o meglio a disposizione di intese aziendali per particolari obbiettivi, secondo quanto definito dal patto sulla produttivita’ siglato recentemente. Sebbene sia stato definito, per ora, un riallineamento sui minimi nazionali che induce a presupporre il mantenimento formale del valore del contratto nazionale, l’introduzione di questo schema di possibile deroga sui minimi, da una parte apre per la prima volta ad una differenziazione temporanea dei minimi salariali nazionali, dall’altra sottrae risorse alla contrattazione di secondo livello, i padroni dal loro punto di vista penseranno di disporre a loro piacimento di quelle tranche e le riconosceranno nei tempi dovuti solo a fronte di ulteriori ricatti e peggioramenti.
Si sostanzia cosi sempre piu’ la contrattazione di restituzione o di ricatto, secondo lo schema ormai ben noto. Quali aziende potranno usufruirne? Tutte quelle interessate da crisi, avvio produzioni o incrementi produttività. Cioè tutte.

Sulle qualifiche

Si compie l’ennesima operazione a danno dei lavoratori. Nel 2005 e nel 2008 resistemmo alle pretese di Federmeccanica di introdurre un livello aggiuntivo tra terzo e quarto come tentativo di impedire il passaggio dal terzo al 4 livello, assolutamente di miglior favore per i lavoratori. Nacque cosi’ la mediazione della terza erp, non molto positiva ma comunque confinata ad alcune tipologie lavorative. Ora con la pattuizione di una 3 super si condannano i terzi livelli a non diventare mai quarti.
Sempre sull’inquadramento sono previste ulteriori manomissioni nei prossimi mesi con l’evidente obbiettivo di cancellare l’automatismo tra secondo e terzo livello e introdurre il 4 super, livello tra quarto e quinto con il sapore della stessa beffa realizzata con il 3 super.

Sull’orario

Incredibile quanto previsto sulla contrazione temporanea dell’orario di lavoro in caso di minor lavoro. Fermo restando l’esistenza degli ammortizzatori sociali ( bontà loro!!!) l’azienda, previo esame con le RSU, senza cioè alcun vincolo ad intese, può disporre di ferie e permessi dei lavoratori anche in modo collettivo. Un bel modo per dire senza mezzi termini che la crisi la pagano direttamente i lavoratori! Una pesante lesione del diritto del lavoratore a godere le proprie ferie e permessi secondo le proprie esigenze.
Si escludono dal computo quelle in corso di maturazione, mentre si prendono, non solo il residuo anni precedenti, ma persino quello gia’ maturato nel corso dell’anno e non ancora goduto. Sugli orari di lavoro si compie il vero omaggio a federmeccanica. Si conferma che l’orario settimanale di lavoro e’ di 40 ore, ma solo in maniera simbolica in quanto e’ computato come media annuale, salvo accordi aziendali. In sostanza si conferma, in ossequio a accordo 28 giugno e patto produttivita’ il possibile aumento dell’orario di lavoro settimanale ( ferrovieri docet).
Si cancella ogni potere della rsu sulla flessibilita’ di orario in quanto l’azienda ha il solo obbligo all’esame congiunto, poi trascorsi dieci giorni applica l’orario anche unilateralmente.
La collocazione della mezzora di pausa refezione sul turno e’ consegnata a intese aziendali. Viene introdotto l’obbligo al lavoratore in turno che non viene sostituito a farsi anche l’altro turno per intero. Ulteriore deroga ai bisogni fisiologici umani. Tali lavoratori sono esentati per sei giorni da altro straordinario ma nessun recupero o riposo compensativo. Si incrementa il numero di ore di flessibilità massimo in un anno, che passano così da 64 a 80. L’azienda anche qui potrà fruirne unilateralmente dopo aver disbrigato l’ esame congiunto con le RSU.

Sui permessi retribuiti

Per quanto attiene ai PAR, permessi annui retribuiti, l’accordo separato consegna alle aziende 5 giornate all’anno di PAR dei lavoratori. L’impegno tra le parti sul premio di risultato è eloquente. Si definisce che tra i criteri per il riconoscimento del premio c’e’ l’effettiva prestazione di flessibilità. Cioè il premio fedeltà per chi partecipa alla flessibilità aziendale, una sorta di premio partecipazione, variante del premio presenza.

Sul trattamento di malattia

Su questo tema l’accordo separato fa un’operazione meschina. Si introduce un meccanismo di pesante penalizzazione per le cosiddette malattie brevi, quelle cioè sino a 5 giorni di durata. Oltre la terza malattia breve nel corso dell’anno verrà ridotta la retribuzione, del 34% per la quarta malattia e del 50% per la quinta e successiva. In sostanza si riduce drammaticamente il riconoscimento economico della malattia andando persino oltre l’attacco ai primi 3 giorni di carenza, pagati al 100% dalle aziende, in quanto e’ l’intero periodo,max 5, ad essere colpito. Nascono pertanto quattro possibili fasce di retribuzione malattia: 50% 66% 80% 100% Le imprese ottengono cosi’ di aggredire la parte più consistente, perché più frequente, del diritto alla malattia e concedono un simbolico incremento ai rari casi di malattie della seconda fascia del precedente schema che passa dal 50% all’80%.
Questi i principali punti che ad una prima veloce lettura appaiono più deleteri dell’intesa separata.