sabato 24 novembre 2012

"Niente premi, sto con i lavoratori"

Ken Loach scrive al Festival del Cinema di Torino: avete esternalizzato e sacrificato i dipendenti delle cooperative, quindi non accetto il vostro riconoscimento

Ken Loach

È con grande dispiacere che mi trovo costretto a rifiutare il premio che mi è stato assegnato dal Torino Film Festival, un premio che sarei stato onorato di ricevere, per me e per tutti coloro che hanno lavorato ai nostri film.
I festival hanno l’importante funzione di promuovere la cinematografia europea e mondiale e Torino ha un’eccellente reputazione, avendo contribuito in modo evidente a stimolare l’amore e la passione per il cinema.
Tuttavia, c’è un grave problema, ossia la questione dell’esternalizzazione dei servizi che vengono svolti dai lavoratori con i salari più bassi. Come sempre, il motivo è il risparmio di denaro e la ditta che ottiene l’appalto riduce di conseguenza i salari e taglia il personale. È una ricetta destinata ad alimentare i conflitti. Il fatto che ciò avvenga in tutta Europa non rende questa pratica accettabile.
A Torino sono stati esternalizzati alla Cooperativa Rear i servizi di pulizia e sicurezza del Museo Nazionale del Cinema (MNC). Dopo un taglio degli stipendi i lavoratori hanno denunciato intimidazioni e maltrattamenti. Diverse persone sono state licenziate. I lavoratori più malpagati, quelli più vulnerabili, hanno quindi perso il posto di lavoro per essersi opposti a un taglio salariale. Ovviamente è difficile per noi districarci tra i dettagli di una disputa che si svolge in un altro paese, con pratiche lavorative diverse dalle nostre, ma ciò non significa che i principi non siano chiari.
In questa situazione, l’organizzazione che appalta i servizi non può chiudere gli occhi, ma deve assumersi la responsabilità delle persone che lavorano per lei, anche se queste sono impiegate da una ditta esterna. Mi aspetterei che il Museo, in questo caso, dialogasse con i lavoratori e i loro sindacati, garantisse la riassunzione dei lavoratori licenziati e ripensasse la propria politica di esternalizzazione. Non è giusto che i più poveri debbano pagare il prezzo di una crisi economica di cui non sono responsabili.
Abbiamo realizzato un film dedicato proprio a questo argomento, «Bread and Roses».
Come potrei non rispondere a una richiesta di solidarietà da parte di lavoratori che sono stati licenziati per essersi battuti per i propri diritti? Accettare il premio e limitarmi a qualche commento critico sarebbe un comportamento debole e ipocrita. Non possiamo dire una cosa sullo schermo e poi tradirla con le nostre azioni.
Per questo motivo, seppure con grande tristezza, mi trovo costretto a rifiutare il premio.

Ken Loach

venerdì 23 novembre 2012

20/11 – Produttività: un imbroglio reazionario

Il patto sulla produttività rappresenta un concentrato delle ideologie reazionarie e della programmata iniquità che è alla base della agenda Monti.

La tesi di fondo che l'ispira è un brutale imbroglio di classe.

La produttività italiana ha toccato il massimo negli anni 70, quando il potere dei lavoratori nelle imprese e nel mercato del lavoro era al massimo. Da allora è sempre declinata, fino a crollare quando il sistema economico è stato strangolato dai vincoli dell'euro e del liberismo europeo.

In tutti questi anni il salario ha solo perso posizioni, sia rispetto ai profitti sia nel confronto con gli altri paesi Ocse. Un operaio italiano in un anno lavora due mesi in più del suo equivalente tedesco, eppure la produttività della Germania è ai vertici.

Allora perché in Italia si fa un accordo che chiede a chi lavora ancora più orario in cambio di ancor meno salario? Per la stessa ragione per la quale Monti vanta oggi il più feroce sistema pensionistico europeo, la massima flessibilità del lavoro i più brutali tagli alla scuola pubblica e allo stato sociale, e allo stesso tempo proclama che questo è solo l'inizio e pretende che i suoi successori di centrosinistra continuino sulla stessa strada.

Perché c'é un metodo in questa follia. Se l'Italia deve sottostare ai drastici vincoli dei patti di stabilità europea, delle banche e della finanza, della moneta unica, dei governi conservatori, se il sistema delle imprese vuole incrementare i margini di profitto nonostante la crisi, allora è chiaro che l'unica leva che rimane , l'unica reale flessibilità è quella che viene dal supersfruttamento del lavoro.

Il patto sulla produttività estende ovunque il sistema Marchionne: i pochi che ancora lavorano devono accettare di farlo ai prezzi del mercato globale, altro che contratti e diritti.

Tutto questo non ha nulla a che fare con la difesa dell'occupazione ma solo con quella dei profitti. Anzi la disoccupazione di massa è indispensabile per costringere i lavoratori a piegarsi al supersfruttamento . La disoccupazione deve restare e crescere, altrimenti il modello non funziona.

A tale fine il governo mette a disposizione la riduzione delle tasse solo per il salario flessibile. Mentre alla maggioranza dei lavoratori viene calata la paga, una minoranza può mantenere il potere d'acquisto se lavora di più in una azienda che va bene, e solo questa minoranza avrà meno tasse suula busta paga. Questo mentre non si trovano più i fondi per la cassa integrazione o per l'indennità di disoccupazione.

Questo non è solo un accordo sindacale è un progetto di selezione sociale. Ed è la vera risposta alla crisi di Monti e degli interessi di classe che rappresenta. Interessi che impongono una svalutazione sociale del lavoro sempre più brutale, visto che quella che dura da trent'anni non è stata sufficiente.

Questo modello sociale reazionario si appoggia su un sistema corporativo di caste e interessi burocratici organizzati. Tutto il sistema delle imprese, comprese naturalmente le cooperative e le piccole aziende strettamente legate a partito democratico, ha sottoscritto con entusiasmo il testo. Tra i sindacati, i firmatari sono tutti coloro che hanno già sottoscritto le stesse condizioni alla Fiat, ricevendone in cambio la facoltà di sopravvivere protetti dal padrone.

La Cgil finora non ha aderito all'accordo, ma annaspando in un mare di contraddizioni e incertezze.

Il patto sulla produttività è in pochi anni il terzo accordo interconfederale che devasta il contratto nazionale e tutto il potere di contrattazione del lavoro. Il primo nel gennaio 2009 non è stato sottoscritto dalla Cgil. Il secondo, in pura continuità con il precedente, il 28 giugno del 2011 è invece stato firmato dalla stessa Cgil, che anzi con la Fiom oggi ne rivendica la piena applicazione. Ora il patto sulla produttività scioglie ai danni dei lavoratori alcune formule ambigue dell'accordo precedente, demolendo definitivamente il contratto nazionale.

Ma firmare una volta sì e una no non costruisce un'alternativa al cedimento, a maggior ragione poi quando i principali contratti sottoscritti in questa stagione già dispensano un'orgia di flessibilità e solo nei meccanici la contrattazione è separata.

Il no della Cgil è dunque di fronte al solito bivio ove da tempo si dividono tutte le posizioni critiche verso il liberismo. Si fa sul serio, oppure si testimonia il dissenso e poi ci si adatta alle nuove schiavitù ricercando il male minore?

Il bivio dei contratti è lo stesso della politica.

Il centrosinistra ha già deciso di far finta di superare Monti, mentre sottoscrive tutte gli impegni assunti dall'attuale governo. La Cgil seguirà la stessa strada, cedendo con adeguata fermezza alla cancellazione di ogni solidarietà contrattuale tra i lavoratori?

Se non si vuole seguire un copione già recitato tante volte, non basta non firmare l'accordo. Se non si è d'accordo con il patto sulla produttività, bisogna combatterlo, disobbedire alle sue regole, scontrarsi con chi invece le accetta.

O si sta, anche solo passivamente, con Monti, la sua politica , i suoi accordi, o si sta contro di essi e contro chi li sostiene, in mezzo ci sono solo impotenza e ipocrisia.

di Giorgio Cremaschi

domenica 18 novembre 2012

I professori al lavoro contro i professori al governo

Lo scorso 12 ottobre, il giorno prima dello sciopero della scuola indetto dalla Flc Cgil, è stato reso noto il testo del disegno di legge di stabilità, in cui è contenuta, tra le altre cose, la proposta del governo Monti di innalzare l'orario di lezione frontale per i docenti delle scuole secondarie da 18 a 24 ore settimanali. La notizia ha rianimato una categoria sopita dagli anni del movimento contro la riforma Moratti (nel 2008 e 2009 erano state soprattutto le scuole elementari e i precari a mobilitarsi), che tuttavia sta dimostrando di non essere disposta ad accettare passivamente le politiche di austerità applicate alla scuola. Nei giorni immediatamente successivi, nelle scuole si sono tenute assemblee sindacali sollecitate dal basso e collegi dei docenti, in cui veniva messo in discussione non solo l'ultimo provvedimento, che avrebbe provocato un taglio di un ulteriore miliardo di euro e il licenziamento di oltre 30mila docenti – soprattutto precari – dopo i tagli e i licenziamenti di massa già realizzati dal governo Berlusconi, ma anche le idee di fondo che stanno muovendo i governi liberisti degli ultimi anni riguardo alla scuola.

Le mozioni approvate nei collegi e nelle assemblee di centinaia di scuole (solo a Roma sono ormai oltre 130, ma la situazione è diffusa in tutta Italia) sono molto simili tra loro in quanto alle questioni sollevate.

In primo luogo la questione dell'aumento dell'orario di lavoro. Il governo ha provato a far leva sul senso comune secondo cui gli insegnanti sarebbero una categoria privilegiata che con poche ore di lavoro giornaliero ha la possibilità di integrare i bassi stipendi con altre attività professionali. Se è innegabile che una parte degli insegnanti svolga anche altre attività, lo è anche che chi – per scelta o per necessità – vuole prendere sul serio il lavoro dell'insegnante ha da lavorare ben oltre le ore di lezione frontali. Ci sono le attività scolastiche cui non è possibile sottrarsi, come i consigli, le riunioni di dipartimento, i collegi docenti, i ricevimenti dei genitori ecc. ma anche la preparazione delle lezioni a casa, l'aggiornamento, la predisposizione e la correzione delle verifiche. In tutto questo è normale, ed è così che funziona anche nella maggior parte dei paesi europei, che l'orario di lezione frontale sia intorno alle 18 ore settimanali. Sempre che si voglia garantire la possibilità che ci siano insegnanti che facciano bene il loro mestiere, nonostante siano scoraggiati dalle condizioni economiche (gli stipendi tra i più bassi d'Europa e al limite della soglia di povertà relativa, gli scatti di anzianità bloccati e il contratto fermo al 2009...) e pratiche (le classi sovraffollate, la competizione tra le scuole per accaparrarsi iscritti, lo strapotere dei dirigenti...) in cui sono costretti a svolgerlo.

Questo concetto è sembrato subito chiaro agli studenti e alle loro famiglie, che nella maggior parte dei casi hanno fatto proprie le rivendicazioni dei docenti e solidarizzato con le forme di lotta che si sono messe in atto nelle scuole, comprese la sospensione delle attività aggiuntive, sportelli, corsi di recupero, visite guidate... arrecando proprio agli studenti un disagio non indifferente. Risulta inoltre chiaro a tutti che questo è un attacco a tutti i lavoratori pubblici, che si vedono l'orario di lavoro stabilito per legge e non per contratto, e che fa il paio con l'attacco subito dai lavoratori del settore privato – in primis alla Fiat di Marchionne – sull'aumento di fatto del loro orario di lavoro e la distruzione del contratto collettivo nazionale.

Secondo, la questione del disegno di legge 953, partito dal centrodestra durante il governo Berlusconi per iniziativa di Valentina Aprea (PdL), poi apprezzato da settori consistenti del centrosinistra (a cominciare da Luigi Berlinguer, padre dell'autonomia scolastica), che lo ha fatto proprio con qualche modifica, facendolo approvare dalla settima commissione della Camera in sede legislativa, e lo promuove in Senato (dove è arrivato il 13 novembre e ha cambiato numero diventando 3542) con tanto di firma di Maria Letizia De Torre, Maria Coscia e Manuela Ghizzoni (Pd). Non è sufficiente lo sbracciarsi del Pd per segnalare che da quel disegno di legge sono stati espunti il reclutamento diretto degli insegnanti da parte dei dirigenti e la trasformazione delle scuole in fondazioni (la qual cosa piaceva anche a Berlinguer), rimane chiaro che la direzione in cui punta quel testo è quello dell'aziendalizzazione delle scuole statali, che vengono fatte funzionare esattamente come quelle private e con queste vengono messe in competizione sul mercato.

La proposta infatti cancellerebbe gli organi collegiali previsti dai decreti delegati del 1974 (il collegio dei docenti, le assemblee degli studenti e dei genitori) attribuendo poteri sostanziali al consiglio dell'autonomia (che sostituisce il consiglio d'istituto, eletto tra le componenti della scuola), in primis quello di redigere e approvare lo statuto di ciascuna scuola e il piano dell'offerta formativa. Questo consiglio dell'autonomia può essere integrato con rappresentanti delle “realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi”, vale a dire dei soci privati che potrebbero finanziare l'istituzione scolastica. I soggetti privati potrebbero inoltre entrare a far parte del “nucleo di autovalutazione dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità complessive del servizio scolastico”. Le istituzioni scolastiche autonome potranno inoltre consorziarsi e “ricevere da fondazioni contributi finalizzati al sostegno economico della loro attività, per il raggiungimento degli obiettivi strategici indicati nel piano dell’offerta formativa” cioè per l'appunto gli obiettivi suggeriti dai rappresentanti delle fondazioni private integrati nel consiglio dell'autonomia.

Altro che autonomia! Questo concetto con cui il centrosinistra ha cercato per anni di mascherare i tagli, la frammentazione e la privatizzazione della scuola è ormai smascherato. Che ne sarà della libertà d'insegnamento? Delle istituzioni democratiche di autogoverno delle scuole? Del già fragile intervento in queste istituzioni degli studenti tramite le loro assemblee e i propri rappresentanti?

Terzo, il peggioramento delle condizioni di lavoro nella scuola e quindi della qualità dell'istruzione pubblica. I precari della scuola, ormai una proporzione significativa del personale docente e tecnico-amministrativo, stanno lottando da anni per vedere garantito il proprio diritto ad essere assunti a tempo indeterminato, e il diritto degli studenti di avere un minimo di continuità didattica. Questo governo continua nella linea tracciata dal precedente, determinando ulteriori licenziamenti con la legge Fornero sulle pensioni, che obbliga i docenti a rimanere in servizio oltre i 67 anni di età, impedendo il ricambio generazionale, pretendendo di riconvertire i docenti in esubero sui posti di sostegno agli alunni disabili, mandando i docenti inidonei a lavorare come personale tecnico-amministrativo. In questa situazione si inserisce la truffa del concorso della scuola, per un numero risibile di posti rispetto a quelli che sarebbero necessari (e disponibili, visto che sono coperti di anno in anno dai precari), sottoponendo ad una ulteriore prova concorsuale i precari pluriabilitati e formati anche in anni di esperienza sul campo.

Il movimento delle scuole, spesso sulla spinta dei coordinamenti precari già presenti sul territorio e che avevano già fatto una manifestazione nazionale contro il concorso-truffa il 22 settembre, si è organizzato in coordinamenti cittadini autorganizzati, trasversali rispetto alle appartenenze sindacali, in cui anzi è spesso forte lo scetticismo verso i gruppi dirigenti e le burocrazie dei sindacati della scuola, sia di quelli di base che dei confederali, che hanno dimostrato di non essere all'altezza del compito di difendere l'istruzione pubblica e i lavoratori. Il settarismo sindacale (dei piccoli come dei grandi) e le piattaforme spesso non in sintonia con la radicalità dei movimenti che si stanno esprimendo, stanno facendo crescere nei lavoratori della scuola la coscienza dell'importanza di autorganizzarsi.

Dopo le prime iniziative spontanee, come i flash-mob davanti al Miur convocati tramite catene di sms o facebook, le scuole hanno deciso di manifestare con uno spezzone insieme agli studenti al No Monti Day il 27 ottobre, in cui la buona partecipazione di migliaia di insegnanti ha collocato questo movimento nell'opposizione sociale al governo tecnico. Le illusioni che erano state create ad arte,su un governo composto in gran parte da professori universitari, dallo stile sobrio decisamente in discontinuità rispetto al governo precedente, si sono presto dissipate nella constatazione che le politiche economiche e sociali sono sostanzialmente le stesse di Berlusconi e Tremonti, e che in materia di attacchi alla scuola pubblica Profumo non ha niente da invidiare alla Gelmini.

La manifestazione del 10 novembre scorso, convocata dal Coordinamento delle scuole di Roma, è stata una dimostrazione che questo movimento ha raggiunto caratteristiche di massa, sia per la imponente partecipazione di circa 50mila docenti e studenti da tutte le scuole della provincia, sia per la qualità della partecipazione. Studenti e docenti hanno sfilato dietro gli striscioni delle tante scuole intervenute, urlando gli stessi slogan e riuscendo a far allungare la manifestazione, che inizialmente doveva finire nei pressi di piazza Venezia, fino al Miur a Trastevere. I sindacati che hanno aderito (Flc, Cobas, Unicobas, Usb, Usi) hanno testimoniato la propria presenza con qualche bandiera in fondo al corteo, ma il servizio più grande che hanno reso a questo movimento è stata la ricezione della necessità di mobilitarsi uniti sulle piattaforme radicali elaborate nelle assemblee delle scuole e dei coordinamenti.

Di fronte a questo livello di mobilitazione il governo è dovuto arretrare sulla questione dell'orario di lavoro, prima con qualche timida dichiarazione possibilista di Rossi Doria e dello stesso Profumo – che tuttavia ha rimandato la partita a dopo le elezioni, sperando in un probabile Monti bis – poi consegnando la faccenda agli emendamenti bipartisan nelle commissioni cultura e bilancio della Camera. Qui i deputati Pd, PdL e UdC si sono affannati per trovare una soluzione che consentisse di recuperare circa 200 milioni di euro e rimandare il taglio previsto tramite l'aumento di orario. Ovviamente i soldi sono usciti da ulteriori tagli alla scuola pubblica statale (che graveranno sul fondo d'istituto – ulteriore stimolo alle scuole a trovarsi i finanziamenti dalle fondazioni private – e sul personale tecnico-amministrativo), mentre i circa 223 milioni di finanziamento alle scuole private sono stati salvati grazie all'impegno del Pd, così come non sono stati messi in discussione le cifre ben superiori che il governo stanzia per l'acquisto dei cacciabombardieri F-35 o per mantenere le missioni militari all'estero.

Nonostante le rassicurazioni del governo e dei partiti che lo sostengono, il movimento non si è fermato e di nuovo il 14 novembre si è riversato nelle piazze di tante città italiane, insieme ai lavoratori e alle lavoratrici di tutta Europa in sciopero generale per contestare le politiche di austerità economica promosse dalla Banca centrale ed attuate dai governi di tutti i colori politici. Anche questa volta in piazza sono scesi in massa gli studenti, ormai in occupazione in molte scuole, con un corteo imponente e colorato, armati della gioia di manifestare in una bella giornata di novembre e dell'indignazione di dover subire la negazione del diritto all'istruzione e della speranza in un lavoro futuro, degno degli anni spesi a studiare.

La risposta del governo è stata come di un animale idrofobo stretto in un angolo, altro che professori e tecnici. Con i ragionamenti non sono stati capaci di convincere i lavoratori e gli studenti della ineluttabilità delle politiche per il risanamento dei conti pubblici, e allora le impongono con la forza. Il centro di Roma è stato blindato per impedire ai vari cortei di raggiungere piazza Montecitorio, dove tutti naturalmente sarebbero voluti confluire ad assediare un Parlamento che non rappresenta più che una minoranza di poteri forti. Quando la polizia si è trovata di fronte all'imponenza del corteo studentesco, un corteo assolutamente pacifico di studenti per lo più minorenni, a mani nude, ha caricato e pestato a sangue, non per fermare un corteo già fermo, ma per punire la volontà di partecipazione e di ribellione dei giovani scesi in piazza.

La repressione messa in atto il 14 novembre non riuscirà a spaventare questo movimento. Il Coordinamento scuole di Roma ha solidarizzato con gli studenti, ed è indispensabile che le prossime manifestazioni vedano sfilare ancora insieme gli insegnanti e il personale della scuola con le studentesse e gli studenti.

E' necessario adesso che le scuole in movimento si organizzino su scala nazionale e costruiscano appuntamenti di mobilitazione unitari. I sindacati della scuola hanno convocato da tempo uno sciopero finto il 24 novembre, di sabato quando molte scuole sono chiuse e quando probabilmente la legge di stabilità avrà concluso il suo iter parlamentare, inserendo nelle piattaforme solo il problema degli scatti di anzianità e del rinnovo contrattuale. E' necessario che il movimento si faccia sentire e imponga la propria piattaforma di mobilitazione, mettendo in discussione le idee di fondo che muovono i governi liberisti in tema di scuola.

Contro questo governo, sostenuto da tutte le principali forze politiche, è necessario mettere in campo un movimento di massa, ridare coraggio e coinvolgere tutte le categorie di lavoratori colpiti dalle politiche di austerità, dalla compressione dei diritti e dal peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Altrimenti si perderà anche su quello che oggi crediamo di essere riusciti a fermare.

Profumo ha già promesso di tornare sul tema dell'aumento dell'orario di lavoro, e d'altronde questa è una ricetta che era nella lettera di Trichet e Draghi ai governo italiano del 5 agosto 2001: ridurre gli stipendi dei dipendenti pubblici; bloccare il turn over; utilizzare indicatori di performance per regolare gli stipendi nell'istruzione, nella sanità e nella giustizia; indebolire la contrattazione collettiva nazionale per tutti i lavoratori. Questo è il programma politico della Banca centrale europea, e quasi sicuramente ci troveremo a confrontarci con questo programma anche dopo le prossime elezioni. Per questo non è il momento di sedersi sugli allori, ma di rilanciare la mobilitazione.

di Francesco Locantore




La miglior difesa è il massacro!

Basta con l'ipocrisia israeliana e degli alleati europei. Basta con la guerra israeliana al popolo palestinese

«È tempo che Israele riconosca che Gaza è un nemico. Ed agisca di conseguenza: smetta di fornire elettricità e far passare cibo. Dichiari ufficialmente che siamo in uno stato di guerra e agisca di conseguenza». Parole dello scrittore «pacifista» Abraham Yeoshua, lo stesso che nel condannare la «seconda Intifada» palestinese commentava che l'errore dei palestinesi stessi era quello di volere «la pace e la giustizia», il che è ovviamente una colpa!

Su una cosa ha però ragione: Israele è in guerra contro Gaza, è in guerra contro la popolazione di Gaza. E non solo o non tanto perché da qualche giorno ha ripreso i bombardamenti mirati e indiscriminati contro la Striscia, ma perché dopo la farsa del «ritiro unilaterale» del 205, Israele ha mantenuto la Striscia sotto un vero e proprio assedio. E' l'altra forma dell'occupazione che continua.

Perché deve essere Israele a «fornire elettricità e passare cibo»? Perché Israele controlla tutti i confini con la Striscia e vuole continuare a ordinare all'Egitto come gestire il confine di Rafah. Perché Israele impedisce un'economia autonoma palestinese - impedendo ai pescatori di pescare, agli agricoltori di avere sicurezza nei campi, ai commercianti di poter vendere e acquistare dove preferiscono; ai palestinesi impedisce la possibilità di vivere nella loro terra!

Israele è in guerra con Gaza - e i peggiori cantori di questa guerra sono coloro che, come Yeoshua, cercano di far dimenticare che la responsabilità della guerra è di Israele e della sua politica.

L'attacco israeliano di questi giorni («Pilastro di difesa», solita ipocrisia dei nomi delle operazioni di guerra) è ancora una volta un messaggio insanguinato rivolto ad Hamas, come nel 2008 con «Piombo Fuso»: non perché l'organizzazione palestinese rappresenti un «pericolo» per la sicurezza di Israele, ma perché non si decide a svolgere il compito che le viene richiesto dal governo israeliano: tenere sotto controllo la popolazione e la resistenza palestinese di Gaza, in cambio della salvezza per i propri dirigenti.

Per questo è stato assassinato il capo militare di Hamas (a cui è stato anche fatto pagare il rapimento di Shalit, e il successo politico della sua liberazione), perché si vuole spaventare l'intera organizzazione.

E intanto si procede con la consueta modalità della guerra terroristica, per convincere la popolazione palestinese di Gaza - ma anche quella della Cisgiordania sempre più colpita da colonie illegali israeliani e dalla pulizia etnica di Gerusalemme - che l'unica salvezza è l'accettazione del dominio israeliano sulla Striscia e la necessità che la politica palestinese sia subalterna a quella israeliana. E' ciò che il sociologo israeliano Baruch Kimmerling chiamava «politicidio».

Anche questa volta il messaggio israeliano - che viene portato con missili, bombardamenti, massacri - è rivolto a soggetti diversi: ad Hamas e a tutti i palestinesi, dicevamo; ai nuovi dirigenti egiziani, che sembrano meno disponibili a subire senza protestare ogni operazione israeliana, ma che devono in ogni caso mantenere un equilibrio tra dichiarazioni più forti (accompagnate da limitate ma simboliche misure diplomatiche) e la necessità di mantenere ferma l'alleanza con gli Usa e la collaborazione con Israele nel Sinai; agli Usa di Obama, presidente che non piace a Nethanyahu ma che non fa comunque nulla per fermare la politica espansionistica e terroristica israeliana; ai governi europei, perché continuino a sostenere le ragioni e la politica israeliane (come fanno senza particolari problemi).

Vergognoso come sempre l'atteggiamento del governo italiano, che non cambia mai anche se ora ci sono i «tecnici», quelli che sanno bene quale contributo possa dare Israele al capitalismo europeo in crisi, e quale ruolo possa continuare a svolgere in una regione in subbuglio - dove il peggiore incubo per gli europei è il successo di rivoluzioni che riescano a cacciare davvero i governanti neoliberisti alleati agli interessi europei con filo doppio.

Per questo il ministro degli esteri italiano terzi si dice «preoccupato per il lancio di missili Qassam» (non sappiamo se sia preoccupato per le decine di morti palestinesi,ma dubitiamo fortemente). Per questo si affida alla «mediazione egiziana», sperando che la Fratellanza musulmana egiziana dimostri di saper tenere a bada i palestinesi così da accreditarsi definitivamente agli occhi europei e statunitensi.

Non siamo contenti per il lancio di missili Qassam su Israele, e piangiamo anche i morti civili israeliani. Ma continuare a mettere sulla stesso piano questi missili con la politica sionista di occupazione, embargo, distruzione e cancellazione dei palestinesi è una colpevole ipocrisia.

Noi non siamo equidistanti (o «equivicini» come sosteneva D'Alema): siamo dalla parte della resistenza palestinese all'occupazione israeliana; siamo dalla parte di chi si batte per la nascita di uno stato democratico in Palestina che metta fine all'esperienza sionista e renda piena cittadinanza a chi vi abita (arabi, ebrei e qualsiasi altra nazionalità e identità sia presente) e a chi è stato espulso dall'occupazione israeliana e ancora è profugo in tutto il mondo; siamo dalla parte dei popoli che vogliono libertà, giustizia, dignità (per questo siamo dalla parte della rivolta siriana, contro la dittatura di Assad - che non è certo dalla parte dei palestinesi - e contro qualsiasi intervento militare esterno, che renderebbe più schiavi i popoli arabi).

Per questo continuiamo a protestare e manifestare. Per la pace E la giustizia, non essendo possibile la prima senza la seconda.
Piero Maestri

giovedì 15 novembre 2012

COMUNICATO SINISTRA CRITICA SUL 14 NOVEMBRE

14 novembre, grande giornata di lotta europea contro le politiche di austerità

No alla repressione, libertà di manifestazione! Libertà per gli/le arrestati/e!

Come in gran parte degli altri paesi della UE, oggi anche in Italia centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori, di studentesse e di studenti, sono scesi in piazza oggi nella giornata dello sciopero generale europeo.

La mobilitazione è andata molto oltre la chiamata allo sciopero della Cgil e del suo tentativo di rendere questa giornata la più inoffensiva possibile e priva di efficacia nell'interrompere effettivamente l'attività produttiva.

La mobilitazione ha rotto gli argini soprattutto grazie allo straordinario sviluppo nelle scuole di tutto il paese, tra le studentesse e gli studenti medi e tra gli insegnanti di un vasto movimento per la difesa della scuola pubblica, contro tutte le misure del governo che, in nome dell'austerità, puntano a una vera e propria distruzione della scuola pubblica, lasciando i giovani senza alcuna prospettiva del futuro.

L'irruzione sulla scena politica e sociale di un vero movimento di massa, di cui si avevano avuto le prime timide avvisaglie con la manifestazione del 27, e poi ancor più con la grande giornata romana degli insegnanti del 10 novembre.

Una ventata di aria fresca che ha, tra l'altro, scompaginato il misero castello di carte delle primarie del Pd e della contemporanea scimmiottatura del Pdl.

E' in questo quadro che si spiega la violenta reazione degli apparati polizieschi contro le/i manifestanti: porre da subito un argine contro lo sviluppo del movimento.

Sinistra Critica condanna in modo netto la aggressione poliziesca agli studenti a Roma e in numerose altre città, aggressione del tutto ingiustificata e motivata solo dalla volontà del potere di evitare che i cortei arrivassero in vista dei palazzi della politica. Cariche violentissime per spaventare, per "insegnare" ai giovani studenti di stare "al loro posto", nella gabbia stabilita dal sistema e di rinunciare a ribellarsi e lottare.

In tutta Europa le mobilitazioni circondano e assediano i luoghi del potere politico, parlamenti o palazzi governativi, ma anche i luoghi simboli del potere economico e finanziario. In Italia, dove il discredito della casta politica raggiunge i massimi livelli internazionali, secondo le compatibilità stabilite dalle “forze dell'ordine” occorre mantenere le proteste lontano, per evitare che l'opposizione contro l'austerità si combini con il rifiuto della “casta”, che altro non sono che i gestori politici delle scelte della borghesia.

Così centinaia di giovani sono stati fermati e identificati, numerosi sono stati denunciati, tantissimi sono stati picchiati a freddo. Sinistra Critica chiede l'immediato rilascio degli arrestati e l'archiviazione di tutte le denunce.

Il governo, evidentemente, sente che il clima nel paese sta cambiando e che sta esaurendosi quel torpore sociale che faceva dire a Monti nei suoi tour europei che tutto il popolo italiano condivideva la sua politica.

La mobilitazione odierna segna quindi un grande passo avanti nella costruzione di un movimento di massa plurale contro il governo delle banche e le sue politiche.

Bisogna continuare.

Le militanti e i militanti di Sinistra Critica si impegneranno fino in fondo per ampliare le dinamiche di lotta, per favorire l'autorganizzazione democratica delle/degli insegnanti, delle studentesse/degli studenti, delle lavoratrici e dei lavoratori e far convergere tutte le opposizioni sociali e politiche al governo Monti.

E' possibile costruire nuove occasioni di mobilitazione continentale, è possibile avanzare verso lo sciopero europeo contro i signori della finanza, le oligarchie borghesi europee e i governi e le istituzioni che ne difendono gli interessi.

Per questo non solo siamo dalla parte di chi è stato picchiato/a, fermato/a, arrestato/a, ma torneremo in piazza anche nei prossimi giorni, tutti e tutte insieme.

Esecutivo nazionale Sinistra Critica

sabato 10 novembre 2012

14 novembre, sciopero generale europeo

Contro l'austerità, contro il fiscal compact, contro Monti e la BCE


Il 14 novembre scioperiamo con tutti i lavoratori europei

Verso un vero sciopero europeo



Il 14 novembre scioperiamo e scendiamo in piazza assieme alle lavoratrici e ai lavoratori di Grecia, Spagna, Portogallo, Malta, Cipro, tutte e tutti sottoposti al medesimo attacco per distruggere le conquiste e i diritti di un secolo di lotte.

In tutti i paesi europei, anche se con ritmi diversi, i governi di ogni colore, coordinati dalla Commissione europea, dalla BCE e dal Fondo monetario internazionale, in difesa degli interessi del padronato, delle banche e dei grandi speculatori finanziari, stanno demolendo ogni aspetto dello stato sociale (dalla sanità alla scuola pubblica, ai sistemi previdenziali), stanno attaccando i diritti e le tutele dei lavoratori dipendenti (dai contratti nazionali alle norme contro i licenziamenti ingiustificati), stanno distruggendo centinaia di migliaia di posti di lavoro (con migliaia e migliaia di licenziamenti per aumentare lo sfruttamento di chi conserva il posto), stanno strangolando le condizioni e i livelli di vita di milioni di persone (con salari sempre più bassi).

Finora in Italia l'azione di contrasto dei sindacati è stata troppo spesso assente, o addirittura complice dell'attacco padronale. In ogni caso tutte le misure antipopolari del governo Monti sono passate, senza una vera opposizione sindacale. Sul piano europeo si è seminata l'illusione che l'aggressione subita dai lavoratori degli altri paesi non ci riguardasse, e non riguardasse anche i lavoratori di tutto il resto del continente.

Il 14 novembre si mette in atto per la prima volta un tentativo di sciopero contemporaneo in numerosi paesi, si prova a lottare tutti insieme, lavoratrici e lavoratori di ogni paese contro gli stessi avversari (i governi, le banche, la BCE, la troika della UE).

La giornata del 14 novembre deve essere un'occasione per creare una unità e una convergenza con tutte e tutti coloro che lottano contro il governo e le sue politiche: in Italia con gli studenti e gli insegnanti che non vogliono la privatizzazione della scuola pubblica e in Europa con tutti i popoli che si oppongono ad analoghe misure di distruzione dei diritti e dello stato sociale.

Non lasciamo più indisturbato il governo e il padronato

nella loro aggressione alle nostre conquiste

No ad accordi che peggiorano le condizioni di lavoro e aumentano i profitti
Sì a un vero sciopero europeo
Sinistra Critica

martedì 6 novembre 2012

APPELLO PER UN'ASSEMBLEA CITTADINA

Giovedì si terrà al convitto Umberto I un'assemblea cittadina in vista delle prossime mobilitazioni europee e nazionali e della costruzione di una rete cittadina contro la crisi alla quale abbiamo aderito come Sinistra Critica - Torino. Di seguito l'appello con l'adesione delle diverse soggettività politiche, sindacali e sociali che vi hanno aderito.


Saluti anticapitalisti

GIOVEDI' 8 NOVEMBRE 2012- ORE 21.00 @ Via Bligny 1-Convitto nazionale Umberto I

Ogni lunedì, a Torino, operai, maestre, docenti, autisti, operatori sociali, genitori, studenti, migranti, disoccupati, comitati spontanei, sindacati di base, cittadini indignati si radunano, a turno, sotto il Comune.

Ogni lunedì, sempre a Torino, si svolge un consiglio comunale a porte chiuse, spesso protetto dalle forze dell’ordine, sempre sordo alle istanze e richieste che i cittadini torinesi portano in quella piazza e nelle strade della città.
Ci avevano raccontato che questa crisi era passeggera, che il buon governo l’avrebbe spazzata via ed ancora oggi i media provano a raccontarci che Torino ha un buon governo.

Ma l’andare del tempo ed il susseguirsi di misure inique, di tagli sconsiderati, di investimenti folli, ha messo in ginocchio questa città, le fasce più deboli della popolazione ed, oramai, mette a repentaglio la tenuta di ampi strati di popolazione.

Mentre la città veniva letteralmente (s)venduta da Chiamparino &Co. alla banca S.Paolo, assieme ai quattrini si smantellava progressivamente l’intero sistema di welfare che, grazie all’impegno ed alle lotte di tanti, si era riuscito ad ottenere sul territorio torinese.

Sussidi, assistenza socio-sanitaria, istruzione, edilizia popolare, borse di studio, e tutto il comparto welfare, ovvero la possibilità reale, pubblica, di sopportare le fatiche e il dramma di questa crisi, vengono smantellati attraverso tagli e ridimensionamento della cosiddetta spesa pubblica.

Tutto questo mentre scuole e ospedali cadono a pezzi, mentre si prevedono oltre 100.000 disoccupati tra il 2012 ed il 2013, mentre Torino diventa la capitale nazionale degli sfratti per morosità con sempre più famiglie che si organizzano per resistere e dare risposte immediate alle istituzioni.
Ma di tutto questo, chi comanda Torino, pare non preoccuparsene.

Il sindaco Fassino, sostenitore della linea Marchionne che di fatto ha quasi chiuso la Fiat (con tutto l'indotto), continua imperterrito a tessere le lodi di questa amministrazione. L’amministratore delegato Passoni continua sereno ad operare tagli ai servizi senza la benché minima opposizione politica e Chiamparino è oggi il tronfio presidente della Fondazione S.Paolo che decide ed orienta le politiche di sviluppo cittadino e la sua banca di riferimento continua a stabilire le politiche economiche di Torino in barba ad ogni parvenza di democrazia.

C'è un'altra faccia della medaglia, però. La scorsa primavera con le mille vertenze, lo scorso primo maggio con la cacciata del sindaco, hanno dimostrato che esiste un'altra città, attraversata da centinaia, migliaia di persone che hanno deciso di non abbassare la testa e di non accettare passivamente il quotidiano saccheggio della propria vita.

Esiste un'altra Torino che vede aldilà della disperazione, della sofferenza e della disillusione; che si riconosce in quelle piazze che da Madrid ad Atene, dalla Tunisia agli Stati Uniti, reclamano a gran voce diritti e giustizia sociale per tutti e tutte; che sa di far parte di quel 99% calpestato dall'ingordigia dell'1%; che vuole riappropriarsi dei propri bi-sogni e del proprio futuro.

E' a questa parte di città, a queste donne e uomini, che rivolgiamo l'appello a partecipare ad un'assemblea cittadina per mettere in relazione esperienze singole e collettive di resistenza all'austerity. Un primo momento per confrontarsi in vista delle mobilitazioni europee e nazionali, un'occasione per pensare una rete sociale metropolitana contro la crisi.

GIOVEDI' 8 NOVEMBRE 2012- ORE 21.00 @ Via Bligny 1-Convitto nazionale Umberto I

Verdi 15 Resiste

Operatori Sociali Non Dormienti

Csoa Askatasuna

Cub Torino

Cobas Torino

Si Cobas Torino

Comitato Disoccupati precari 5 giugno

Partito della Rifondazione Comunista-Federazione di Torino

Csoa Gabrio

Sinistra Critica Torino

Comitato 0-6.com

Comitato No Debito

Comitato di Quartiere Vanchiglia

Collettivo Universitario Autonomo

Unione Sindacale di Base (USB) Torino

Collettivo Studenti Autorganizzati

Immigrati Autorganizzati Torino



lunedì 5 novembre 2012

VIOLENZA E RAPPRESAGLIA SOTTO IL CIELO GRIGIO DEL LINGOTTO

di Franco Turigliatto



Arroganza, brutalità, violenza è questo il linguaggio che la direzione Fiat ha usato ripetutamente nel corso della sua storia e che Marchionne esprime oggi fino in fondo. Il padrone sono io e utilizzo come mi pare la forza lavoro e, se lo stato di diritto presuppone ancora il rispetto della legge e delle sentenze della magistratura, passo direttamente alla rappresaglia, al ricatto più brutale, per seminare il risentimento, la rabbia e lo scontro diretto tra i lavoratori.

La famosa lotta di classe si esprime con ferocia a senso unico, come avviene da molti anni a questa parte e Marchionne tira la volata a tutto il padronato per riaffermare il totale dominio del capitale sul lavoro, facendo a pezzi quello che diverse generazioni di lavoratrici e lavoratori erano riusciti a costruire di diritti conquistati, unità, solidarietà all’interno della classe operaia. C’è piena sintonia tra i nuovi padroni industriali e finanziari del vapore e i personaggi che occupano i posti del governo; appartengono alla stessa classe, il loro linguaggio esprime le stesse concezioni, la pretesa di essere veramente la casta intoccabile, l’upper class, depositaria di un diritto superiore e divino sulla base dei rapporti sociali capitalisti; quei rapporti sociali che garantiscono loro profitti e rendite e che essi vogliono difendere con le unghie e coi denti, a partire dal cosciente progetto di infliggere una sconfitta storica al movimento dei lavoratori sul vecchio continente.

Marchionne non avrebbe potuto commettere le infamie che ha già commesso e sta commettendo, calpestando norme costituzionali e leggi ordinarie, se non ci fosse stato il pieno sostegno, non solo dei suoi compari capitalisti, ma dei governi che si sono succeduti, delle istituzioni, della stragrande maggioranza dei partiti politici, del ruolo vergognosamente complice dei sindacati strapuntino e dell’inerzia colpevole della stessa CGIL. Per non parlare del ruolo dei giornali che sono da anni un braccio fondamentale del padronato nella sua guerra contro classe lavoratrice.

Di fronte a questa ennesima ferita ai diritti è necessaria una grande risposta, un movimento unitario contro la protervia della Fiat, ma anche contro tutti coloro, governo in primis, che stanno portando avanti un vero e proprio massacro sociale. Chiediamo alle organizzazioni sindacali una risposta all’altezza, una vasta campagna di tutti quelli che hanno a cuore le sorti della classe lavoratrice e della democrazia stessa per fare argine alla offensiva della Fiat e dei padroni. E questo argine va costruito ora; già troppo tempo è passato senza che ci fosse una risposta all’altezza dello scontro imposto dalla classe padronale. Non si può lasciare andare in giro impunemente Marchionne, non si può lasciare nelle mani degli Agnelli la più grande azienda del paese.

Marchionne è forte e violento contro chi è più debole, mentre invece non è altrettanto bravo a competere coi suoi simili, cioè con gli altri produttori di auto in Europa, dove la Fiat da anni soccombe. L’attacco a Pomigliano serve anche a mettere in secondo piano il “famoso piano di rilancio” che aveva preannunciato per la fine di ottobre e che si è rivelato ancora una volta un generico “bidone” insussistente.

Poco di nuovo infatti sotto il cielo grigio del Lingotto, dove l’ennesimo “piano produttivo” della Fiat-Chrysler, è ancora una volta il gioco dei modelli che vengono di anno in anno spostati da uno stabilimento all’altro, in un susseguirsi di vaghe promesse, che non possono certo rassicurare le lavoratrici e i lavoratori e dare indicazioni certe su quelli che saranno i reali insediamenti produttivi del futuro. Le novità, se ci saranno, sono ipotizzate per il 2015, 2016 privilegiando le gamme alte di modelli e puntando sulle esportazioni. C’è da chiedersi quale sarà il mercato europeo dell’auto tra qualche anno, per ora presidiato saldamente dalle case tedesche.

Marchionne promette che non chiuderà altri insediamenti produttivi in Italia dimenticandosi che, nel frattempo, ha chiuso Termini Imerese, l’Irisbus e la Cnh di Modena

Le uniche cose certe sono che il mercato europeo per la Fiat è oscuro, che le nuove produzioni sono rimandate sempre più in là, che il marchio Lancia sta per scomparire, ma soprattutto che molti altri anni di cassa integrazione e di redditi saccheggiati. attendono i lavoratori. Naturalmente anche solo per garantire loro questi salari da fame occorrerà che i soldi li metta lo stato con la cassa integrazione in deroga. E questa è un’altra certezza, che i soldi pubblici sono sempre i benvenuti e soprattutto richiesti come specificato nel velenoso comunicato stampa dell’azienda che chiama ancora una volta i sindacati complici a comportarsi da servi vigliacchi e sciocchi e ad attaccare, senza nominarla, la FIOM, colpevole di porre ostacoli “alle magnifiche sorti progressive” dell’azienda contro “gli interessi del paese e soprattutto degli stessi lavoratori”.

Gli utili per gli azionisti (1,2 miliardi), garantiti dall’attività in America, vanno abbastanza bene, ma l’azienda nel 2014 non raggiungerà i 6 milioni di vetture preventivate, ma si attesterà, secondo le previsioni di Marchionne solo a 4,8 milioni prodotte; in compenso l’indebitamento netto già alto (5,4 miliardi) è salito in soli tre mesi ai 6,5 miliardi.

Naturalmente Marchionne e Elkan fanno il loro gioco e i loro interessi, fortemente facilitati dal comportamento vergognoso di governo, partiti e media di pieno sostegno agli interessi privati degli azionisti dell’azienda, contro gli interessi dei lavoratori, dei territori interessati e del paese stesso.

In realtà siamo sempre al punto di partenza. L’impasse della più grande azienda italiana e le scelte dei suoi dirigenti pongono quattro ordini di problemi di primaria grandezza:

l’occupazione per molte decine di migliaia di lavoratori, anzi per molte centinaia di migliaia di considerando l’insieme del sistema produttivo delle automotive;

le ricadute che tutto questo ha sul tessuto produttivo e sulle regioni che ne sono più direttamente interessate;

la necessità di una indispensabile riconversione industriale (non si può continuare a produrre auto all’infinito); la crisi del mercato lo dimostra, ma soprattutto la impongono le esigenze ambientali e ecologiche;

la necessità quindi di un piano complessivo che ridisegni la mobilità, in un quadro di utilità pubblica, di compatibilità ambientali, di garanzia occupazionali e di reddito per tutte e tutti.

Pensare che tutto questo possano farlo dei privati è credere ai miracoli. L’intervento pubblico per cominciare anche solo ad affrontare questi problemi è inevitabile e necessario. Lo è perché in ogni caso lo stato è chiamato a mettere i soldi per gli ammortizzatori sociali per garantire gli interessi padronali e la “pace sociale”. Ma allora tanto vale utilizzare i soldi pubblici ad un livello anche più cospicuo, per dare una soluzione complessiva all’insieme delle sfide prima richiamate.

E’ per queste ragioni di fondo che il nodo dell’esproprio della Fiat è posto; questa azienda va sottratta agli interessi di famiglia Agnelli e soci e posta sotto il controllo pubblico, o, per meglio dire, sotto controllo sociale, cioè sotto il controllo dei diretti interessati, lavoratrici e lavoratori, ingegneri, organizzazioni sindacali, territori, per costruire insieme questo reale piano alternativo, che risponda ai diversi bisogni ed esigenze. E questo è ancora più necessario alla luce delle scelte violente e antidemocratiche della direzione e della proprietà attuale della Fiat

Si dirà che non ci sono le condizioni: non c’è la consapevolezza dell’opinione pubblica, né l’attenzione dei protagonisti, i rapporti di forza, ma, dentro la grande crisi e di fronte alle sfide drammatiche poste, i fatti, le coscienze, i rapporti di forza possono anche cambiare. Ai sindacati che vogliono difendere gli interessi dei lavoratori, alle forze politiche che pretendono di essere sulla stessa lunghezza d’onda chiediamo, perché ne hanno il dovere, di mettere in campo tutti insieme una vasta campagna politica e sociale per sostenere che la Fiat, e con essa, tante altre aziende, sono un “bene comune” e in quanto tali vanno difese, devono diventare di proprietà pubblica e sociale riconvertite in funzione dei bisogni della collettività.