mercoledì 30 gennaio 2013

SEMINARIO SABATO 16 FEBBRAIO 2013

Via Santa Giulia n. 64 - 2° piano


Politiche europee e scelte alternative

Alcuni temi fondamentali per comprendere quanto sta succedendo e cosa ci aspetta nell’immediato futuro con il governo che si formerà dopo le elezioni restano nell’ombra del confronto politico di questa campagna elettorale.
Il dibattito che si sta sviluppando intorno alle elezioni è per molti versi poco interessante e vergognoso per le falsificazioni e per le accuse reciproche che si
lanciano i leader dei principali schieramenti politici (Monti, Berlusconi e Bersani) i quali sono semplicemente accomunati dalla responsabilità e dalla complicità nel massacro sociale che si sta producendo nel nostro paese.

A noi invece interessa discutere da una parte delle prospettive economiche e politiche europee e dall’altra delle problematiche dell’intervento pubblico, indispensabile per noi di fronte ad una crisi economica così dirompente.
È proprio per dare sia maggiori elementi di comprensione e di proposta per affrontare l’attuale dibattito che per preparare le battaglie politiche e sociali che ci aspettano dopo il 24 e 25 febbraio che abbiamo deciso di organizzare su questi temi un momento di approfondimento seminariale aperto alle/agli iscritte/e, alle/ai nostre/i simpatizzanti, alle/ai nostre/i interlocutrici/tori e a tutte/i coloro che sono interessate/i.

Sabato 16 febbraio 2013 dalle ore 9,30 alle ore 13

La situazione economica e sociale europea

Si affronteranno questi temi:
- Evoluzione e prospettive della crisi economica

- Le scelte politiche e strategiche delle borghesie europee

- I movimenti di resistenza, a partire dalla vicenda greca

- Le proposte politiche delle organizzazioni della sinistra in Europa.

Il dibattito sarà introdotto dalle relazioni di Franco Turigliatto e Gippò Mukendi

Sabato pomeriggio 16 febbraio dalle ore 14,30 alle ore 18

Una politica economica alternativa: intervento pubblico e nazionalizzazioni.

Saranno affrontati i seguenti temi:

- ristrutturazioni, delocalizzazioni e chiusure delle aziende

- le risposte alternative per la difesa dell’occupazione

- nazionalizzazioni, intervento e controllo dei lavoratori

Il dibattito sarà introdotto da una relazione di Antonio Moscato

Sarà disponibile durante l’intervallo un servizio di ristoro a un prezzo popolare.

Vi proponiamo anche una bibliografia limitata, ma essenziale per introdursi al dibattito.
 Si tratta di testi facilmente reperibili sul sito www.sinistracritica.org, sulla Rivista Erre e sul blog Movimento operaio di Antonio Moscato .
Uscire o non uscire dall’euro? di Husson sul sito di Movimento operaio

L’Europa sull’orlo del precipizio di Husson sul sito di Movimento operaio

Economia politica del “sistema euro” di Husson su Erre n. 50

Banche contro popoli: i retroscena di una partita truccata di Toussaint sul sito di SC

L’Europa, la crisi, la sinistra di Antentas su Erre n. 51

Debito, e se si smettesse di pagare di Tanuro sul sito di SC

La conferenza nazionale di Syriza di Petru sul sito di SC

La crisi della Fiat e la necessità della nazionalizzazione di Turigliatto sul sito di SC

A proposito di nazionalizzazioni di Moscato sul sito di SC

Senza esproprio la vertenza Ilva è in un vicolo cieco di Bellavita sul sito di SC

Ilva. Cronaca di una lotta di Maresca su Erre

Il debito è pubblico, l’affare è per le banche di Cannavò sul sito di SC

Per una nuova finanza pubblica di Marco Bersani sul sito di SC

lunedì 28 gennaio 2013

Elezioni politiche 2013: Comunicato del Coordinamento Nazionale di Sinistra Critica

SC bandiere
Pubblichiamo il documento approvato dal Coordinamento Nazionale di Sinistra Critica a proposito del voto del 24 e 25 febbraio.

Le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio sembrano costituire una vera e propria anomalia nella storia politica del nostro paese.

Lo scontro che si è acceso tra i tre principali schieramenti punta a nascondere all’attenzione degli elettori e delle elettrici il fatto che tutti e tre hanno sostenuto nel recentissimo passato il governo Monti che si è caratterizzato durante tutti i suoi 14 mesi di vita per un’ininterrotta e feroce aggressione ai diritti e a tutte le principali conquiste delle classi subalterne: la distruzione della previdenza pubblica (con la peggiore controriforma pensionistica di tutta Europa), l’annullamento dell’articolo 18 e la reintroduzione della libertà di licenziamento arbitrario, la controriforma degli ammortizzatori sociali, le disposizioni per la svendita del patrimonio pubblico e dei servizi, i tagli lineari agli enti locali, allo stato sociale, alla scuola e alla sanità pubbliche, gli aumenti delle imposte a carico dei redditi più bassi, le misure che hanno creato le condizioni per il crescere dello sfruttamento e della disoccupazione di massa e per il diffondersi della povertà sono state tutte approvate con il sostegno dei partiti di Berlusconi, Bersani, Monti e Casini.

Questi partiti, inoltre, hanno approvato norme e trattati che vincolano il nostro paese a sottostare ai diktat della Troika comunitaria, accettando che tutti i prossimi decenni siano segnati da tagli feroci alla spesa pubblica e ai diritti. Sostengono il fiscal compact e la controriforma costituzionale sul pareggio di bilancio.
Ovviamente anche SEL, per stipulare la sua alleanza strategica e strutturale con il PD, pur non avendo partecipato alla legislatura che si sta concludendo, ha solennemente sottoscritto un impegno al mantenimento di tutti gli impegni europei (e infatti Vendola si dice pronto a collaborare con Monti “sulle riforme costituzionali”, come se questa non fosse un’aggravante).

Quello che dicono questi partiti sul lavoro, sullo sviluppo, sull’equità, sui servizi pubblici, dunque, costituisce una pura ipocrisia elettoralistica per ingannare l’elettorato popolare. Ma in fondo questa sostanziale identità tra i principali schieramenti non avviene per la prima volta, è anzi il tratto distintivo degli ultimi 15 anni.

Questi sono i partiti dell’austerità.

Le liste del “Movimento 5 stelle”, che da qualche anno costituiscono una effettiva novità del panorama politico elettorale, si propongono come unica alternativa basando la propria capacità di presa sull’elettorato su una secca denuncia del carattere parassitario e corrotto della “casta” e cavalcano efficacemente il disprezzo nutrito da ampi settori popolari nei confronti dei politici.

Ma queste pur giuste denunce omettono le responsabilità di chi è realmente fautore delle attuali politiche di austerità: stiamo parlando dei banchieri, dei grandi imprenditori e finanzieri che dopo aver sfruttato ai propri fini le connivenze dei politicanti, oggi sfruttano il malcontento di massa anche per smantellare la politica come luogo del confronto democratico e di costruzione della partecipazione e del consenso. Non a caso Grillo ha strutturato il “suo” movimento in modo totalmente verticistico, con un suo potere assoluto di assenso e di veto su ogni scelta politica. Non a caso le sue critiche ai sindacati non si rivolgono contro il loro carattere burocratico ma piuttosto contro un loro presunto ruolo di intralcio allo sviluppo economico, mentre la disinvoltura nell’assecondare gli umori della piazza lo hanno portato ad ambigue proposte sui diritti degli immigrati e ad equivoci apprezzamenti di una organizzazione fascista come CasaPound.

Di fronte a questo desolante panorama, durante gli ultimi mesi del 2012 si era sviluppato nel paese un movimento di opinione con l’obiettivo di costruire una proposta elettorale nettamente e apertamente alternativa a tutti gli schieramenti che nel corso degli ultimi decenni si sono succeduti al governo.

Attorno all’appello “Cambiare si può” si erano raccolte migliaia di cittadine e di cittadini, di militanti politici, sindacali, ambientalisti, di movimento che, in un processo assembleare fortemente partecipato, hanno delineato la possibilità che quella proposta alternativa vedesse la luce e si sperimentasse nelle prossime elezioni.

Ma le contraddizioni interne al gruppo dei promotori dell’appello e, soprattutto, l’assalto elettoralistico di partiti come il Prc, il PdCI, l’IdV e i Verdi, spaventati dall’idea di non poter nuovamente sedere in Parlamento, hanno fatto approdare quel processo ad un esito che ha gravemente deluso le attese. La successiva costruzione delle liste dei candidati – nella quale spicca una imbarazzante scarsissima presenza di donne – ha confermato questo pessimo metodo, basato sullo scambio tra i partiti e sulle “promozioni” di “esponenti della società civile” direttamente scelti da Ingroia e dal suo enturage. Numerosissimi sono stati coloro che di fronte a questo esito si sono disimpegnati dal sostegno militante ma spesso anche solo elettorale alla Lista Ingroia.

Anche in seguito alla valutazione negativa su questo esito, Sinistra Critica, che pure era intervenuta con convinzione nelle due assemblee nazionali e in decine e decine di assemblee locali per sostenere il processo e le sue caratteristiche radicali e alternative, ha deciso il 28 dicembre di non partecipare al progetto elettorale e quindi di non partecipare ad alcuna “trattativa” per la definizione delle liste, né di proporre alcun/a candidata/o.
Nella risoluzione del Coordinamento nazionale si diceva che “un’eventuale nostra indicazione di voto a favore della lista in gestazione sarà verificata sulla base delle liste e del profilo politico definitivo della coalizione”.

Ora il profilo politico della lista “Ingroia – Rivoluzione civile” è sostanzialmente definito e, pur avendo assunto tra i propri punti alcune delle proposte di “Cambiare si può” esso mantiene tutta la sua ambiguità, un’impostazione aclassista e un asse imperniato unicamente nella lotta alla criminalità, come fosse la sola responsabile delle politiche di austerità e antipopolari: caratteristiche che non possiamo certamente sostenere.

Oltretutto la Lista Ingroia continua a mantenere un atteggiamento di fondo ambiguo nei confronti del PD cercando con esso un’interlocuzione sui programmi; questa disponibilità politica si è manifestata anche nel malcelato tentativo di aprire una trattativa con Bersani per una qualche forma di desistenza nelle liste per il Senato.

Quanto alle liste, infine, esse sono state composte senza alcuna partecipazione dal basso, in una trattativa a tavolino tra i partiti contraenti e i personaggi più in vista della coalizione. La presenza nelle teste di lista di tre ex ministri di governi di centrosinistra responsabili di politiche socialiberiste e perfino di azioni di guerra in Afghanistan e nei Balcani, e di una pletora di politicanti mascherati da “società civile” rischia di annullare il valore di un pur importante numero di candidate/i espressione di movimenti politico-sociali.

Per questo Sinistra Critica non appoggerà né in forma diretta né indiretta la lista “Ingroia – Rivoluzione civile”.

Sinistra Critica in queste elezioni non sosterrà quindi alcuna lista né darà alcuna indicazione di voto seppure critico, pur senza impegnarsi in una campagna astensionistica, e non presenterà proprie liste alle elezioni, ritenendo che su questo terreno non esistano oggi le condizioni, né politiche né organizzative, per una presentazione autonoma né per una presenza anticapitalista più ampia efficace e nuova. Questa presenza va costruita più che mai sul piano delle lotte e dei movimenti sociali, affinché questi possano dare vita a una forte risposta sociale e politica alla violenza dell’attacco della classe dominante.”
L’organizzazione spiegherà con tutti gli strumenti possibili a tutte/i le/gli nostre/i interlocutrici/tori le ragioni di questa scelta.

In ogni caso, siamo certi, purtroppo, che il futuro governo che nascerà dopo le elezioni di fine febbraio, qualunque esso sia, lancerà una nuova fase di politica di austerità sulla base dei diktat della Troika e della Confindustria. Sinistra Critica, perciò, continuerà in tutte le sedi il suo impegno per costruire un movimento di lotta e di resistenza contro queste politiche. Sarà questo il nostro compito fondamentale in tutta la prossima fase.

Roma, 24 gennaio 2013

Coordinamento Nazionale di Sinistra Critica



mercoledì 23 gennaio 2013

Mali : l’Italia in un’altra guerra

Dichiarazione del Coordinamento nazionale di Sinistra Critica


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Dopo le guerre “che esportavano democrazia”, quelle “umanitarie”, le cosiddette “operazioni di polizia internazionale” siamo alla guerra “tecnica contro il terrorismo globale”. La guerra dei “tecnici” al governo con l’appoggio di centrodestra e centrosinistra. Un governo dimissionario che dovrebbe occuparsi solo “dell’ordinaria amministrazione” ha già deciso il sostegno politico e logistico alla guerra francese in Mali. Evidentemente la guerra è diventata di “ordinaria amministrazione”. Il sostegno logistico italiano all’intervento francese in Mali, con la messa a disposizione di corpi speciali e della base militare in Sicilia, non è una semplice “cooperazione militare”. E’ l’occasione per partecipare all’ennesima avventura neocoloniale in Africa.

Prima si sono devastati economicamente e socialmente i paesi africani con le famigerate politiche di “aggiustamento strutturale” imposte dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario internazionale, si è stretto il cappio del debito con tassi di interesse insostenibili poi ci si presenta come “salvatori” a bordo dei cacciabombardieri. Il governo socialista francese, in continuità con i precedenti, non ha nessuna intenzione di venir meno al proprio ruolo di gendarme nell’Africa subsahariana. L’Algeria, in posizione subordinata alla Francia, concede lo spazio aereo ai cacciabombardieri e mira ad allargare la sua influenza intervenendo militarmente provocando un massacro di ostaggi.

L’Italia non vuole essere esclusa dalla possibilità di partecipare al saccheggio delle risorse naturali del Mali e del vicino Niger, di avere voce in capitolo nel controllo politico di quei governi africani, di testare sul campo nuove tecnologie militari, di essere sempre in prima fila nelle guerre della NATO e della UE per “salvaguardare” il suo ruolo e la sua presenza internazionale. Dopo i massacri iracheni e afgani si apre un nuovo teatro di guerra con la scusa di debellare il pericolo “dell’islam jihadista” dopo averne, nei fatti, favorito l’insediamento nel nord del Mali.

Il Forum sociale mondiale tenutosi nel 2006 in Mali, a Bamako (nella foto), aveva avviato in quel paese un processo di ricomposizione sociale e associativo con la speranza di combattere le politiche di rapina esterne e la corruzione interna. Il governo, con il sostegno dei paesi europei (Francia in prima fila), degli Usa e della Cina, lo ha ostacolato, represso e infine neutralizzato. Questa è la situazione e chi ne farà le spese, ne sta già facendo le spese, con morte, distruzione e repressione saranno ancora una volta le popolazioni civili. Come in Iraq e in Afghanistan non è attraverso l’intervento militare che le popolazioni del nord del Mali verranno liberate da ogni fondamentalismo. La crisi incombe e non si vedono soluzioni credibili, ed ecco che riappare l’opzione militare, l’economia a mano armata. Si taglia tutto, dalle pensioni all’istruzione ma non la produzione dei caccia F35, del satellite Sicral, dell’elicottero Combact Sar, dei sommergibili U212; si continuano a finanziare le missioni militari all’estero con tutto il carico di morte e distruzione al seguito; e intanto il ministro “tecnico” Di Paola ottiene un disegno di legge che garantirà alle forze armate italiane certezza di finanziamenti per il prossimo decennio.

Sinistra Critica è totalmente contraria a qualsiasi sostegno italiano (politico o militare) alla guerra francese in mali; sostiene le forze progressiste maliane che si oppongono alla guerra schierandosi con decisione per l’immediato e completo ritiro delle truppe italiane da ogni scenario di guerra a partire dall’Afghanistan; è per una drastica riduzione delle spese militari; per lo scioglimento dei corpi speciali di pronto intervento, per la chiusura delle basi militari italiane all’estero e di quelle straniere in Italia; per l’uscita dell’Italia dalla Nato .

Non è questo mondo che vogliamo, ne vogliamo un altro.




Per una nuova finanza pubblica



di Marco Bersani da “il manifesto” del 23 gennaio 2013

La miglior dimostrazione della crisi verticale della democrazia rappresentativa è ancora una volta data dalla disarmante campagna elettorale ormai entrata nel “vivo”.
Dopo tre anni passati a inculcare negli italiani la centralità del debito pubblico, la sacralità dello spread e la bontà necessaria delle politiche di austerity, ecco tutti coloro che si candidano a governare immersi di nuovo nel gioco topografico del “chi si allea con tizio, giammai con caio”, rigorosamente esibito all’interno del binomio palazzo/talk show.

Quasi certo l’esito di questo gioco: chiunque ne uscirà vincitore, dopo l’usuale annuncio di voler governare per il bene del Paese, dirà che il problema del debito pubblico è centrale, che sarà necessaria una manovra aggiuntiva per tenere sotto controllo lo spread e che l’approfondimento delle politiche di rigore servono alla credibilità del paese in Europa.

E ripartirà il mantra de “I soldi non ci sono” da ripetere ossessivamente per bloccare ogni rivendicazione o vertenza aperta nel Paese.

Ma la crisi e le sue vie d’uscita sono davvero quelle che ci raccontano? E’ vero che i soldi non ci sono o il mantra serve solo ad inculcare che i sacrifici sono necessari e che, se anche non crediamo più che “privato è bello”, come il referendum sull’acqua ha ampiamente dimostrato, divenga chiaro a tutti che “privato è obbligatorio e ineluttabile”?

E’ questo il nodo centrale che i movimenti devono assumere come elemento sostanziale per un’altra uscita dalla crisi e per la costruzione di un nuovo modello sociale, che parta dalla riappropriazione dei beni comuni, da una produzione ecologicamente e socialmente orientata e da diritti universalmente garantiti.

Occorre risalire la corrente e passare dal conflitto a valle alla riappropriazione delle decisioni a monte: l’aumento esponenziale del debito è colpa dell’italica esagerazione negli stili di vita o è dovuta a scelte politico-economiche dettate unicamente dal garantire ai grandi capitali finanziari assets su cui investire con lauti guadagni? Se il debito è di tutti, abbiamo o meno diritto ad un’audit pubblico e partecipato – locale e nazionale – che ne ricostruisca la genesi e ne qualifichi le parti illegittime ed odiose da non pagare? Se i soldi non ci sono, perché i 230 miliardi di risparmio postale consegnato ogni anno a Cassa Depositi e Prestiti non possono essere utilizzati per permettere ai Comuni investimenti a tassi calmierati, collettivamente decisi dalle comunità locali? Perché non vengono destinati a finanziare le politiche di ripubblicizzazione del servizio idrico e dei servizi pubblici locali, in accordo con il voto referendario? Perché non indirizzarli al sostegno di percorsi di autogestione industriale da parte delle comunità di lavoratori in lotta nelle aziende, chiuse da chi preferisce l’investimento sui mercati finanziari?

A queste e a molte altre domande cercheremo collettivamente di rispondere sabato 2 febbraio a Roma, ore 11-17, presso il Teatro Valle Occupato. Il comitato per una nuova finanza pubblica lo farà con il movimento per l’acqua, con i movimenti per i beni comuni, con i coordinamenti per la casa e per la sanità, con i comitati territoriali per l’audit, con i sindacati, con le reti e le esperienze di altra economia.
E con tutte le donne e gli uomini di questo Paese che hanno capito di come si tratti semplicemente di riappropriarsi della democrazia.

http://www.perunanuovafinanzapubblica.it/news/assemblea-una-nuova-finanza-pubblica



lunedì 21 gennaio 2013

Senza esproprio la vertenza ILVA è nel vicolo cieco

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di Sergio Bellavita (Fiom nazionale)

La vicenda Ilva ha sempre più dell’incredibile. Il Governo dopo aver garantito 36 mesi di impunità ai Riva con il vergognoso decreto ad hoc che ritiene lecito inquinare e uccidere, si piega nuovamente alla banditesca proprietà che minaccia di non pagare gli stipendi, sino a paventare la chiusura, qualora non rientri in possesso subito dell’acciaio prodotto in violazione dell’ordinanza della magistratura Tarantina. I Ministri del Governo Monti pretendono ora che i giudici semplicemente la smettano di opporsi, come legittimamente stanno facendo, al decreto legge e riconsegnino la merce.

Quello che più volte abbiamo paventato sta purtroppo accadendo. I Riva non hanno alcuna intenzione di investire nel futuro dello stabilimento Tarantino. Governo, istituzioni e sindacati lo sanno bene. La questione salute,sicurezza e ambiente è semplicemente derubricata. Si finge che la soluzione sia lo sblocco delle merci e il rispetto del decreto per garantire il risanamento e le produzioni.

Intanto si prende tempo garantendo così a Riva di rubare alla città ulteriori risorse senza nessuna garanzia. Eppure la storia di questi ultimi vent’anni e del sistema corrotto costruito intorno all’Ilva dovrebbero aver chiarito a tutti la natura della vocazione industriale e l’affidabilità dei Riva. E’ evidente che è meno costoso corrompere, chiudere occhi e tenere a freno lingue piuttosto che risanare e investire, soprattutto se il Governo garantisce la proprietà sino a delegittimare i giudici. Gli unici, guarda caso, che hanno concretamente agito a tutela della vita dei lavoratori e delle popolazioni. Invece pare che i Riva, oltre all’impunità, possano godere persino di risorse pubbliche per proseguire a inquinare e uccidere. Così lo stesso libero mercato che impedirebbe la nazionalizzazione dell’Ilva, consentirebbe tuttavia di ingrossare con i nostri soldi il gruzzoletto dei profitti illeciti dei Riva. Uno strano concetto di intervento pubblico in economia! Tutto ciò è inaccettabile!

Occorre da subito assumere, così come lanciato da settori di lavoratori Ilva, la battaglia per l’esproprio e la nazionalizzazione dell’acciaieria, cosa ben diversa dal concedere ulteriori danari pubblici e prestiti ai Riva! Le risorse che il pubblico potrà investire, solo dopo l’assunzione piena della proprietà, consentiranno di predisporre un grande piano di risanamento ambientale, di adeguamento del ciclo produttivo sostenuto dall’intervento degli ammortizzatori sociali per garantire così occupazione, salute, ambiente e reddito. Non vi sono altre alternative credibili, solo lo stato ha le risorse adeguate per risanare l’Ilva. Nessun privato affronterebbe costi così elevati, non remunerativi, per impianti in attività. La vertenza Ilva, per queste ragioni, ha assunto, soprattutto in questa fase di crisi, una valenza generale. O si afferma un intervento pubblico che rimette al centro l’ambiente, i diritti, i bisogni degli uomini e delle donne anche attraverso una nuova politica industriale o passetà la logica che il pubblico in economia è esclusivo appannaggio dei profitti privati e che, su questa via, è pronto a dichiarare guerra a magistrati, diritto e costituzione, trovando tanti, troppi disposti a indossare l’elmetto. Il rischio concreto è che di fronte all’impossibilità di arrestare i giudici la vertenza giunga in un vicolo cieco grazie all’incapacità di tutti i soggetti di produrre risposte concrete, di affrancarsi dall’ideologia dominante che impedisce loro persino di prendere in considerazione l’unica vera possibile soluzione per salvare lo stabilimento: la nazionalizzazione. La Costituzione lo consente. L’alternativa a questa battaglia sociale è la guerra tra poveri ed una sommossa violenta contro i giudici.



La crisi della Fiat e la necessità della nazionalizzazione

Fiat Tychydi Franco Turigliatto.

Ancora non molti anni fa, di fronte alla situazione produttiva e occupazionale del gruppo Fiat e dell’irrisolta e sempre più drammatica condizione dell’Ilva di Taranto e quindi del settore siderurgico, i partiti politici in corsa per le elezioni e il governo si sarebbero sentiti in dovere di avanzare le loro proposte di intervento, un loro progetto di “politica industriale”. In fondo si tratta di due rami produttivi fondamentali della struttura economica del nostro paese, decisivi per la cosiddetta “azienda Italia” e la sua competitività, di cui si riempiono quotidianamente la bocca giornalisti ed esponenti politici; aziende che occupano ancora direttamente decine e decine di migliaia di lavoratori e indirettamente altre centinaia di migliaia nel loro indotto.

Non è così: i duri scontri elettorali si giocano naturalmente su altri terreni meno impegnativi e insidiosi, vista la natura delle principali forze in campo tutte ferventi devote del fiscal compact e della difesa della proprietà privata, quest’ultima più che mai preservata dai successivi decreti del governo sull’Ilva, a dispetto del comportamento criminoso dei suoi padroni, a cui era stata vergognosamente regalata dallo stato stesso.

Da manuale poi il comportamento di Bersani e del suo responsabile economico, il sinistro Fassina, che mentre alzano leggermente i toni sul lavoro per accattare qualche voto in più, contemporaneamente si precipitano a farsi intervistare dal Washington Post e dal Financial Times, per rassicurare la borghesia internazionale, industriale e finanziaria che saranno rispettosi fino in fondo delle scelte liberiste dell’Unione europea che strangolano le classi lavoratrici del continente.

Ma proprio le vicende Fiat e Ilva renderebbero invece possibile una forte campagna per una nuova politica economica, un nuovo forte intervento industriale dello stato, di fronte alle evidenti incapacità e nefandezze padronali e al funzionamento del sistema capitalista. Anche solo una forte denuncia dei mali del capitalismo sarebbe un passo avanti, un elemento di reale politicizzazione di una classe lavoratrice schiacciata sotto il peso dell’offensiva padronale e confusa nell’individuare, prima ancora degli obiettivi rivendicativi, quali siano i suoi nemici. La lista Ingroia e le forze che lo sostengono dimostreranno o meno la loro vitalità dall’assunzione di questa tematica politica strategica.

La situazione del comparto auto in tutta l’Europa è disastrosa; è un settore che già prima dello svilupparsi della crisi economica conosceva forti tensioni, in un contesto di grandi sovracapacità produttive e di acuta concorrenza tra le case produttrici; l’approfondirsi della recessione, strettamente correlata alle politiche di austerità praticate in tutti i paesi del continente che hanno ridotto drasticamente il reddito di vastissimi settori della popolazione, non poteva che determinare il crollo delle vendite di un bene durevole costoso, come è il prodotto auto; ed in particolare questa caduta non poteva che manifestarsi nel settore dei modelli medio bassi, delle utilitarie, mettendo in difficoltà le aziende che li producono maggiormente, Fiat in testa, ma anche Renault e PSA (Peugeot) e la stessa Opel.
I dati sono impietosi. Dopo i dati assai negativi degli anni precedenti il mercato delle auto nel 2012 precipita dell’8,2%, cioè il maggior ribasso annuale dal 1993, con una domanda che si colloca al livello del 1995. Naturalmente come in tutti questi ultimi anni a fare peggio è la Fiat con un – 15,8% e, tra i diversi paesi, quelli maggiormente in discesa sono la Spagna (-13,4%) e l’Italia (-19,9), maggiormente colpiti dalla crisi (Grecia e Portogallo possono quasi essere considerati fuori classifica), ma anche la Francia (-13,9%), mentre la Germania limita a un -2,9% la contrazione delle immatricolazioni e la sola Inghilterra risulta in controtendenza con un contenuto incremento del 3,7%.

A pagare naturalmente sono i lavoratori. In Francia la PSA, già la scorsa estate, aveva annunciato migliaia di licenziamenti ed oggi anche la Renault propone una riduzione di personale di 7.500 unità su 54.000 addetti.

In questo quadro a dare il peggio di sé è ancora la Fiat e il suo amministratore delegato, molto bravo, come il più consumato degli odiati “politici”, ad esternare, a fare la vittima, a negare l’evidenza dei fatti, per giustificare il fallimento dei suoi marchi in Europa, ma soprattutto per costruire l’ennesima cortina fumogena sul Piano Fabbrica Italia, mai realmente esistito, che di congiuntura in congiuntura negativa, cambia volto e si nasconde dietro nuove promesse su siti produttivi, modelli, occupazione, in una girandola di parole che hanno il solo scopo di nascondere la realtà vera, quello della cassa integrazione, dei lavoratori a casa, della chiusura di fabbriche e della riduzione dei posti di lavoro.

Nel mese di dicembre la Fiat ha licenziato 1.450 operai della fabbrica di Tychy in Polonia, fabbrica fino a poco tempo fa considerata tra le più dinamiche, con i sindacati messi in ginocchio, obbligati a firmare l’accordo sui licenziamenti nel disperato tentativo di contrattarne almeno le modalità.

In Italia Marchionne ha chiuso tre fabbriche, Termini Imerese, Irisbus, Cnh Imola e quasi nessuno più ne parla. Non male.

Mirafiori lavora a singhiozzo ormai da anni senza nessuna certezza con i progetti di future produzioni modificati di volta in volta quando arriva la verifica delle precedenti promesse. Molti lavoratori non varcano i cancelli da mesi e quando li varcano è per lavorare due o tre giorni in un mese.

La nuova Pomigliano era una rilucente promessa: lavoro certo in cambio di un contratto di merda e di un supersfruttamento. Risultato finale: non solo sono esclusi dal rientro i lavoratori che appartengono alla Fiom e ai sindacati di base (e solo la magistratura prova in punta di diritto a farne rientrare qualcuno), ma quelli rientrati non sfuggono nuovamente a periodi di cig; infine, in questi giorni, i sindacati strapuntino firmano e “riconoscono” che per più di 2.000 lavoratori non ci sono “le condizioni oggettive” per rientrare in fabbrica; come esplicita il testo firmato “obbiettiva impossibilità di ulteriori incrementi di organico di fabbrica Italia Pomigliano”.

Infine piomba come un fulmine la cassa integrazione su quella che da tempo, per la sua modernità, è considerata la fabbrica trainante in Italia, Melfi; anche in questo sito viene annunciata una cassa integrazione per due anni (se pure per ora presentata a rotazione) per migliaia di lavoratori, in attesa delle riconversioni produttive del modello.

Sovente i giornali disegnano una cartina del mondo con le aziende della Fiat piazzate nei diversi paesi. Ed è così: un padrone che, con la cartina davanti, sulla base del mercato mondiale e degli interessi dei proprietari (e questi interessi ormai si sono cristallizzati nel nord America; non è la Fiat ad aver integrato la Chrysler, ma esattamente il contrario), muove le sue pedine, chiude, ristruttura, licenzia i poveri fanti, sposta le produzioni in base a considerazioni economiche e produttive, ma anche in base a considerazioni politiche, là dove i governi sono disposti a dare sempre di più all’azienda, dove i sindacati sono totalmente subordinati per garantire il supersfruttamento dei lavoratori. Naturalmente deve tener conto anche del comportamento degli operai, dei rapporti di forza che questi sono capaci di produrre. I lavoratori serbi sono riusciti ad ottenere consistenti aumenti salariali di fronte a una situazione produttiva assai favorevole, ma questo era avvenuto qualche anno fa anche in Polonia, salvo poi verificarsi un mutamento radicale della situazione.

Il dramma è che di fronte a questa possibilità e capacità del padrone di agire sovranazionalmente e di operare il “divide et impera” dei lavoratori non c’è uno straccio di coordinamento internazionale della classe lavoratrice e delle sue organizzazioni sindacali, i cui dirigenti hanno scelto consapevolmente o, nel migliore dei casi, pensando che non ce ne fosse la forza, di non mettere avanti la solidarietà, l’unità di un fronte operaio per fronteggiare l’attacco e le scelte padronali.

Per tornare in Italia, per sostenere le lavoratrici e i lavoratori sarebbe necessaria una vigorosa campagna delle forze della sinistra per rivendicare l’intervento pubblico, anzi la nazionalizzazione della Fiat e dell’Ilva perché non abbiamo paura di chiamare le cose col loro nome, incuranti che questo termine sia diventato un tabù, non solo e non soltanto per alcune esperienze passate di cattiva gestione delle aziende pubbliche, ma per la campagna ideologica che da decenni è stata fatta per magnificare la proprietà privata e denigrare qualsiasi ipotesi alternativa basata sulla “autogestione dei produttori”. Solo questa soluzione potrebbe dare risposte certe in termini di difesa dell’occupazione, riconversione delle produzioni, garanzie di rispetto ambientale e di salvaguardia dell’interesse collettivo. (Vedasi A proposito di nazionalizzazioni di A. Moscato)

Questa proposta viene avanzata da Sinistra Critica; la difende anche una organizzazione come il Pcl; ma servirebbero voci più forti: difficile che Vendola, anche se si reca a fare campagna elettorale a Melfi, si metta su questo terreno perché il suo obbiettivo è di assicurare un cospicuo numero di seggi per i suoi, realizzabile solo con la subalterna alleanza col PD; potrebbe farlo, se si impegnasse, ma chissà se ne ha il coraggio, Rifondazione. Sul piano sindacale sembra improbabile che Susanna Camusso, impegnata a sostenere il PD, si riconverta su questo terreno; ma potrebbe e dovrebbe farlo la Fiom, che anzi ne avrebbe la necessità. Se i suoi dirigenti nell’accesso ai media, che ancora è loro permesso, la avanzassero con forza, potrebbe diventare un tema nazionale.

La Fiom si è schierata con le scelte di difesa ambientale della magistratura tarantina e ha denunciato la drammatica situazione della Fiat (vedi la pagina: http://www.fiom.cgil.it/), chiedendo anche giustamente che il governo convochi un tavolo nazionale e che le forze politiche candidate al governo dicano cosa propongono per il futuro del settore automotive, ma la sua recente assemblea dei delegati ha avuto difficoltà ad identificare un percorso di lotta senza il quale è difficile che queste richieste possano avere risposta positiva e inoltre il suo gruppo dirigente ha respinto le proposte più pregnanti e stringenti della sua componente di sinistra.

Al di là di queste grandi difficoltà, difficoltà in primo luogo della condizione delle lavoratrici e dei lavoratori nelle diverse aziende del gruppo, sottoposti a un regime di sfruttamento infame e a non meno vergognosi ricatti, su cui nessun dirigente istituzionale e politico interviene e che sono anzi passati sotto silenzio, siamo anche convinti che la drammaticità delle prossime scadenze, riproporranno la necessità di un obiettivo che coniuga la difesa del lavoro con una rivendicazione più avanzata. Bisognerebbe però che la sinistra tutta, sindacale e politica con un’azione unitaria e coerente aiutasse i lavoratori a trovare il più rapidamente possibile la strada di nuovo protagonismo e la fiducia in se stessi e nella lotta.



sabato 12 gennaio 2013

Cambiare si può

Salvatore Cannavò

A 10 anni dalla fondazione della rivista Erre, nata al Social forum europeo di Firenze del 2002, è giusto cambiare. I cambiamenti e rinnovamenti che invochiamo nella politica e nella sinistra, vanno fatti anche in prima persona. L'editoriale del n. 51 di Erre.

(da Erre n. 51)

Questa rivista è nata il 9 novembre del 2002, nel vivo del primo Social forum europeo a Firenze. Un punto alto della parabola dei movimenti sociali e della sinistra alternativa in grado, con le proprie ragioni e con la propria agenda, di parlare a una parte grande del Paese. C'era ancora l'eco forte di Genova e Porto Alegre era la capitale di riferimento per tutti coloro volessero ragionare di "un altro mondo possibile". Anche per la sinistra riformista che rincorreva il "popolo no-global" alla ricerca di un riassorbimento che, poi, in effetti, ci sarebbe stato.

Oggi siamo forse al punto più basso di quella parabola, o almeno lo speriamo visto che ulteriori arretramenti sociali e politici sono sempre possibili. Del resto, allora si discuteva se fosse possibile, dall'esperienza reale della sinistra di classe esistente, costituire una palingenesi e formare un nuovo soggetto politico sull'onda di un movimento di massa. Oggi, la discussione sulle liste "arancioni", per quanto generosa, avviene in un clima di rassegnazione e di ripiegamento evidenti.

La distanza tra quei due punti temporali descrive esaurientemente la portata del ciclo conclusosi in questi anni, evento già verificatosi ma che, nel decennale di Firenze, può essere misurato con maggiore precisione. In questo spazio abbiamo provato a fare più cose: dare senso all'appartenenza a un campo della politica e della storia per provare a rifondare prassi e pensiero comunista. Lo abbiamo fatto con convinzione per anni e anni e, poi, quando la dinamica è diventata imbarazzante siamo stati in prima fila nel cercare di spostare l'asse e di contrastare le derive. Siamo stati derisi per questo e, infine, messi da parte. Salvo poi, leggere in questo scorcio del 2012, queste parole di Fausto Bertinotti: «Ho peccato di ottimismo. Ho sopravvalutato la permeabilità delle istituzioni ai movimenti. Non ho visto la crisi istituzionale... ho anche sopravvalutato la forza dei movimenti. Dal punto di vista di Rifondazione l'esperienza di governo è stata fatale»…

Avere ragione dieci anni dopo può confortare sul piano emotivo ma non risolve i nodi politici. Avevamo ragione ma abbiamo perso.

Quando si fanno cambiamenti importanti difficilmente si riescono a separare le motivazioni personali da quelle politiche. La tentazione di mescolarli e sovrapporli è indotta dalle condizioni materiali specialmente se a fare da collante c'è un residuo di amarezza.

Ma occorre comunque dare un senso politico a questo ultimo numero della rivista che porta il mio nome e all'ultimo editoriale da me scritto. Un senso politico all'abbandono della rivista il cui futuro sarà definito dal Coordinamento nazionale di Sinistra Critica di cui non faccio più parte.

Il primo è che, se invochiamo cambi e rinnovamenti, questo deve valere anche per noi in prima persona. Non si ricoprono gli stessi ruoli per tutta una vita, non è uno stile di militanza "sano". Del resto, la stanchezza accumulata si è riflessa negativamente sulla qualità della rivista che, all'inizio e poi al momento del suo rilancio, aveva l'ambizione di una riflessione più profonda e di un allargamento delle collaborazioni e della capacità di qualificare la proposta politica. Non sta a noi dire se, almeno in parte, siamo riusciti in questo compito. In ogni caso, è venuto il momento di passare la mano.

Non si tratta, però, solo di stanchezza "professionale". La fase nuova richiede nuove energie e nuove collocazioni. Soprattutto, nuove idee e azioni e determinazione a condurle. I tempi che corrono impongono di riedificare le proprie basi a partire dalle nuove generazioni. Sapendo che ognuno di noi può dare un contributo, anche prezioso, magari stando solo in panchina. Le cronache sportive, del resto, ci hanno spiegato quanto sia importante il saper "fare spogliatoio".

Abbiamo scritto più volte, forse troppe, che siamo a un punto di ripartenza più simile agli albori del movimento operaio che alle fasi di riflusso del Novecento. L'obiezione che tra quegli albori e il nostro tempo ci sia stato di mezzo proprio il Novecento, e quindi che occorra tenerne conto, non riduce la verità dell'affermazione. E proprio perché occorre tener conto del "secolo breve" – che comunque lascia una scia di sconfitta – bisogna impostare la ripartenza sui tempi lunghi, lavorando sulle marce più alte e non sullo scatto breve. Mai il termine "lenta impazienza" è stato più felice.

Ecco, quindi, che si producono congiunture particolari in cui l'abbandono non fa rima con resa ma si colloca nel campo della motivazione e della vitalità. Magari su registri diversi e a noi poco consoni, ma di cambiamento.

Il mio impegno della prossima fase sarà, quasi esclusivamente, dedicato alla tenuta di un altro progetto nato sul vivo del movimento altermondialista, del quale porta ancora il nome: la sopravvivenza e il rilancio di Alegre. Il Dipartimento per l'Editoria, infatti, ha negato i fondi pubblici – poche migliaia di euro – che ci spettano in quanto cooperativa editoriale giornalistica. Ce li ha negati per una serie di cavilli per risolvere i quali, tra l'altro, abbiamo dovuto spendere altre risorse finanziarie. Nel corso di tutti questi anni, Alegre è rimasta in vita grazie al sacrificio personale di chi la conduce, con un'immissione di denaro talmente rilevante da non poter più essere reiterata. Molto ha contato, però, l'essere stati parte di un collettivo politico e umano che ha utilizzato a piene mani la casa editrice avvertendola come cosa preziosa. Se così non fosse stato Alegre non sarebbe nata e se così non sarà non resterà che chiudere perché la casa editrice non ha nessun requisito per reggere in un mercato dominato dall'oligopolio.

In queste condizioni abbiamo quindi lanciato un piano di abbonamenti, una sottoscrizione mirata a progettare una fase di rilancio e anche la disponibilità ad accogliere nuovi soci per ricapitalizzare la cooperativa. Tutto questo ha bisogno di impegno e di una forma invisibile della militanza che, in tutti questi anni ci è anche capitato di non veder riconosciuta ma che è fatta di ore e ore di lavoro, di soldi spesi – proveniente dai risparmi accumulati o da quell'unico salario troppe volte non pagato – di fatiche solitarie e notturne, di scoramenti. Ma anche di piccoli entusiasmi, di potenzialità inedite, di nuove relazioni, di progetti utili a dare centralità all'ipotesi che cambiare il mondo è possibile. Proveremo, dunque, a tenere ancora in vita Alegre.

Ci sarebbero altre cose da dire e avremo occasione di dircele direttamente o in altre sedi. In quelle esistenti e in quelle che reinventeremo.



La crisi non è finita


LA CRISI NON E' FINITA - ERRE N. 51

EDITORIALE
Cambiare si può (Salvatore Cannavò)
PRIMO PIANO
L'Europa, la crisi, la sinistra (Josep Maria Antentas)
TEMPI MODERNI
Contratto nazionale, storia di una caduta (Andrea Martini)
Ilva, cronache di una lotta (Francesco Maresca)
La politica delle primarie (Diego Giachetti)
Quando le donne salgono sui tetti (Lidia Cirillo)
FOCUS
La rivoluzione (araba) permanente... (Piero Maestri)
Riflettori sul Medioriente (Cinzia Nachira)
Siria. La dittatura, la guerra, la libertà, la pace (Bernard Dreano)
IDEEMEMORIE
La crisi nel pensiero liberista (Marco Bertorello e Danilo Corradi)
CORRISPONDENZE
L'Argentina come esempio (Antonio Moscato)



martedì 8 gennaio 2013

Da Cambiare si può a Ingroia

La proposta di “Cambiare si può” lanciata a novembre scorso da una settantina di personalità del mondo della cultura di sinistra (più alcuni, pochi, lavoratori e nessun esponente dei movimenti giovanili) ha avuto il merito di portare alla luce la diffusa volontà di tentare di porre la parola fine, con le prossime elezioni politiche, alla assenza dal panorama istituzionale e mediatico di una sinistra degna di questo nome. Questa assenza, iniziata con il naufragio della “Sinistra Arcobaleno” nelle elezioni del 2008, è stata evidentemente rivelatrice non tanto di un “infortunio” elettorale ma piuttosto di una più generale crisi strutturale della sinistra italiana, che non ha saputo, perlomeno nelle sue componenti principali, far fronte all’offensiva ideologica e politica delle classi dominanti, al crollo del PCI, forza storicamente egemone nella sinistra italiana e alla neanche troppo graduale “mutazione genetica” delle formazioni che ne sono state eredi (PDS, DS e, infine, PD). Con la sparizione della rappresentanza istituzionale nazionale del PRC (passato repentinamente da una settantina di parlamentari a zero) sono venuti a scomparire dal panorama politico istituzionale, mediatico e “ufficiale” contenuti e proposte “radicali”, cosa che, da buona parte dell’elettorato e dell’opinione pubblica, è stato letto come una secca e severa delegittimazione di qualunque voce di radicale opposizione e di netta contrapposizione con il centrosinistra. Anche a causa di questa delegittimazione continuano ad essere forti a livello di massa uno stato d’animo di rabbiosa rassegnazione e l’idea della impossibilità di un’alternativa alle politiche dell’austerità. Tante e tanti militanti, consapevoli delle enormi responsabilità dei dirigenti dei partiti della sinistra “radicale”, aggravate dalla incapacità di rispondere alla onda “antipolitica” attraverso una vera rifondazione strategica, politica e etica della sinistra, hanno visto nella proposta di “Cambiare si può” di presentare alle prossime elezioni “una lista di cittadinanza politica, radicalmente democratica, alternativa al governo Monti, alle politiche liberiste che lo caratterizzano e alle forze che lo sostengono” un’occasione da non perdere. Da non perdere non solo per offrire una proposta nuova all’elettorato ma anche e soprattutto per ritrovare la convinzione ad una militanza ormai ai limiti della disillusione. Quell’appello, che faceva seguito ad un altro, precedente, del marzo 2012, un “Manifesto per un soggetto politico nuovo, per un’altra politica nelle forme e nelle passioni” finalizzato alla costruzione di un “soggetto politico nuovo” (A.L.B.A., Alleanza Lavoro Beni comuni Ambiente), con l’aspirazione di dare rappresentanza, non solo elettorale, a tutte quelle persone che l’intreccio tra crisi della democrazia e crisi della sinistra aveva allontanato dalla politica. L’ ambizione dei promotori dei due appelli si incontra con le preoccupazioni di migliaia di militanti e ex militanti, spesso senza partito, e, ancora più spesso, impegnati nei movimenti sociali e ambientali, nei sindacati, nella cultura, nell’associazionismo e arriva a dar vita a una serie di incontri, nazionali e territoriali estremamente partecipati e appassionati. L’avvicinarsi delle elezioni (peraltro addirittura anticipate per le fibrillazioni della inedita maggioranza del governo Monti) fa sì che le due assemblee nazionali a Roma (il 1° e il 22 dicembre) e le oltre 100 nelle più importanti città del paese raccolgano migliaia di partecipanti desiderosi di (re)impegnarsi in una battaglia politica difficile ma appassionante. Ma il vuoto politico istituzionale a sinistra del PD è stato anche l’assillo dei gruppi dirigenti e degli apparati dei partitini della sinistra “radicale”, alla ricerca di un rilancio politico e, soprattutto, organizzativo, dal momento che l’estromissione dalle istituzioni parlamentari aveva significato per loro l’arrivo sull’orlo del baratro e del tracollo. La ricerca spasmodica del ritorno alla presenza parlamentare (con il relativo finanziamento pubblico di apparati e organi di stampa) li ha spinti fin dal 2008 a tentare ogni strada possibile per un’intesa con il PD, nonostante fosse chiaro che le basi politiche di questa intesa erano del tutto immaginarie, e ancor più in particolare nell’ultimo anno, quando il PD ha sposato con convinzione e entusiasmo il sostegno a Monti e alle sue misure antipopolari. L’assenza di interlocuzione con il PD, tra l’altro, comporta il raddoppio del quorum necessario per l’ingresso alla Camera (dal 2 al 4%). E, di fronte all’ormai inevitabile diniego del PD a qualunque apparentamento, la ricerca della “sponda” si rivolge verso l’Italia dei Valori, partito personale Di Pietro, incuranti dei trascorsi dell’ex giudice-ministro-deputato, accanito sostenitore delle grandi opere (a partire dalla TAV) oltre che affossatore di ogni inchiesta sui misfatti delle forze dell’ordine nel luglio 2001 a Genova e non solo. L’Italia dei Valori, in crisi anche per le indagini sul malaffare di alcuni esponenti del partito, è anch’essa messa di fronte alla chiusura totale dell’asse PD-SEL, alimentata dalla previsione da parte di Bersani e Vendola di una autosufficienza elettorale per il forte ridimensionamento della destra berlusconiana. Su tutto, inoltre, incombe la crescita del movimento di Beppe Grillo, che morde sia sull’elettorato giustizialista dell’IDV sia su quello antimontiano e anti-PD dei partiti di sinistra. L’esplosione della Federazione della sinistra rende infine tutto più difficile per il miniapparato del PRC che rischia di non avere alcuna proposta elettorale. La mobilitazione suscitata dall’appello “Cambiare si può” apre prospettive nuove e inattese. Da un lato quella mobilitazione contagia anche settori del PRC o ad esso vicini ma dall’altro la sua vocazione innovativa e l’impostazione “basista” con cui pretende di comporre le liste elettorali rischiano di mettere troppo in ombra il ruolo dei partiti e, soprattutto dei loro dirigenti. Ma il PRC sta al gioco, partecipa attivamente (fin troppo) alle assemblee nazionali e locali e accetta che i dirigenti facciano “un passo indietro”. Ma, nel frattempo, scende in campo un altro soggetto che fino ad allora aveva fatto capolino nel dibattito ma che non aveva scoperto tutte le sue carte. Si tratta del giustizialismo populista di sinistra di De Magistris, che fino ad allora si era mantenuto su una vaga proposta di rinnovamento politico, senza però mai chiarire le proprie intenzioni elettorali né con quale piattaforma né in quale rapporto con il centrosinistra. Il forte ruolo di Luigi De Magistris come sindaco di Napoli risultava però un sostanziale handicap, per l’impossibilità di una sua candidatura diretta a capeggiare una coalizione che traducesse sul piano nazionale la vittoriosa esperienza partenopea. Nasce così la proposta di candidatura di Antonio Ingroia a premier e l’operazione per aggregare attorno ad essa tutto ciò che non vuole o non trova alleanza con PD-SEL. PdCI e IDV, privi di qualunque prospettiva, si dicono subito della partita; il PRC, che pure ha partecipato intensamente al movimento “Cambiare si può”, ha però, nel frattempo, giocato neanche troppo sottobanco su tutti gli altri tavoli, intessendo rapporti con De Magistris e con gli altri partiti e elaborando più soluzioni per avere il massimo di capacità di contrattazione. Dunque, effettivamente il primo e principale oggetto da fagocitare è proprio l’esperienza di “Cambiare si può”, che vuol dire acquisire con un colpo solo tutta la militanza nuova o rinnovata messa in moto da quell’appello e tutta quella della ex Federazione della sinistra, che possono diventare gli utili portatori d’acqua di un’operazione elettorale ambigua e discutibile. E questo “fagocitamento” avviene (lo rivelano i numeri delle due consultazioni online) grazie soprattutto all’apporto del PRC e del PdCI. In cambio Ingroia accetta che i segretari e i massimi dirigenti dei partiti (PRC, PdCI, IDV, Verdi), a cui anche lui aveva chiesto il fatidico “passo indietro”, vengano messi in lista, seppure non come capilista ma comunque in posizione eleggibile. Non solo, la piattaforma politica di Ingroia, nonostante la disponibilità a essere rivista, resta quella dei suoi 10 punti di fine dicembre, e viene solennizzata stampandola nel primo volantino nazionale della campagna, sul retro del “faccione” del giudice. Tra quei dieci punti, prevalentemente ispirati all’ideale di “legalità” antimafiosa, spicca ancora il sesto punto, che chiede più libertà per le imprese “che non siano soffocate dalla finanza, dalla burocrazia e dalle tasse” (sic!), di puro impianto liberale, e spicca, per assenza, qualunque riferimento ai diktat europei e al fiscal compact. Quanto all’innovazione della politica, oltre alla scandalosa ricandidatura di almeno tre ex-ministri (Di Pietro, Ferrero e Diliberto), corresponsabili insieme ai governi di cui hanno fatto parte di numerose misure di stampo liberista e di criminali azioni di guerra (nei Balcani e in Afghanistan), c’è anche da sottolineare la impostazione politica del simbolo, totalmente subalterno alla rovinosa personalizzazione della politica della “seconda repubblica”. Infine, sul nodo cruciale dei rapporti con il PD e con il centrosinistra, la lista Ingroia coltiva lo strumento dell’ambiguità e non disdegna la ricerca di un’interlocuzione, con la giustificazione secondo cui non si può mettere un segno di uguaglianza tra il PD e Berlusconi, cosa che, se non fosse un grave alibi per nascondere la contrattazione di ipotesi di desistenza al Senato e la disponibilità a svolgere il compito di ruota di scorta in caso di maggioranze traballanti, sarebbe comunque una banalità inutile a definire una linea politica. Il movimento “Cambiare si può” si divide: circa due terzi degli aderenti (almeno dei votanti, 6.900 su 13.000) accettano la confluenza nella “Lista Ingroia-Rivoluzione civile”, ma oltre 2.000 votanti (oltre 350 astenuti) e la grande maggioranza dei promotori si dissocia, esplicitando un grave e secco dissenso. La sconfessione del “gruppo dirigente” di “Cambiare si può”, in realtà, riflette la sua debolezza politica, la sua mancanza di esperienza (perlomeno recente) nel condurre un’iniziativa complessa con tanti nemici e, soprattutto, con tanti falsi amici. Riflette il suo carattere improvvisato, sulla base di un appello che pur affrontando nodi importanti, ma eludendone tanti altri non poteva presumere di consolidare attorno a sé (per di più in poche settimane) una “base” sufficiente a reggere l’impatto dell’incursione di De Magistris e dei partiti. Riflette il rischio presente nell’iniziativa di un’impostazione tutta centrata sulle elezioni e sulla crisi della politica e per nulla preoccupata di radicarsi nelle lotte e nelle mobilitazioni sociali di questa fase. Riflette, infine, la sua sopravvalutazione della crisi dei partiti “radicali” che, con una banale operazione organizzativa hanno ribaltato in pochi giorni gli orientamenti maggioritari. Ma l’epilogo della vicenda elettorale di “Cambiare si può” porta alla luce anche la fragilità degli orientamenti radicali delle assemblee e, in particolare, di quella del 22 dicembre, quando un’atmosfera di forte combattività e di netta contrapposizione al centrosinistra si contraddiceva clamorosamente nelle ovazioni rivolte a Ingroia e a De Magistris e nella bocciatura a larghissima maggioranza di una mozione che metteva in discussione la leadership del magistrato palermitano. Ora i partiti stanno operando per replicare questa esperienza anche nelle prossime elezioni regionali e comunali che si svolgeranno in contemporanea (o dopo poche settimane) con le politiche. Nel Lazio, ad esempio, dove il capogruppo IDV è in stato di detenzione per illeciti nell’utilizzazione del finanziamento pubblico, i segretari regionali di PRC, PdCI e Verdi non si peritano di sottoscrivere assieme al responsabile di quel partito un appello per una lista “Rivoluzione civile” alle prossime regionali. Anche là, nonostante l’evidente perdita di credibilità di tutta l’istituzione regionale per l’accumulo di inchieste sulle malversazioni, verranno ripresentati in testa di lista i consiglieri uscenti. Questo epilogo chiude l’esperienza elettorale aperta dall’appello di A.L.B.A. e poi da quello di “Cambiare si può”, ma forse non pone la parola fine alla rinnovata voglia di attivismo politico e sociale che in quell’appello si era ritrovata. Sarà giusto osservare con attenzione quanto accadrà e stimolare l’attivazione di tutto il potenziale risvegliato sul piano della necessaria mobilitazione sociale contro le politica antipopolare che il prossimo governo intraprenderà. Si tratta dello sviluppo di quanto Sinistra Critica ha fatto nel corso del mese di dicembre, quando abbiamo effettivamente puntato, con convinzione, nella possibilità che l’aggregazione in fieri potesse reggere la prova del rapporto con la politica politicante. Oggi si tratta di vedere se ciò che ne resta potrà svolgere un ruolo importante ora non più rispetto alle elezioni ma, piuttosto, nello sviluppo dei movimenti e delle mobilitazioni. Quanto alla lista “Ingroia-Rivoluzione civile” la vedremo alla prova. È indubbio che essa non assomiglia neanche da lontano quella “Syriza italiana” che è stata evocata come modello in tanti interventi nelle assemblee. Peraltro, la costruzione di quella forte coalizione di larga parte della sinistra greca è stata frutto dell’azione convinta e coesa di numerosi gruppi politici durante un lungo periodo, per di più incalzati da un livello di mobilitazione e di combattività sociale ben lungi dall’essere presente anche in Italia. Resta, comunque, che nel vuoto elettorale e politico a sinistra del PD, essa potrebbe apparire, pur con tutte le sue gravi ambiguità, come l’unico soggetto in campo, capace di rispondere, anche se solo in parte, alle preoccupazione, presente in tanti movimenti e in un’ampia area critica verso il centrosinistra, di non rifugiarsi nell’astensione, né nel voto a Grillo. Andrea Martini

venerdì 4 gennaio 2013

Ginsborg, Ingroia e il fuoco della sinistra

Salvatore Cannavò


I commenti contro i "professori" che non gradiscono la lista del magistrato mettono in mostra una cultura politica partitista e frontista che ricorda gli anni 50.

Nella vicenda della lista Ingroia e del dibattito che ha attraversato l'appello di "Cambiare si può" finora ci si è concentrati sulle posizioni dei promotori di quel testo, in prevalenza fondatori di Alba (Revelli, Ginsborg, Pepino, Gallino, Sasso e altri) e sulla loro delusione. I "professori" citati si sono esposti pubblicando in rete le loro opinioni a proposito delle trattative elettorali con Antonio Ingroia, titolare di una lista composta in prevalenza da partiti: Idv, Pdci, Prc, Verdi. Un odore di Arcobaleno che non promette nulla di nuovo e che ha, paradossalmente, provocato anche la delusione di Fausto Bertinotti, inizialmente aperturista nei confronti del magistrato palermitano.
L'ultimo, in ordine di tempo, è Paul Ginsborg, il cui commento è stato pubblicato dal profilo Facebook di Cambiare si può il 3 gennaio. La presa di distanza dalla lista di Ingroia è evidente così come, forse, la sorpresa o la delusione per essere stati smentiti dalla consultazione telematica condotta da Cambiare si può che ha premiato con oltre il 60% il Sì all'ipotesi di lista.
La vicenda è piuttosto anomala perché come non succede frequentemente, i promotori sono stati bocciati dal voto ma hanno rappresentato finora la direzione di quel processo che ora si trova senza rappresentanti riconosciuti e riconoscibili. Marco Revelli, Livio Pepino e Chiara Sasso che dall'assemblea del 22 dicembre erano stati indicati come il "gruppo di trattativa" con Ingroia, avendo espresso le proprie riserve rispetto all'accordo elettorale e riconoscendo legittimità al voto telematico che li ha visti battuti, si sono fatti da parte. Ora, Paul Ginsborg dice apertamente che tornerà alla occupazione prevalente di Alba, il soggetto che era stato pensato anche per la prova elettorale ma che ora, presumibilmente, si dedicherà soprattutto a un lavoro di campagne politiche. Va anche sottolineato che lo stesso Ginsborg annuncia il suo voto a favore della lista Rivoluzione civile di Ingroia anche se non ne approva le modalità di formazione.
Il tenore degli interventi dei professori è sembrato, nella sostanza, rispettoso anche se deluso. Quello che colpisce è la violenza dei commenti cui sono stati fatti oggetto, accusati di non voler rispettare il voto della maggioranza, di protagonismo, di voler solo "spaccare il capello in quattro", di dividere, e così via.
Loro stessi se ne sono meravigliati e hanno cercato di rispondere alle critiche venendo sommersi da altri insulti.
Il commento di Paul Ginsborg, citato sopra, si trascina dietro commenti di questo tipo: "Questa è gente con il portafoglio pieno" oppure "Ginsborg trovati un lavoro vero, di vate ce ne sono fin troppi". Sostenere che uno degli intellettuali più brillanti della cultura politica italiana, al di là delle divergenze che si possono avere con il pensiero di Ginsborg, debba trovarsi "un lavoro vero" fa pensare alla diffidenza di Pol Pot per quelli che avevano gli occhiali o, senza spingersi così in là con il dileggio, a una certa concezione mao-staliniana sul rapporto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. E, del resto, nei commenti quello che prevale è proprio una concezione vetusta e sconfitta del pensiero della sinistra, residuo di frontismo e di partitismo che non fa fatica a trovarsi a proprio agio nel metodo, nei contenuti e nel profilo politico che la lista Ingroia sta assumendo. Il regista occulto dell'operazione, del resto, sembra essere proprio uno dei dirigenti comunisti più classici e tradizionali, Oliviero Diliberto.
Così stupisce meno che per criticare, dileggiandolo, Ginsborg si citino i fatti di Ungheria: "Sono stufa degli intellettuali autoreferenziali che, se le cose non vanno come dicono loro, abbandonano la baracca e giocano a fare i guastatori, per il solo gusto di dire, se le cose vanno male davvero: "avevamo ragione noi, avete visto?" E' dal 1956 che questi esteti di se stessi rappresentano un cancro per la Sinistra". Che nel 2012 ci sia qualcuno che frequentando Facebook abbia nostalgia per l'Unità del 1956 che sparava a palle incatenate contro i dissidenti del Pci la dice lunga sulla resistenza di una cultura antica che in questa vicenda sembra rivenire a galla come l'ultimo residuo significativo della presenza comunista in Italia. Frontismo e partitismo, dicevamo. Citiamo ancora un commento: "Ma pensa se durante la Resistenza si forse detto:di no i socialisti perché Mussolini era socialista e no i cattolici che sostennero il suo primo governo e no i monarchici che sostengono il re e no i comunisti perché sono stalinisti .... Ma chi la faceva?". L'idea che la lista Ingroia assomigli al processo della Resistenza è un elemento ricorrente e costituisce il filo conduttore della discussione. La lista, fondamentalmente, è l'ultima occasione della sinistra per ritornare in Parlamento. Se questo non accadesse l'eventualità sarebbe così disastrosa da venire associata al fascismo o al ventennio berlusconiano. Per questo l'ossessione dell'unità scandisce ogni commento e viene brandita contro ogni obiezione e critica. BIsogna stare uniti, tutti insieme, superare la soglia del 4%, non importa come, non importa con chi, non importa altro. In questo modo, è ovvio, Antonio Ingroia riceve una delega illimitata e potrà fare e dire quello che vuole arrivando al paradosso di scrivere lettere a Beppe Grillo che, invece, rappresenta la bestia nera degli stessi che insultano Ginsborg e lodano il magistrato. A spiegare questo comportamento è ancora un lettore del professore italo-inglese: "Con la casa che và a fuoco una persona di buon senso non chiederà mai a chi è disposto ad aiutarlo nello spegnimento da che parte viene in quanto l'obbiettivo è comune". Ingroia è chiamato a spegnere il fuoco di una sinistra che rischia la scomparsa. Ma la cultura che emerge da questi richiami e da questi commenti indica che il fuoco ha già fatto molti, troppi danni. Irreversibili.