sabato 12 gennaio 2013

Cambiare si può

Salvatore Cannavò

A 10 anni dalla fondazione della rivista Erre, nata al Social forum europeo di Firenze del 2002, è giusto cambiare. I cambiamenti e rinnovamenti che invochiamo nella politica e nella sinistra, vanno fatti anche in prima persona. L'editoriale del n. 51 di Erre.

(da Erre n. 51)

Questa rivista è nata il 9 novembre del 2002, nel vivo del primo Social forum europeo a Firenze. Un punto alto della parabola dei movimenti sociali e della sinistra alternativa in grado, con le proprie ragioni e con la propria agenda, di parlare a una parte grande del Paese. C'era ancora l'eco forte di Genova e Porto Alegre era la capitale di riferimento per tutti coloro volessero ragionare di "un altro mondo possibile". Anche per la sinistra riformista che rincorreva il "popolo no-global" alla ricerca di un riassorbimento che, poi, in effetti, ci sarebbe stato.

Oggi siamo forse al punto più basso di quella parabola, o almeno lo speriamo visto che ulteriori arretramenti sociali e politici sono sempre possibili. Del resto, allora si discuteva se fosse possibile, dall'esperienza reale della sinistra di classe esistente, costituire una palingenesi e formare un nuovo soggetto politico sull'onda di un movimento di massa. Oggi, la discussione sulle liste "arancioni", per quanto generosa, avviene in un clima di rassegnazione e di ripiegamento evidenti.

La distanza tra quei due punti temporali descrive esaurientemente la portata del ciclo conclusosi in questi anni, evento già verificatosi ma che, nel decennale di Firenze, può essere misurato con maggiore precisione. In questo spazio abbiamo provato a fare più cose: dare senso all'appartenenza a un campo della politica e della storia per provare a rifondare prassi e pensiero comunista. Lo abbiamo fatto con convinzione per anni e anni e, poi, quando la dinamica è diventata imbarazzante siamo stati in prima fila nel cercare di spostare l'asse e di contrastare le derive. Siamo stati derisi per questo e, infine, messi da parte. Salvo poi, leggere in questo scorcio del 2012, queste parole di Fausto Bertinotti: «Ho peccato di ottimismo. Ho sopravvalutato la permeabilità delle istituzioni ai movimenti. Non ho visto la crisi istituzionale... ho anche sopravvalutato la forza dei movimenti. Dal punto di vista di Rifondazione l'esperienza di governo è stata fatale»…

Avere ragione dieci anni dopo può confortare sul piano emotivo ma non risolve i nodi politici. Avevamo ragione ma abbiamo perso.

Quando si fanno cambiamenti importanti difficilmente si riescono a separare le motivazioni personali da quelle politiche. La tentazione di mescolarli e sovrapporli è indotta dalle condizioni materiali specialmente se a fare da collante c'è un residuo di amarezza.

Ma occorre comunque dare un senso politico a questo ultimo numero della rivista che porta il mio nome e all'ultimo editoriale da me scritto. Un senso politico all'abbandono della rivista il cui futuro sarà definito dal Coordinamento nazionale di Sinistra Critica di cui non faccio più parte.

Il primo è che, se invochiamo cambi e rinnovamenti, questo deve valere anche per noi in prima persona. Non si ricoprono gli stessi ruoli per tutta una vita, non è uno stile di militanza "sano". Del resto, la stanchezza accumulata si è riflessa negativamente sulla qualità della rivista che, all'inizio e poi al momento del suo rilancio, aveva l'ambizione di una riflessione più profonda e di un allargamento delle collaborazioni e della capacità di qualificare la proposta politica. Non sta a noi dire se, almeno in parte, siamo riusciti in questo compito. In ogni caso, è venuto il momento di passare la mano.

Non si tratta, però, solo di stanchezza "professionale". La fase nuova richiede nuove energie e nuove collocazioni. Soprattutto, nuove idee e azioni e determinazione a condurle. I tempi che corrono impongono di riedificare le proprie basi a partire dalle nuove generazioni. Sapendo che ognuno di noi può dare un contributo, anche prezioso, magari stando solo in panchina. Le cronache sportive, del resto, ci hanno spiegato quanto sia importante il saper "fare spogliatoio".

Abbiamo scritto più volte, forse troppe, che siamo a un punto di ripartenza più simile agli albori del movimento operaio che alle fasi di riflusso del Novecento. L'obiezione che tra quegli albori e il nostro tempo ci sia stato di mezzo proprio il Novecento, e quindi che occorra tenerne conto, non riduce la verità dell'affermazione. E proprio perché occorre tener conto del "secolo breve" – che comunque lascia una scia di sconfitta – bisogna impostare la ripartenza sui tempi lunghi, lavorando sulle marce più alte e non sullo scatto breve. Mai il termine "lenta impazienza" è stato più felice.

Ecco, quindi, che si producono congiunture particolari in cui l'abbandono non fa rima con resa ma si colloca nel campo della motivazione e della vitalità. Magari su registri diversi e a noi poco consoni, ma di cambiamento.

Il mio impegno della prossima fase sarà, quasi esclusivamente, dedicato alla tenuta di un altro progetto nato sul vivo del movimento altermondialista, del quale porta ancora il nome: la sopravvivenza e il rilancio di Alegre. Il Dipartimento per l'Editoria, infatti, ha negato i fondi pubblici – poche migliaia di euro – che ci spettano in quanto cooperativa editoriale giornalistica. Ce li ha negati per una serie di cavilli per risolvere i quali, tra l'altro, abbiamo dovuto spendere altre risorse finanziarie. Nel corso di tutti questi anni, Alegre è rimasta in vita grazie al sacrificio personale di chi la conduce, con un'immissione di denaro talmente rilevante da non poter più essere reiterata. Molto ha contato, però, l'essere stati parte di un collettivo politico e umano che ha utilizzato a piene mani la casa editrice avvertendola come cosa preziosa. Se così non fosse stato Alegre non sarebbe nata e se così non sarà non resterà che chiudere perché la casa editrice non ha nessun requisito per reggere in un mercato dominato dall'oligopolio.

In queste condizioni abbiamo quindi lanciato un piano di abbonamenti, una sottoscrizione mirata a progettare una fase di rilancio e anche la disponibilità ad accogliere nuovi soci per ricapitalizzare la cooperativa. Tutto questo ha bisogno di impegno e di una forma invisibile della militanza che, in tutti questi anni ci è anche capitato di non veder riconosciuta ma che è fatta di ore e ore di lavoro, di soldi spesi – proveniente dai risparmi accumulati o da quell'unico salario troppe volte non pagato – di fatiche solitarie e notturne, di scoramenti. Ma anche di piccoli entusiasmi, di potenzialità inedite, di nuove relazioni, di progetti utili a dare centralità all'ipotesi che cambiare il mondo è possibile. Proveremo, dunque, a tenere ancora in vita Alegre.

Ci sarebbero altre cose da dire e avremo occasione di dircele direttamente o in altre sedi. In quelle esistenti e in quelle che reinventeremo.



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