mercoledì 27 ottobre 2010

3° conferenza anticapitalista: un passo avanti incoraggiante


Il 16 e 17 ottobre si è tenuta a Parigi la terza conferenza anticapitalista europea. Le due prime si erano svolte per iniziativa dell’NPA, mentre questa terza è stata organizzata con lo SWP inglese. Ha riunito 22 organizzazioni di 16 paesi. Il fatto che si sia svolta nel cuore del movimento contro la riforma delle pensioni in Francia sottolineava la necessità di coordinare le lotte su scala europea e, più modestamente, per gli anticapitalisti, quella di coordinare il proprio intervento.
È quello che hanno voluo testimoniare i partecipanti, interrompendo i lavori per partecipare alla manifestazione parigina, dove un compagno polacco, uno dello Stato spagnolo e uno greco hanno preso la parola al punto fisso dell’NPA.

La conferenza aveva tre punti all’ordine del giorno: la crisi, le sue conseguenze politiche e le resistenze dei lavoratori, le risposte alla crisi proposte dagli anticapitalisti, i nostri interventi, le prospettive comuni e il loro cordinamento.

Il primo punto, introdotto da Alex Callinicos dell’ SWP, ha permesso un ricco scambio. Senza tornare sui diversi meccanismi in atto nello sviluppo della crisi, si è constatato un ampio accordo nel sottolinearne il carattere profondo e durevole, non un semplice episodio ciclico ma una svolta profonda, che rende importanti le politiche di austerità messe in atto da tutti gli Stati europei. Si tratta delle rimessa in discussione delle conquiste sociali, che non può incontrare altro limite che la resistenza dei lavoratori e delle classi popolari. Implica una crisi dell’ideologia liberista: l’economia di mercato, lungi dal portare democrazia e progresso, si identifica con la regressione sociale accompagnata dall’ascesa delle idee reazionarie, portata da una nuova estrema destra.

I diversi interventi hanno illustrato La grande diversità delle resistenze operaie.
E anche le conseguenze politiche paradossali della crisi, come nello Stato spagnolo, dove il crollo della sinistra al potere lascia il campo libero alla destra, malgrado il successo dello sciopero generale. La ripresa dell’iniziativa operaia resta globalmente debole, anche se in Grecia l’agitazione sociale e politica persiste. In termini generali, per gli anticapitalisti si pone il problema di agire nel senso dell’unità, tramite una politica di fronte unico, e nel contempo di difendere una prospettiva anticapitalista, agire affinché siano i lavoratori a dirigere le proprie lotte, alla base, senza delegare alle burocrazie, e fare vivere la democrazia nei movimenti. Molti compagni hanno insistito sull’importanza del movimento in Francia, che è guardato con speranza al di là dei settori militanti.

Il secondo punto, introdotto da Yvan Lemaitre a partire dal documento «Le nostre risposte alla crisi», sottoposto alla discussione del congresso dell’NPA, ha registrato un ampio accordo sull’esigenza dei lavoratori di non pagare il costo della crisi, e anche sulla necessità di assumere collettivamente la questione su scala europea per meglio integrare questa dimensione nella nostra politica.
Anche se l’arena nazionale rimane il quadro della lotta di classe, non bisogna dimenticare la sua dimensione europea, che si è manifestata il 29 settembre a Bruxelles e che è molto presente nei fatti. La discussione sulla parola d’ordine dell’uscita dall’euro ne è stata l’illustrazione. Questa discussione è molto presente nel movimento operaio greco, dove il sentimento che la Grecia è stata sottoposta al diktat dell’UE e dell’FMI si riconosce in questa parola d’ordine, dopo che il movimento non è riuscito a opporsi agli attacchi del governo del PASOK. L’uscita dall’euro appare come una risposta «possibile». È un’illusione: la sola uscita dalla crisi, la sola risposta, è quella dell’intervento dei lavoratori per rifiutarsi di pagare i costi della crisi, rivendicando il potere per rompere con le istituzioni borghesi, nazionalizzare le banche, con la creazione di un’unica organizzazione di credito e, allora, rompere con l’Europa, ma agendo nel senso di un’altra Europa, quella dei lavoratori e dei popoli. La discussione non è chiusa, anzi è solo agli inizi….

La necessità di approfondire la discussione sulle prospettive anticapitaliste è stata una delle principali conclusioni della conferenza, conclusioni introdotte e sviluppate da Vanina Giudicelli. Si tratta di cogliere ogni occasione per agire insieme, rendere visibile l’esistenza di una corrente anticapitalista europea, in occasione del controvertice di Lisbona a novembre contro la NATO, o contro la futura riunione del G20 in Francia, produrre un materiale comune, favorire gli interventi nelle assemblee, manifestare la solidarietà internazionalista con le lotte, come oggi con il movimento in Francia…. I compiti pratici e concreti non mancano. Per l’insieme dei partecipanti, questa terza conferenza segna una tappa, un incontestabile passo avanti per la qualità tanto delle relazioni quanto delle discussioni, malgrado la mancanza di una preparazione precedente. È stata decisa la tenuta di due conferenze all’anno, con la preoccupazione di darci i mezzi per prepararle meglio. La questione di un coordinamento più strutturato è stata discussa, non ha incontrato l’unanimità dei partecipanti e ci siamo attenuti all’idea di un coordinamento più fluido. È stata discussa ed emendata una dichiarazione finale che formula i punti essenziali dell’iniziativa che ci unisce.

Yvan Lemaitre

Partecipanti: Gauche anticapitaliste (Svizzera), Izquierda anticapitalista (Stato
spagnolo), LCR-SAP (Belgio), POR (Stato spagnolo), Bloco de Esquerda(Portogallo), SEK (Grecia), ISL (Germania), En Lucha (Stato spagnolo), DSIP
(Turchia), SWP (Inghilterra), Red-green Alliance (Danimarca), Inrternationale Socialisten (Olanda), People before profit (Irlanda), Swp (Irlanda),Okde(Grecia), Polska Partia Pracy (Polonia), Sinistra Critica (Italia), Mouvement
pour le socialisme (Svizzera), Solidarité (Svizzera), The red party (Norvegia),
Socialistiska partiet (Svezia), NPA (Francia).

mercoledì 20 ottobre 2010

ciclo d'incontri "I trent'anni che hanno ridisegnato Torino"


Tra la fine di ottobre e i primi di dicembre, terremo un ciclo di incontri su "I trenta anni che hanno ridisegnato Torino". Si tratta di quattro appuntamenti nei quali cercheremo di fornire una lettura critica sui cambiamenti avvenuti nel capoluogo torinese che hanno segnato e segnano tutt'ora il corso della lotta di classe in Italia. Quattro momenti per rileggere il passato, capire il presente nel tentativo di ricostruire un'opzione anticapitalista a partire dalle resistenze contro la crisi e contro l'attacco di Marchionne alle lavoratrici e ai lavoratori.
Il primo incontro si aprirà con la vicenda dei 35 giorni dell' '80: una rievocazione storica, nel decimo anniversario, per capire le casue egli effetti della "madre di tutte le sconfitte", quando la Fiat chiuse definitivamente la partita iniziata venti anni prima con quella classe operaia generosa e ribelle nata nelle lotte del 1969. Seguirà il 27 novembre un incontro sul mondo dell'auto nella crisi; il 5 novembre sull'attacco di Marchionne al mondo del lavoro; il 10 dicembre sulle trasformazioni intercorse nel corso degli ultimi anni nella nostra città, da "città fabbrica a città dei debiti".
Si tratta, quindi, di 4 incontri di dibattito e formativi che partono dal passato per proiettarsi direttamente verso il futuro.

I° INCONTRO
I Trent'anni che hanno ridisegnato Torino

VENERDI' 22 OTTOBRE, ORE 21, CIRCOLO ARCI "OLTREPO"
CORSO SICILIA 23

1980: I 35 GIORNI CHE HANNO CAMBIATO L'ITALIA.
CAUSA ED EFFETTI DELLA MADRE DI TUTTE LE SCONFITTE.

Raccontano la storia:

Nino De Amicis, ricercatore, storico del movimento operaio
Piero Perotti, delegato FLM, cineasta
Cesare Allara, delegato impiegati FLM
Franco Turigliatto, responsabile lavoro della LCR negli anni '80

Precederà il dibattito, alle ore 17.15, la proiezione dei seguenti film:
LA SIGNORINA EFFE, di Wilma Labate
FIAT: AUTUNNO '80, di Piero Perotti e Pier Milanese.

segue un ricco APERICENA.

martedì 19 ottobre 2010

Dopo il 16, fioriranno le rose?


La manifestazione Fiom ha riproposto il paese legato al lavoro, la democrazia, il conflitto. Riuscirà dall'evento a passare al movimento?


Salvatore Cannavò
Alla fine Epifani ha ceduto alla pressione della piazza, a quegli operai e studenti che a pochi metri da lui gli hanno urlato "sciopero generale" per tutta la durata del suo intervento. Ed è stato costretto a dire "lo faremo" senza specificare come né quando. In realtà è difficile che la Cgil cambi la linea tenuta finora, a meno di un cambio generale nel quadro politico. La bussola resterà quella del "patto sociale" con Confindustria, che si riunirà di nuovo il 21 ottobre, e di una possibile ricucitura con Cisl e Uil ipotesi a cui lavorerà soprattutto il Pd come dimostra l'intervista di Bersani a Repubblica.

La Cgil ovviamente dovrà risentire della manifestazione di sabato 16, troppo grande l'impatto complessivo e il prestigio accresciuto della Fiom per fare finta che tutto proceda come prima. Probabilmente ci saranno delle lusinghe al gruppo dirigente di Corso Trieste fino al giorno prima tenuto a debita distanza ma non sembrano intravedersi elementi portanti di un cambio di rotta. Soprattutto nel paese reale, nelle fabbriche e nel clima di rassegnazione che si respira. Se la manifestazione Fiom modificherà questo clima lo si vedrà nelle prossime settimane.

Il problema di fondo è che la Cgil è appesa all'ipotesi concertativa ed è ancora dipendente dai movimenti della politica. E la politica oggi ha detto che Casini non farà alcuna alleanza con un Pd che deve mediare tra la Fiom e tutto il resto. L'ipotesi di alleanza tra nuovo Ulivo e Udc passa anche per la ricucitura tra Cgil e Cisl e questa prospettiva resta ancora aperta anche se tutto la rende sempre più difficile.
Ovviamente la manifestazione di sabato è l'intralcio principale per le ragioni evidenti. In piazza si è rivisto ancora una volta quel paese legato alla storia e alle ragioni della sinistra di classe, che crede che i "padroni" esistano ancora, crede nella Costituzione, nel lavoro, in un'ipotesi di trasformazione sociale. Il discorso di Landini lo ha rappresentato plasticamente nelle sue varie sfumature. E' quel paese che si oppose nel 92 alla concertazione, che ha protestato contro le riforme delle pensioni, di destra e di sinistra, ha partecipato alle giornate di Genova, ha difeso l'articolo 18, ha dato forza alla Fiom e per quasi venti anni a Rifondazione comunista. E' un pezzo grande che sabato si è di nuovo fatto vedere. Certo, stavolta soprattutto "ristretto" alla Fiom con un po' di soggetti intorno, in particolare gli studenti. Qualche anno fa era un popolo più vasto, ma dimostra ancora di esserci. E questa "base" non è adatta a far ricompattare la Cgil.

Cosa potrà fare questo soggetto, come può passare dall'evento di un sabato pomeriggio a un movimento più di fondo? Le risposte sono scontate e difficili allo stesso tempo. E' chiaro che la dinamica dello sciopero generale è quella decisiva così come è importante la capacità di definire luoghi unitari per rendere stabile l'alleanza tra diversi e ricostruire relazioni che comunque sono consumate. Però non si possono evocare solo slogan e riferimenti astratti. Lo sciopero generale funziona se blocca il paese, la dinamica non la si improvvisa e attiene a una prospettiva di fondo, a un'organizzazione e convinzione delle lotte, insomma a una vera dinamica di movimento. Che, intanto, ha bisogno di ritrovarsi anche su parole d'ordine, obiettivi unificanti e mobilitanti: la riduzione d'orario di lavoro, il reddito sociale, il salario minimo, l'attacco a rendite e profitti, un discorso radicale sul debito.

Domenica, all'università di Roma il cartello "Uniti contro la crisi" ha svolto un'assemblea molto partecipata in cui ha posto questo nodo. L'assemblea è stata soprattutto un'iniziativa della composita area che fa riferimento ai centri sociali - dal nordest a Action di Roma, per intenderci - per rilanciare se stessa con un immaginario e una proposta di movimento adeguata alla fase ma con meccanismi e dinamiche già viste in azione più e più volte. Si è trattato in ogni caso di un'iniziativa positiva perché parla il linguaggio dell'unità tra soggetti diversi contro la crisi e si propone di ricostruire uno "spirito di movimento". Un'iniziativa utile, ma non può bastare. La differenza, infatti, la faranno le realtà locali. Davvero si possono ricostruire luoghi unitari tra realtà di fabbrica e territorio e tra queste e altri soggetti sociali, come gli studenti? Si impegnerà la Fiom in questa direzione, come ha annunciato più volte? Il cartello "uniti contro la crisi" sarà davvero unitario o è piuttosto un "logo" di area come abbiamo visto già altre volte?

Le risposte sulla fase che si apre stanno in queste domande. Il 16 ottobre ha aperto, ancora una volta, una finestra di opportunità che non ha nulla a che fare con la rappresentanza politica perché se si discute a quel livello ci si divide in dieci minuti - Vendola vuole allearsi con Bersani, Ferrero anche, però un po' meno, altri non ci pensano proprio, Bersani tratta con Casini, etc. Si tratta di capire se si svilupperà un progetto di movimento attorno al binomio "unità e radicalità" che tanta fortuna ha avuto nel biennio 2001-2003. Se son rose fioriranno.

venerdì 15 ottobre 2010

Il nuovo numero della rivista Erre


E' uscito il nuovo numero di Erre, con un dossier sull'offensiva di Marchionne, una lunga intervista a Chomsky e tanto altro. Ecco l'editoriale di Piero Maestri


E' uscito il nuovo numero della rivista Erre. il 16 ottobre sarà diffuso in piazza durante la manifestazione della Fiom a Roma, nelle settimane successive arriverà agli abbonati e nelle migliori librerie.
Vi proponiamo l'editoriale di Piero Maestri, quanto mai attuale dopo la morte dei 4 alpini italiani in Afghanistan.

Editoriale n. 40 Erre
Vent’anni dopo, la guerra

Di Piero Maestri

Vent’anni fa l’invio delle navi militari nel Golfo Persico – “giustificate” in seguito alla sconsiderata invasione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno di Saddam Hussein – inauguravano “sul campo” la strategia della “guerra globale permanente” che ci ha accompagnato in questi decenni a cavallo dei due secoli e che ancora oggi continua, costituendo l’altra faccia di un processo di “globalizazione” che ha significato una ricolonizzazione planetaria e una maggiore penetrazione capitalista.
Strategia che è passata in primo luogo attraverso operazioni di guerra combattuta in diverse aree del pianeta, in particolare in un’area che è stata chiamata del “grande medioriente”, con significativi e drammatici allargamenti all’Europa balcanica e a diverse regioni dell’Africa. Una vera e propria guerra mondiale, non solamente perché combattuta in così vaste aree, ma perché ha coinvolto i più importanti soggetti politico-militari.
Una strategia che Stati uniti e paesi alleati (dentro e fuori la Nato) non hanno abbandonato e che continua a provocare vittime e distruzioni, oltre a impedire l’autodeterminazione delle popolazioni di intere regioni. Il presidente Obama non rappresenta in alcun modo una controtendenza in questa direzione, ma solamente un diverso modo di condurre la stessa strategia: ritira le forze armate dalle strade irachene – mantenendo le basi militari (come avviene in molti paesi, visto che la presenza militare Usa e Nato non diminuisce) – e aumenta la capacità offensiva in Afghanistan, mentre di fatto sostiene la politica israeliana contro i palestinesi, pur chiedendo maggiore “moderazione”, e così via.
Nello stesso periodo sono profondamente cambiate in molti paesi, soprattutto in Europa, le forze armate e di “sicurezza”, che hanno sempre più assunto un ruolo di interventismo “fuori area” oltre che essere impegnate direttamente in compiti di “ordine pubblico” e di guerra alle migrazioni.
Anche in Italia abbiamo potuto osservare questa dinamica, con una crescente partecipazione delle forze armate alle operazioni di guerra – in violazione dell’articolo 11 della Costituzione, violazione perpetrata in maniera “bipartisan”, coinvolgendo anche quelli che oggi si stracciano le vesti di fronte alla natura “eversiva” del berlusconismo; con la trasformazione delle stesse in senso professionale e volontario; con il loro impiego nella “lotta all’immigrazione clandestina”; fino al loro spiegamento (piuttosto propagandistico, ma non meno grave) nelle metropoli e quello, decisamente più pericoloso, nella zona rossa de L’Aquila al servizio della “cricca” e delle sue politiche di “emergenza permanente”.
E oggi, a causa della crisi di “vocazioni” e della mai sopita speranza del ministro La Russa di far tornare le forze armate strumento di formazione alla disciplina e all’obbedienza, lo stesso ministro della guerra con la collega della distruzione pubblica Gelmini si sono inventati il progetti “allenati per la vita”, con l’obiettivo di «far vivere ai giovani delle scuole superiori esperienze di sport e giochi di squadra, ma anche introdurre corsi specifici e prove tecnico/pratiche… per vivere questo momento come stimolo per toccare con mano i valori della lealtà, dello spirito di corpo e di squadra, oltre ad acquisire senso di responsabilità e rispetto delle regole e dei principali valori della vita».
Questa strategia di guerra permanente ha provocato diverse resistenze, sia in senso più propriamente militare (resistenze che, al di là del giudizio sulle loro strategie e le loro scelte operative, hanno più volte messo in situazione di stallo le forze armate Usa/Nato) che da parte di un movimento contro la guerra che è stato per alcuni anni al centro della scena politica internazionale.
Oggi quel movimento – in particolare in Italia – è quasi invisibile, frammentato e inefficace, diviso tra chi ha scelto di cercare in tutti i modi di sedersi al tavolo della politica governativa (forse per questo si è voluta chiamare “Tavola della pace”), chi ha ripiegato su scelte locali di valorizzazione della “comunità” (come ha fatto il “No Dal Molin”, con l’obiettivo di rendere inoperante la scelta statunitense e italiana a partire da una mobilitazione permanente locale, che si è alla fine rivelata in realtà localistica e poco capace di aprirsi ad alleanze non istituzionali, anche perché in una fase di stallo del movimento e per le colpe di una sinistra di governo che ha sacrificato Vicenza sull’altare della governabilità) e chi ha provato a mantenere aperta una riflessione di opposizione globale alla guerra e alle politiche di guerra, non riuscendo ad andare molto oltre la testimonianza e pratiche poco inclusive e capaci di mobilitare.
Questa inefficacia e scarsa capacità di mobilitazione contro la guerra rende ancora più difficile provare a connettere la necessaria iniziativa contro decisivi aspetti della militarizzazione – come l’aumento delle spese militari, il mantenimento delle produzioni belliche, l’espropriazione territoriale a fini militari – alla lotta contro la gestione della crisi di governo e Confindustria. In questo senso le domande sono sempre le stesse: perché accettare il taglio dei servizi pubblici quando si aumentano le spese militari? Perché non si possono introdurre progetti di riconversione produttiva che permettano di sperimentare nuove dinamiche di tutela territoriale e ambientale al posto delle produzioni belliche?
Nel breve periodo non sarà probabilmente possibile un rilancio su larga scala di un movimento contro la guerra globale in Italia. Resta la possibilità, e la necessità, di mantenere aperta questa prospettiva attraverso una maggiore capacità di analisi sulla nuova fase internazionale, sul ruolo degli eserciti in questa fase e sulla permanenza e pericolosità delle alleanze politico-militari come la Nato, che continuano a rappresentare il necessario contraltare delle politiche liberiste e di chiusura delle frontiere alla circolazione di donne e uomini.
Le iniziative previste contro il vertice della Nato a Lisbona (con un controvertice il 19 e 20 novembre e una manifestazione il 21) possono rappresentare un’occasione per riallacciare i fili di un movimento europeo e per ridare fiato a iniziative contro la guerra anche in Italia. Sinistra Critica proverà a fare la sua parte in questa iniziativa, in sintonia con le altre forze della sinistra anticapitalista europea.

LOTTA DI CLASSE - ERRE N. 40

EDITORIALE
Vent'anni dopo, la guerra (Piero Maestri)

PRIMO PIANO
Una proposta politica utile alle lotte (Esecutivo nazionale Sinistra Critica)

TEMPI MODERNI
Identikit del popolo dell'acqua (Checchino Antonini)
Università, un'altra onda? (Giorgio Sestili)
Expo, le speculazioni di un "grande evento" (Sergio D'Amia)
Olimpiadi 2020, il grande evento dei palazzinari (Daniele Nalbone)

FOCUS
La scommessa della Fiom (Salvatore Cannavò)
Per il 16 ottobre e anche per dopo
Trent'anni fa i 35 giorni alla Fiat (Nino De Amicis)

IDEEMEMORIE
Letteratura che getta luce sulla storia (Stefano Tassinari)
"Black and red? Paint it Pink!" (Laura Corradi e Libera Pedrini)
La teoria dell'alienazione (Lidia Cirillo)
Libreria - recensioni, analisi, commenti

CORRISPONDENZE
Il nuovo imperialismo americano (Intervista a Noam Chomsky di David Bersamian)
Spagna, il ritorno dello sciopero generale (Miguel Romero)

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martedì 12 ottobre 2010

Fiom, la partita del 16 ottobre


Sabato si rischiano fischi al segretario Cgil che parlerà in piazza. Ma Landini non rinuncia alla linea dura


Salvatore Cannavò
da Il Fatto quotidiano
Non è la prima manifestazione importante che la Fiom organizza. Nel corso della sua storia ne ha fatte altre forse ancora più rilevanti. Ma quella del 16 ottobre a Roma (ore 14 a piazza Esedra e stazione Ostiense per concludersi a Piazza S. Giovanni) è certamente molto delicata. Perché la Fiom esce da una fase in cui è stata messa all'angolo dalla Fiat, con la vertenza Pomigliano, poi da Federmeccanica e Confindustria, con l'avvio delle trattative separate per le deroghe al contratto nazionale. E' stata attaccata duramente dai segretari confederali di Cisl e Uil, Bonanni e Angeletti, pronti a rimproverare al sindacato di Maurizio Landini, irresponsabilità e poco senso della negoziazione. Con Cisl e Uil ci sono stati poi scontri aspri davanti alle sedi sindacali. Infine, si trova a dover gestire una difficile partita in casa, con il sindacato diretto da Guglielmo Epifani in procinto di riaprire la concertazione con la Confindustria di Emma Marcegaglia che prima o poi dovrà affrontare gli stessi temi che affliggono la Fiom.

Quest'ultimo aspetto è certamente il più delicato, perché la Fiom è parte della Cgil e un conflitto tra le due organizzazioni avrebbe conseguenze distruttive. Guglielmo Epifani parlerà il 16 in piazza, sarà lui a chiudere la manifestazione e non è un mistero che dopo le tensioni dei giorni scorsi di fronte alle sedi della Cisl, ci sia anche il timore di una contestazione di piazza nei confronti del segretario generale della Cgil. In realtà, se tensione ci sarà, avverrà sul piano squisitamente politico. Perché ormai è chiaro che Landini dirà apertamente che di fronte alle richieste di Fiat e Federmeccanica, definite «incostituzionali», per la Cgil è tempo di dichiarare lo sciopero generale. Lo ha detto ieri mattina all'attivo dei delegati della Fiom lombarda, lo ripete nelle riunioni riservate, lo ha detto anche ieri pomeriggio nel confronto a quattr'occhi avuto proprio con Guglielmo Epifani.
E anche questo incontro è sintomo di una relazione delicata. Convocato come riunione congiunta delle segreterie di Fiom e Cgil per discutere della manifestazione del 16, l'appuntamento è stato “declassato” dallo stesso Landini a colloquio personale dopo che la Cgil aveva dato l'idea di voler ottenere delle sanzioni disciplinari nei confronti dei militanti Fiom di Bergamo e di Livorno che avevano manifestato davanti alla Cisl. Il no alle sanzioni è stato ribadito ancora ieri da Landini anche se la Fiom non si tirerà indietro quando si tratterà di condannare politicamente atti di intolleranza o elementi di tensione.

Ma il punto resta la manifestazione del 16. Che succederà quando parlerà Epifani? I più ottimisti credono che sarà la piazza a dare la risposta scandendo con molta forza lo slogan “sciopero generale” e facendo così la dovuta pressione sul resto della Cgil che, da parte sua, non ha minimamente messo all'ordine del giorno una simile prospettiva. L'unica scadenza finora messa in agenda è una manifestazione nazionale prevista per il prossimo 27 novembre. Un po' troppo in là per soddisfare la necessità della Fiom di segnare qualche risultato e resistere alla vertenza che è già avviata all'interno del gruppo Fiat, ma non solo.

La pressione ci sarà perché la manifestazione del 16 sarà anche una grande manifestazione popolare. Le adesioni continuano a crescere giorno per giorno e il sito della Fiom le sta aggiornando quotidianamente. Ci sono quelle politiche, Idv, sinistra varia, non il Pd (almeno finora ma l'assemblea di Varese ha tranquillamente glissato sul tema), quelle sociali. Ieri il sindacato metalmeccanico ha avuto due incontri particolarmente significativi con gli studenti universitari e con il comitato promotore del referendum sull'acqua pubblica. Dalle università, che la scorsa settimana sono tornate a mobilitarsi contro il Ddl Gelmini, la partecipazione è in pieno movimento. Ieri, oggi e ancora domani ci saranno assemblee nelle varie facoltà, il 14 ci sarà “l'assedio” a Montecitorio e il movimento si prepara a una grande partecipazione il 16 con un proprio corteo autonomo che partirà proprio dalla Sapienza. Grande disponibilità alla partecipazione anche dai comitati per l'acqua pubblica dopo che lo stesso Landini aveva partecipato alla loro assemblea nazionale del 17 settembre a Firenze.

E poi c'è il mondo dell'intellettualità, dei movimenti civici. Uno dei siti più all'avanguardia in questi giorni per la riuscita del 16 è quello di Micromega dove campeggia l'appello di adesione lanciato da D'Arcais, Camilleri, Hack e Don Gallo. Tramite questo circuito ci sono adesioni non scontate come Sabina Guzzanti, Antonio Tabucchi, Altan o Corrado Stajano. Dal mondo universitario adesioni anche del fisico Giorgio Parisi, dello storico D'Orsi, dell'economista Bellofiore, e poi associazioni e organismi territoriali, comitati civici, associazioni omosessuali, circoli giovanili. Infine, in Fiom si attendono a giorni anche l'adesione del “Popolo viola.

lunedì 11 ottobre 2010

No Tav, la valle c'è


Uno dei cortei più grandi ha ricucito una nuova unità in Val di Susa per un progetto che si ormai sempre più difficile


di Paolo Hutter
da Nuova società
Un fiume di gente, con il colore dominante delle biancorosse bandiere Notav: forse non 50 mila, come dicono gli organizzatori, ma comunque tantissimi. E' già la terza marcia contro la Tav Torino Lione dopo l'estate, è stata la più importante e la prima col cielo grigio e la brezza freddina come se fossimo già in pieno autunno. Il calendario dei lavori dal punto di vista della costruzione della mega-opera è invece, tanto per cambiare, rallentato dalle difficoltà politiche – che dipendono molto da quelle economiche – e dalla ritrovata unità tra la maggioranza dei sindaci valsusini e i comitati No Tav. Almeno qualche sindaco è sempre stato presente nelle mobilitazioni – anche in quelle contro i sondaggi esplorativi che in qualche modo erano stati avallati da una buona parte dei Comuni – ma era da tempo che non si vedeva una manifestazione convocata congiuntamente da Comunità Montana e comitati No Tav, ai quali si è aggiunta tra gli altri la Coldiretti, con berretti gialli e trattori , "in marcia per difendere il futuro degli imprenditori agricoli". Vediamo perchè si riapre una stagione animata, sia sul territorio che dal punto di vista politico. E' tutto "quasi" pronto per far partire – per tentare di far partire – un nuovo primo cantiere dopo quello che il movimento di massa aveva di fatto impedito nel dicembre 2005 a Venaus. Coi soldi europei per le opere preliminari.

Come allora si tratterebbe di una galleria di servizio; questa volta si chiama "della Maddalena"ed è a Chiomonte: perchè nel frattempo – e anche questo è segno della forza del movimento – tutto il Progetto della gigantesca opera è cambiato e lo si sta tentando di ufficializzare a tappe forzate in queste settimane. Per far finta con Bruxelles che tutto stia procedendo bene, e non perdere le possibilità di cofinanziamento. Ma ogni giorno – come è ovvio – sul progetto preliminare di tutta l'opera salta fuori un nuovo problema. Come quelli posti dalla sindaca pidiellina di Susa, che pure dovrebbe essere Si Tav, o come quelli della sindaca di Rivalta, una Pd che non faceva parte dello schieramento contrario all'opera. Per i prossimi giorni – giovedì 14 ottobre – è stato convocato a Palazzo Chigi il cosiddetto "tavolo Politico" sulla Tav con gli Enti Locali e per la prima volta il Governo esclude quasi tutti i Comuni No Tav, che poi sono la grande maggioranza di quelli che verrebbero toccati dal nuovo tracciato. I sindaci esclusi stanno pensando di andare lo stesso. Ma anche i più accaniti sostenitori della Tav sono inquieti. Nella bozza della prossima Finanziaria non sarebbero indicate chiaramente le risorse per iniziare i gradi lavori nel 2013, sostiene una mozione Pro Tav presentata alla Camera da parlamentari del Pd e dell'Idv che critica il governo per... insufficiente sostegno all'opera! Recentemente per la prima volta un importante esponente del Pdl piemontese, l'eurodeputato Bonsignore ha dichiarato che l'utilità dell'opera è superata. Il corteo si è rafforzato nei 7 kilometri di strada, con la aggregazione di ogni genere di valsusino, dagli anziani ai bambini. "Siamo più che abbastanza per ribaltargli qualsiasi cantiere" ha detto Alberto Perino, uno dei leader No Tav.

Aggiungo un paio di impressioni. E' un peccato che così pochi torinesi sentano la curiosità di andare a vedere personalmente un fenomeno storico così interessante e coinvolgente come la mobilitazione di questo territorio. Anche per chi non lo condivide è comunque un processo autentico e importante. E' anche un peccato che non ci sia ancora stato un confronto di massa tra le vittime dei tagli della spesa pubblica e le eventuali vittime di una follìa della spesa pubblica come sarebbe ( se non la fermiamo) la Tav Torino Lione. I precari della scuola hanno manifestato contro il Ponte di Messina, cogliendo e sottolineando il nesso. Non dovrebbe esser difficile capire che una seconda linea ferroviaria - oltretutto ad Alta Velocità - tra Torino e Lione è più inutile di un primo Ponte sullo stretto di Messina. E' ora difficile prevedere se lo scontro sulla Tav tornerà a essere centrale a livello nazionale - in tal caso irromperebbe nelle primarie e nella eventuale campagna elettorale con conseguenze significative - oppure se rimarrà un conflitto locale, anche se ad alta intensità politica. In ogni caso è probabile che a Torino l'attenzione dovrà crescere

La mia vita sempre in piedi


Una giornata da operaio Fiat: 8,95 euro l'ora, sveglia alle 4,30, la stessa mansione per otto ore


Salvatore Cannavò
da Il Fatto quotidiano
Uno guarda la tv, sente le notizie sulle industrie, le fabbriche, gli operai e pensa che questi non esistano più. Sullo schermo ci sono solo immagini di robot tecnologici che spostano pezzi, bullonano auto, le verniciano e a volte le guidano anche. Le immagini degli operai non ci sono mai. Per vederli devono fare uno sciopero o una manifestazione, bloccare un'autostrada. Oppure devi metterti tu davanti ai cancelli, magari proprio quelli di Mirafiori, a Torino, e vederli sciamare veloci per tornarsene a casa. A malapena ti danno retta se vuoi parlarci, dopo otto ore lì dentro è comprensibile. Ma com'è lì dentro? Che significa oggi essere un operaio? Davvero, siamo lontani dagli anni 70 e 80, dalla figura dell'”operaio massa” che tanta storia ha fatto in questo paese? A sentire il racconto di Pasquale, operaio alle Carrozzerie di Mirafiori dal 1988 – «prima ero alle Meccaniche», precisa – sembra quasi di rileggere le formidabili pagine del “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini. Certo non c'è quella rabbia fisica, non trasuda la rivolta ma la fabbrica è ancora tutta addosso alle spalle di chi ci lavora, un ambiente che induce alla «paranoia», straniante e straniera allo stesso tempo. Anche se ci lavori da oltre venti anni. Venti anni di giornate uguali e faticose.

Ore 4,30, la sveglia
«Quando ho il primo turno, che inizia alle sei del mattino, mi alzo alle 4,30. Non è facile ma dopo un po' ci si abitua anche se rimango in silenzio almeno fino alle 8 di mattina. In fabbrica ci vado in tram, con i servizi speciali che l'Att torinese ha predisposto per gli operai Fiat. Li possono prendere tutti ma fanno dei tragitti speciali. In media ci vogliono solo 20 minuti per arrivare ai cancelli ma bisogna arrivare alla fermata in tempo, quindi alle 5,10 sono già lì in modo da stare alle 5,45 davanti ai cancelli».

Ore 5,45, ai cancelli
«Lì avviene la prima timbratura, quella ai tornelli. Una volta infilato il badge nella fessura la Fiat sa che sei dentro, sei nel perimetro della fabbrica. Non è ancora l'inizio dell'orario di lavoro, c'è da fare ancora una seconda timbratura, che noi chiamiamo bollatura, subito dopo i tornelli. Da lì si passa agli spogliatoi, ci vogliono cinque minuti per arrivarci e in cinque minuti ci si cambia, ci si mette la tuta dell'azienda e si arriva alla postazione di lavoro. Io ci arrivo a pelo, alle 6 in punto si comincia a lavorare. Se sgarri di un solo minuto, l'azienda ti addebita un quarto d'ora sulla busta paga; dopo il primo quarto d'ora l'addebito sale a mezz'ora dopo la quale i ritardi vengono conteggiati nei minuti esatti». La paga oraria di Pasquale – la prende e la controlla - è di 8,95 euro l'ora. Un ritardo di un minuto, facciamo i calcoli, gli costa circa due euro netti. Per mezz'ora se ne vanno quattro euro.

Ore 6, inizio turno
Alle sei del mattino, quindi, il nostro interlocutore si piazza alla sua postazione di lavoro. Che è quella del giorno prima. L'azienda può cambiare la postazione o la squadra a cui si è assegnati, entro un'ora dall'avvio della produzione ma o ci sono emergenze oppure generalmente si procede come d'abitudine. Pasquale lavora a una postazione «di sequenza», cioè prende i pezzi da montare sulle auto, o su parti di esse, che scorrono lungo la linea di montaggio, e li distribuisce a seconda dei numeri che hanno impressi sopra. «Prima stavo anch'io sulla linea e ho montato per anni i pezzi direttamente sull'auto, poi dopo un'embolia polmonare e altri malanni vari sono stato messo di fianco a sequenziare i pezzi. Il vantaggio è di non essere direttamente legato al ritmo costante della linea che ti impone tempi più rigorosi».
«Ogni numero corrisponde a una posizione sull'auto. I pezzi sono contenuti in vari cassoni – dodici in tutto e ogni cassone è lungo circa tre metri per un metro e mezzo di larghezza – e io li smisto in cassoni più piccoli, più maneggevoli sulla linea». Sulla sua linea passano le portiere: dalla scocca dell'auto, nuda e verniciata, che scorre su una delle tre linee di cui sono composte le Carrozzerie, vengono smontate le portiere che scorrono su una linea separata e lì vengono completate dei pezzi mancanti: si aggiungeranno maniglie, cavi elettrici, insonorizzazioni e così via. I pezzi a volte pesano 6 o 7 chili l'uno: la mansione è sempre la stessa non ha varianti, non prevede imprevisti né autonomia. Si tratta di raccogliere pezzi, distribuirli, raccoglierli e smistarli. Tutto il giorno, per otto ore, anzi un po' meno perché ci sono le pause che vedremo fra poco. «Quando stavo direttamente sulla linea ricordo che montavo delle boccole – supporti cilindrici per albero motore o cambio -, tutto il giorno a montarle senza sosta. Era un lavoro frenetico e ossessivo, paranoico direi. Perché la cosa assurda che ti capita con la linea di montaggio è che più il lavoro è facile più dai fuori di testa, perché la ripetizione è micidiale. Se è più difficile, magari puoi utilizzare un po' di malizia per cercare di rallentare il ritmo e provare un po' a pensare». Sembra di vedere Charlie Chaplin, in Tempi moderni, ma non è uno scherzo. Il fatto è che, parlando con Pasquale, capiamo che la fisionomia dell”operaio massa” è tutt'altro che superata in fabbrica. «L'azienda non fa che parcellizzare il lavoro, semplificarlo al massimo in modo da poterlo far fare a tutti. Abbiamo verificato, parlando con dei compagni di lavoro della Sevel di Atessa, che in quella fabbrica succede che un nuovo assunto viene lasciato da solo dopo solo un'ora. Un'ora, capisci!, per imparare una mansione che dovrà svolgere a tempo indeterminato: ogni giorno un solo pezzo, sempre allo stesso posto, in continuazione; una paranoia». «Quando lavoravo alle Meccaniche – aggiunge Pasquale – usavo di più la testa, il lavoro era duro e ripetitivo ma per sistemare un pistone ci si ragiona un po' di più».

Ore 8, le prime parole
In postazione si lavora con qualche operaio di fianco. Si può parlare ma «prima delle 8 del mattino nessuno apre bocca, siamo ancora assonnati» anche se spesso «se fai una domanda la risposta arriva dopo qualche minuto, perché prima c'è da finire una portiera o un vetro da montare. Però chi si trova vicino uno con cui non va d'accordo è davvero sfortunato, mica si può spostre da un'altra parte. Quello che ti sta di fronte è il tuo unico interlocutore, o te lo fai piacere o stai zitto».

Pasquale lavora in una squadra come tutti gli operai di Mirafiori. Ogni squadra conta circa 30-35 operai ma non è il capo-squadra l'interlocutore di riferimento. «No, è il “team leader”, uno ogni dieci operai circa». E' lui che sorveglia la produzione, interviene in caso di pezzi mancanti, sostituisce eventuali assenze per malattia, raccoglie le richieste o i bisogni dei dipendenti e riferisce al capo-squadra. Un team-leader è un'operaio di quarto livello, prende un po' di euro in più e ovviamente è particolarmente affidabile: «Io non ne ho mai visto uno scioperare».
«Sono loro che quando serve assegnano straordinari serali per mansioni che non rientrano negli straordinari comandati al sabato, quelli cioè previsti dal contratto. Passano per le linee e si rivolgono agli operai più fidati, ai “loro”, per offrire un paio d'ore per ripulire un piazzale, sistemare del lavoro arretrato, mai per aumentare la produzione, quello si fa solo al sabato. Ovviamente due ore fanno spesso comodo, si guadagna un po' di più anche se alle dieci di sera – il secondo turno comincia alle 14 e termina, appunto, alle 22 – è faticoso».

Tre pause di 10 e 15 minuti
La fatica si sente. «Lavoriamo in piedi tutto il tempo. Io a fine turno ho davvero bisogno di togliermi le scarpe, riposarmi, mi fanno male i piedi e le gambe, la schiena è bloccata. Devo dire che chi soffre di più sono le donne, le vedo spesso lamentarsi per il mal di gambe tanto che ne ho viste molte portarsi una cassettina di legno accanto alla postazione su cui sedersi non appena scatta una pausa o anche durante l'ora di mensa». A Pomigliano la Fiat porterà, in base all'accordo sottoscritto, la pausa mensa a fine turno e ridurrà di dieci minuti le pause. Come funziona ora? «Le pause sono tre, una ogni due ore, per un totale di quaranta minuti: 15+15+10». Ma che succede durante la pausa? «Intanto si va in bagno, poi chi fuma esce fuori a fumare – nello stabilimento è vietato, chissà come farà Marchionne... - ci si prende un caffè. Per chi svolge attività sindacale è l'unico momento per parlare con i compagni di lavoro ma spesso è impossibile perché, appunto, ognuno ha qualcosa da fare. E poi dieci o quindici minuti durano davvero poco».

Ore 11,45, la mensa
Con la pausa mensa forse va anche peggio. «L'interruzione è di mezz'ora, dalle 11,45 alle 12,15 e dalle 18,45 alle 19,15 per il secondo turno. Ma dobbiamo mangiare in non più di quindici minuti. Ci vogliono infatti tra gli 8 e i 10 minuti per raggiungere la mensa, spesso c'è da fare la coda e quindi non c'è molto tempo». L'azienda trattiene dalla busta paga 1,19 euro per ogni pasto. Eppure, spiega Pasquale, «ci sono davvero tanti operai, soprattutto donne come dicevo prima, che preferiscono portarsi da casa un panino o qualcosa da mangiarsi lì accanto alla propria postazione, così da recuperare un po' di tempo e far riposare le gambe».

In fabbrica fa freddo d'inverno e caldo d'estate, non è un ufficio, non c'è l'aria condizionata. «I capannoni sono alti anche trenta metri, ci sono spifferi, sono stabilimenti vecchi ma soprattutto la fabbrica è in parte deserta e quindi i riscaldamenti vengono accesi solo parzialmente. E quindi fa freddo. Per mettere un po' di stufette in giro per i reparti o le pale di ventilazione non sai quante ore di sciopero abbiamo dovuto fare». Il momento più difficile della giornata è dopo pranzo «perché senti di più la stanchezza. Al mattino sei più riposato ma hai sonno, dopo ti svegli ma sei stanco». Mentre scriviamo ci rendiamo conto che nel farci raccontare una giornata di lavoro abbiamo avuto un resoconto limitato a poche decine di minuti: l'avvio, le funzioni, le pause, la mensa. L'andata e il ritorno dal lavoro. Per il resto non c'è più nulla da raccontare, solo una costante ripetizione di movimenti che non cambiano mai. Eppure a Pomigliano si vuole portare la mensa a fine turno e ridurre le pause da quaranta a trenta minuti, lavorano così per sette ore e mezza con solo due pause da quindici minuti o tre da dieci minuti l'una.

Ore 12,15, si riprende
Ma non c'erano i robot che avevano sostituito gli operai? «I robot ci sono ma solo alla lastratura e alla verniciatura. In realtà sono pochi mentre le case automobilistiche concorrenti ne hanno molti di più. Gli operai non sono del tutto contrari ai robot perché ci sono lavori, come la lastratura – dove praticamente si “incolla” il pianale dell'auto alle portiere e al tetto – che erano davvero micidiali. O la verniciatura che ci portava via i polmoni. Però, nonostante i robot gli operai ci sono ancora e sono loro a far andare avanti la produzione, da qui non si scappa». Pagata quanto?
Alla Fiat si sopravvive con poco. Pasquale tira fuori dalla tasca la busta paga, quella dell'ultimo mese. Il minimo contrattuale lordo, per un operaio di terzo livello, è di 1.395,44 euro a cui si sommano, dopo 22 anni di fabbrica, 125 euro di scatti di anzianità e 27 euro di premio produzione. In totale fanno 1548 euro lordi che diventano 1.239 al netto delle molteplici trattenute. «Sempre che non ci sia stata cassa integrazione oppure qualche ora di sciopero». Se si hanno dei figli, l'affitto e le bollette i conti sono facili da farsi.

Ore 14, fine turno
La nostra chiacchierata finisce qui. La giornata è praticamente conclusa e fuori dalla fabbrica ne resta solo il rumore, costante, avvolgente, fatto di ferraglia, di colpi sordi, di martelli pneumatici e di trapani elettrici. O del clangore dei pezzi metallici. Un rumore confuso che lascia un ronzio nella testa. E poi c'è il silenzio, fatto dall'esterno della fabbrica pochi minuti dopo l'uscita, lo sciame operaio si disperde subito, veloce come la rassegnazione che si è impadronita del mondo del lavoro.
Resta però una sensazione, quella della dignità. Pasquale, e molti come lui, minimizzano la fatica, lo stess, l'alienazione, «la paranoia» come la chiama lui. La sente ma non se ne lamenta, non si atteggia a vittima. Sarà perché è iscritto al sindacato, perché crede nella lotta comune e in qualche possibilità di riscatto. Sarà perché con qualcosa bisogna pure difendersi e resistere. Gli operai metalmeccanici in Italia sono quasi due milioni e di questi 363 mila sono iscritti alla Fiom, primo sindacato di categoria. Sarà mica la dignità il problema?

venerdì 1 ottobre 2010

Chi semina vento...


Sinistra Critica solidarizza con i lavoratori e i delegati Fiom della Same di Bergamo, che, come tutti i lavoratori metalmeccanici del nostro paese sono vittime della feroce aggressione padronale contro i diritti e le tutele della contrattazione collettiva, aggressione avallata e coperta dalla complicità della Fim Cisl e della Uilm. Questi due ex sindacati hanno deciso ormai d tempo di dedicarsi ad un altro mestiere, tra i più antichi del mondo, quello del servilismo verso i potenti.

Non ci si può meravigliare perciò se qualcuno li contesta. Ci preoccupa invece se la Cgil, costringendo purtroppo anche la Fiom, scambia le vittime con i colpevoli, isolando gli operai della Same e chiunque faccia sentire la sua voce contro quelli che ogni giorno la cancellano (rifiutando loro, per esempio, il diritto a decidere sugli accordi sindacali),

La scelta della Fim e della Uilm di sottoscrivere con Federmeccanica la distruzione del contratto nazionale è solo l’ultimo atto di questo servilismo, dopo l’assenso alla politica di Marchionne.

La ribellione degli operai della Same non deve essere criminalizzata – mentre l’attacco da più fronti (governo, padroni e sindacati complici) deve spingere tutte/i ad una massiccia partecipazione alla manifestazione nazionale del 16 ottobre, per rilanciare l’opposizione sociale e preparare un vero sciopero generale.

Piero Maestri - Portavoce nazionale
Flavia D'Angeli - Portavoce nazionale
Franco Turigliatto - Portavoce nazionale

Sinistra Critica
Organizzazione per la Sinistra Anticapitalista