venerdì 28 maggio 2010

Non ce la date a bere


NON CE LA DATE A BERE

EDITORIALE (Flavia D'Angeli)

PRIMO PIANO

L'acqua fuori da mercato (Emiliano Viti)

Acqua alta tra Di Pietro e i movimenti (Salvatore Cannavò)

Perchè l'anticapitalismo diventi un "luogo comune" (Piero Maestri)

Berlusconi, il nome è la cosa (Lidia Cirillo)

TEMPI MODERNI

Se la Protezione civile va in malora (Manuele Bonaccorsi)

Congresso Cgil, la palla alla minoranza (Andrea Martini)

Alla ricerca del sindacato possibile (Roberto Firenze)

FOCUS

L'internazionalismo che non si arrende (Piero Maestri)

L'ipotesi di una V internazionale (Salvatore Cannavò)

Rivoluzionari, perchè realisti (Dario Di Nepi e Antonella Vitiello)

IDEEMEMORIE

Perchè ritorni ancora il sogno di un mondo migliore (Marco Bertorello)

Ci salverà anche il lavoro culturale (Stefano Tassinari)

Il ritorno del problema "politico" (Daniel Bensaid)

LIBRERIA - recensioni, analisi, commenti

CORRISPONDENZE

Quel che insegna la crisi greca (Pascal Franchet)

Cuba sull'orlo di una crisi profonda

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giovedì 27 maggio 2010

Epifani fa lo sciopero


Il segretario della Cgil boccia la manovra, propone Patrimoniale e ri-tassazione dello scudo fiscale e poi lancia la sua mobilitazione: manifestazione nazionale il 12 giugno e poi sciopero di 4 ore, pubblico e privato, con manifestazioni su base territoriale


Salvatore Cannavò
(da Il Fatto quotidiano)
L'ha detto subito che la manovra non gli piaceva, è andato la sera stessa in tv a spiegare la contrarietà della Cgil e oggi si spinge fino a proclamare lo sciopero generale. «Lo proporrò al direttivo nazionale del 7 giugno e sarà di 4 ore con manifestazioni territoriali sia del lavoro pubblico che del privato». La Cgil sceglie dunque un'opposizione chiara alla manovra e si distanzia da Cisl e Uil ma non rinuncia nemmeno a indicare soluzioni alternative. E tra queste Epifani raccoglie due ipotesi avanzate ieri da Peter Gomez sul nostro giornale: ritassare lo scudo fiscale e istituire una forma di Patrimoniale.

Nella conferenza stampa convocata presso la Cgil, il segretario della Cgil ribadisce il giudizio espresso a caldo sulla Finanziaria: «So bene che serve il risanamento ma questa manovra non va bene; colpisce i lavoratori, pubblici e privati e non tocca i redditi medi e medio alti, diversamente da quanto fatto da Zapatero in Spagna o dallo stesso Cameron in Gran Bretagna». Inoltre, aggiunge, «è una manovra che non contiene alcuna riforma e che finirà per deprimere l'economia in generale e l'occupazione in particolare». Quindi la Cgil, sceglie di mobilitarsi e per dare l'annuncio il segretario della Cgil si fa accompagnare dalla segreteria generale della Funzione pubblica, Rossana Dettori e dal segretario della Flc, il sindacato Scuola, cioè le due categorie più colpite.

La prima giornata di mobilitazione sarà una manifestazione nazionale del lavoro pubblico, fissata a Roma per il 12 giugno, un sabato, all'insegna dello slogan "Solo sulle nostre spalle". Ma prima ci sarà un'altra manifestazione, stavolta a Milano il 2 giugno, convocata per difendere la Costituzione e che sarà anche una manifestazione anche di difesa dei diritti. Poi, entro giugno, lo sciopero generale pubblico e privato, di quattro ore, con manifestazioni territoriali.

Ma stavolta Epifani sceglie anche di dare centralità alle alternative e recupera le proposte pubblicate ieri dal Fatto - ritassare chi ha "scudato" i capitali portati illecitamente all'estero e istituire una Patrimoniale del 3 per mille sui patrimoni superiori a 5 milioni di euro- ampliandone il raggio d'azione. «Proponiamo di ritoccare del 2% la tassa sui capitali reimportati in Italia (Gomez propone il 5%, ndr.) ma anche un prelievo come addizionale di solidarietà per i giovani, sui redditi superiori ai 150 mila euro e la reintroduzione dell'Ici per i redditi superiori ai 90-100 mila euro». Infine, rispondendo al Fatto, Epifani ha auspicato «l'introduzione di una imposta sui grandi patrimoni e sulle grande ricchezze sul modello francese», oltre alla armonizzazione "europea" della tassazione sulle rendite finanziarie.

Insomma, una linea dura che ha un obiettivo preciso: indurre il governo a cambiare la manovra, introducendo elementi evidenti di «equità» perché comunque la Cgil, ha spiegato ancora il segretario generale, «è disposta a fare sacrifici» e si riconosce nelle parole di Napolitano. Per questo l'iniziativa autonoma non vuole essere «contro» Cisl e Uil a cui si propone di lavorare insieme per ottenere risultati sui punti condivisi. Resta da vedere se tale impostazione sarà accolta più o meno bene dal Pd che finora ha balbettato e che ora si trova di fronte alla prospettiva dello sciopero generale. E resta da vedere quale sarà lo sbocco finale.

Dal canto loro, Cisl e Uil mantengono un atteggiamento molto più disponibile rispetto alla manovra e soprattutto rispetto a Tremonti, quasi a auspicare il rafforzamento politico e di "premiership" del ministro dell'Economia. Lo dimostra anche la reazione alla nostra richiesta di pronunciarsi su Patrimoniale e scudo fiscale. La Cisl, in realtà, non ci ha risposto mentre la Uil, per bocca del suo segretario confederale Paolo Pirani, non ci ha nascosto una certa freddezza. «Non sono contrario a un contributo di solidarietà» dice Pirani, ma questo non risolve la maggiore priorità «che resta la riduzione della spesa pubblica». Freddo anche sulla Patrimoniale perché bisognerebbe cominciare «da una riforma complessiva del fisco a partire da una tassazione che sposti il prelievo «dalle persone alle cose». Un approccio molto in linea con le posizioni del ministro Tremonti.

Chi non ha dubbio alcuno è invece Carlo Podda, esponente della minoranza interna Cgil e, prima del congresso, segretario della Funzione pubblica. «La Patrimoniale l'avevamo indicata nel nostro documento congressuale e quindi per noi è un invito a nozze. Quanto allo sciopero generale, Podda ritiene che sia «inevitabile» ma che non muterà l'approccio della minoranza interna, perché le divergenze di strategia con Epifani restano.

«L'ipotesi di una patrimoniale e di tassare gli evasori è una proposta di sano buon senso» dice dal canto suo Pierpaolo Leonardi, dell'esecutivo nazionale Usb, il nuovo sindacato di base «ma non dimentichiamo che uno dei problemi principali della crisi italiana e internazionale è costituito dal mondo bancario e finanziario contro il quale manifesteremo il 28 maggio». L'Usb ha già lanciato la sua manifestazione per il 5 giugno, anche qui di sabato, insieme alla Confederazione Cobas. Rispetto all'ipotesi di sciopero generale, che l'Usb ha già preventivato, Leonardi spiega che un'indizione assieme alla Cgil sarà possibile «solo se c'è una convergenza sulle parole d'ordine».

Che succede nella Fiom?


L'organizzazione dei metalmeccanici vive una fase di travaglio. Per sostituire Rinaldini alla segreteria generale si contrappongono le candidature di Landini e Cremaschi. Ma potrebbe spuntare anche Airaudo, segretario della Fiom piemontese. E a Pisa, la federazione "sconfessa" le Rus in lotta contro la Piaggio di Colaninno


Andrea Martini
Come è noto, la conclusione del 16° Congresso nazionale della Cgil ha sancito di nuovo l'isolamento della Fiom all'interno della confederazione di corso d'Italia.
L'alleanza di Gianni Rinaldini con i segretari generali delle categorie dei lavoratori pubblici e dei bancari è stata spezzata con la vittoria di Epifani e dei suoi all'interno di queste due categorie.
Ora dunque il cerino dell'opposizione alla linea risultata maggioritaria nel congresso ritorna nelle mani di Rinaldini e della Fiom, che devono cercare di trovare il modo di far pesare sulle future scelte quei 310.000 voti raccolti nelle aziende dalla mozione "La CGIL che vogliamo".
Il dibattito tra quelli che hanno sostenuto la mozione di minoranza è vivace, non solo per la complessità delle scelte politiche e organizzative da fare (rimettere a punto la piattaforma, di fronte alla conclusione del congresso e alle stridenti violazioni della democrazia e della pari dignità delle opzioni congressuali, costituirsi o meno in area programmatica, utilizzando le regole e le agibilità consentite dallo statuto) ma anche per l'intreccio con altre delicate scadenze.
Sullo sfondo c'è la sostituzione di Epifani nel ruolo di numero uno della confederazione, programmata per fine settembre, ma, più nell'immediato, c'è il rinnovo della segreteria confederale che è all'ordine del giorno nella seduta del direttivo nazionale preannunciato per il 7, 8 e 9 giugno.
Ma ancor prima, la fase dei rinnovi dei vertici investirà proprio la federazione dei metalmeccanici con una sostanziale sovrapposizione tra le opzioni di posizionamento rispetto alla linea confederale e le scelte sulla ridefinizione del vertice Fiom. Infatti Gianni Rinaldini, che ereditò esattamente otto anni fa la guida di questa categoria da Claudio Sabattini, durante la riunione del Comitato centrale metalmeccanico convocato per il 31 maggio, lascerà l'incarico.
Le candidature alla sostituzione già esplicitatesi sono due: il più quotato Maurizio Landini, in qualche modo indicato dallo stesso Rinaldini, e il più noto Giorgio Cremaschi, leader della Rete 28 aprile e dell'ala fiommina più radicale.
La scelta potrebbe non essere solo sulle preferenze personali, ma sottende anche l'indicazione della direzione di marcia che la categoria dei metalmeccanici assumerà nei confronti del resto della Cgil e, in buona sostanza, anche alle controparti.
Formalmente entrambi i candidati collocano le proprie proposte politiche nel solco di quella che è stata la linea praticata da Rinaldini (e ancor prima da Sabattini) per oltre dieci anni.
Certo, l'elezione di Cremaschi, però, starebbe a significare una maggiore e molto più granitica irriducibilità di questa linea alle pressioni per niente discrete di Epifani e della confederazione perché la Fiom rientri nei ranghi.
A sorpresa, nel corso dei prossimi giorni, potrebbe spuntare una soluzione di mediazione tra i due, con la candidatura di Giorgio Airaudo, l'attuale segretario generale della Fiom piemontese.
Le scelte, come si diceva, non sono solo di vertice, ma si intrecciano anche con la conduzione di importanti vertenze sia già in atto, sia all'orizzonte prossimo venturo.
Ne citiamo due, emblematiche.
Da un lato il destino dei lavoratori Fiat (in particolare quelli di Termini Imerese e di Pomigliano), messi di fronte al piano industriale presentato da Marchionne al ministero dello Sviluppo economico a fine marzo. Finora la Fiom si è sostanzialmente limitata a commentare molto negativamente quel piano, che chiude definitivamente ogni prospettiva per lo stabilimento siciliano e sottopone quello campano a un pesante ricatto sul piano delle turnazioni, dei ritmi e dei diritti, ricatto, sia detto per inciso, che ha trovato immediatamente la scontata complicità di Cisl e Uil e un apprezzamento politico bipartisan. Ma quel ricatto, per non consegnare inermi alle pressioni padronali i dipendenti Fiat e per non consentire la contrapposizione di interessi tra i dipendenti dei vari siti aziendali, richiede la messa in campo di una mobilitazione unificante, massiccia, duratura e capace di far capire alla Fiat i costi produttivi, economici e politici di quel ricatto.
Per ora, nella Fiom, la discussione su quale risposta dare a padron Elkan e al plenipotenziario Marchionne è stata rinviata "causa congresso". Ma il nuovo segretario generale e la nuova segreteria nazionale Fiom che si insedierà nelle prossime settimane sarà chiamata a misurarsi subito con questa questione.
Già da subito, invece, qualche nota stonata è risuonata nella vertenza Piaggio, aperta da Colaninno, che, non contento dell'impennata dei profitti (l'azienda ha chiuso il primo trimestre del 2010 con ricavi per 340,6 milioni di euro, in rialzo dell'11,2% sullo stesso periodo del 2009 e con un utile netto di 2,9 milioni, con una previsione di ulteriori incrementi grazie agli incentivi 2010 per l’acquisto di moto) ha chiesto nei mesi scorsi un'intensificazione della produzione attraverso l'introduzione del lavoro obbligatorio al sabato, subito accettato dalle solite Cisl e Uil.
La Fiom, riconfermata come primo sindacato (con quasi 1000 voti su 2300 votanti, anche se con una leggera flessione rispetto alla precedente tornata) alle recenti elezioni per la Rsu, ha immediatamente proclamato lo sciopero degli straordinari del sabato, per offrire copertura a quei numerosissimi operai che non intendono rinunciare per un pugno di euro ad una giornata di riposo.
Lo sciopero Fiom è stato indetto dai 14 delegati Fiom della Rsu e dalla segreteria provinciale Fiom di Pisa.
Al successo dello sciopero, Colaninno ha replicato con durezza, con minacce dirette di sanzioni contro gli operai che si sono rifiutati di andare a lavorare e ventilando l'ipotesi di ulteriori delocalizzazioni verso i paesi asiatici.
Ma negli ultimi giorni, anche grazie alla connivenza dell'amministrazione di centrosinistra di Pontedera, le minacce di Colaninno hanno cominciato a seminare disorientamento in alcuni settori di lavoratori e, soprattutto, hanno indotto la Camera del Lavoro e la stessa Fiom di Pisa (con un comunicato stampa condiviso da 6 delegati Rsu su 14) a riprendere in esame le forme di lotta, suggerendo l'individuazione di "strumenti e modalità alternative".
In una situazione di scontro aspro come quello in corso alla Piaggio, e in un contesto di complicità incrociate a livello politico e sindacale con il padrone, una così plateale sconfessione della maggioranza della Rsu Fiom non può che indicare l'esistenza di inquietanti indizi di cedimento. Tanto più che il comunicato degli apparati Cgil e Fiom di Pisa sembra sia stato condiviso proprio da Maurizio Landini, responsabile nazionale Fiom per il gruppo Piaggio e, come già detto, candidato più accreditato alla successione di Rinaldini.
La maggioranza della Rsu Fiom della Piaggio, intanto, ha organizzato una consultazione in fabbrica e, sulla base dei risultati ha deciso di riconfermare lo sciopero del sabato.

lunedì 24 maggio 2010

Morire in Afghanistan, per la Fincantieri


I due militari italiani morti recentemente, ma anche tutti gli altri morti in questi anni, hanno perso la vita anche per gli affari dell'azienda italiana che fa affari con le consorelle Usa e che è una delle poche beneficiarie di una guerra disastrosa

Philip Rushton
(da Attac.it)
I due militari italiani caduti in Afghanistan lo scorso 17 maggio sono morti per la Fincantieri. Chiaro, non sono morti soltanto per la Fincantieri, sono morti anche per l’Alenia, Fiat Avio, l’Agusta-Westland e tante altre aziende nell’arcobaleno della produzione militare italiana legata a doppio filo all’industria militare USA. Ma in sintesi possiamo dire che sono morti per la Fincantieri. Grazie al loro sacrificio, e al sacrificio di migliaia di civili afghani schiacciati da bombe USA e dei loro alleati durante feste di matrimonio, fucilati mentre dormivano da pattuglie delle forze speciali, mitragliati nelle loro macchine perché si sono avvicinati troppo a convogli delle truppe occupanti, aziende come la Fincantieri possono continuare a godere di contratti USA. Ad esempio di quello per l’assemblaggio di una parte del caccia stealth F-35, assemblato a Cameri vicino Novara al costo proiettato di più di 1028 milioni di dollari, prodotto dalla Fincantieri assieme al suo partner USA la Lockheed Martin, o di contratti come quello per la Nave di Combattimento Litorale, prodotta dai cantieri USA Manitowoc Marine acquistati nel 2008 dalla Fincantieri con il beneplacito sempre della Lockheed Martin, azienda che ancora sotto Obama rimane la maggiore nella produzione militare statunitense, grazie alla quale la nostra Fincantieri ha aperto più di 50 sedi negli USA. Gli amministratori delegati di aziende come la Fincantieri dovrebbero mandare lettere di condoglianze ai familiari dei caduti, ringraziandoli per il loro contributo.

Quei militari e quei civili non sono morti per la democrazia e il buongoverno. Il maggiore fattore che oggi in Afghanistan contribuisce alla ricrescita del sostegno per i Talebani è la corruzione del governo di Karzai e i suoi alleati tra i signori della guerra locali. In un sondaggio recente condotto dalle stesse forze armate USA e riportato sul sito di "Peacereporter", la popolazione afghana dichiara che ha più paura della polizia di Karzai, e in particolare quelli del fratello di Karzai, coinvolto a piene mani nel traffico di droga, che degli ordigni improvvisati dei Talebani.

I militari non sono morti per arginare l’influenza dei "terroristi". Ormai quei sondaggi, nella provincia di Kandahar, indicano che il 90% della popolazione si oppone all’offensiva militare che USA e alleati italiani scateneranno intorno a Kandahar da giugno in poi. L’80% della popolazione di quella zona, secondo lo stesso sondaggio, considera i Talebani "fratelli". Da quando i militari italiani sono arrivati in Afghanistan, nel 2003, la guerra afghana si è trasformata in ciò che le forze USA chiamano la guerra "Af-Pak", cioè Afghanistan e Pakistan. Anziché contenerlo, i militari hanno diffuso il conflitto, in zone oltreconfine come la valle di Swat dove i loro velivoli senza pilota Predator e Global Hawk, come gli esemplari che hanno base a Sigonella in Sicilia, sparano missili Hellfire che abbattono interi palazzi e uccidono più civili che combattenti. In tal modo la guerra in Afghanistan minaccia sta destabilizzando anche Pakistan.

I militari italiani non sono morti per una missione di pace, come sostiene il ministro Frattini. I due italiani sono morti a meno di 24 ore di distanza da cinque soldati USA, ossia sono considerati come parte della stessa forza nemica. Infatti, dal 2006 in poi, i militari italiani che partecipano in Afghanistan sono sempre più integrati nelle operazioni offensive, assieme ai loro mezzi come i carrarmati Dado, gli elicotteri di attacco Angusta e i bombardieri Tornado, in operazioni militari comandati dagli USA. Inseguito alla morte di alcuni soldati spagnoli due mesi fa, un giornalista di "El Pais" è riuscito a parlare con il capo dei Talebani che ha organizzato l’attentato, il quale ha spiegato che ormai i militari di nazioni come la Spagna e l’Italia sono considerati come un tutt’uno con gli americani.

Ma forse il rospo più difficile da ingoiare per il governo è che in tutta probabilità questi ultimi due militari italiani, come i 22 in totale morti finora in Afghanistan, non hanno perso la vita per raggiungere un obiettivo militare, perché secondo molti indicatori la guerra si perderà, nonostante il fervore retorico del Ministro La Russa, secondo il quale il controllo della situazione aumenta.

James Circiello, attivista contro la guerra che nel 2007 si è rifiutato di lasciarsi inviare nello stesso Afghanistan e ha saggiamente disertato dalla 173esima brigata aviotrasportata con base a Vicenza, afferma che in queste ultime settimane i soldati USA e quelli della sua ex brigata, sono stati ritirati dalla Valle del Korengal in Afghanistan. La suddetta Valle del Korengal era diventata ormai impossibile da tenere nonostante la perdita di vita di dozzine di militari e la perdita del senno di tanti dei sopravissuti, già diventati consumatori costanti di farmaci antidepressivi durante la loro missione come afferma il “New York Times”.

I militari italiani sono morti per niente, cioè sono morti per aumentare i valori dei titoli di aziende militari come la Fincantieri.

domenica 23 maggio 2010

Un piano di stabilità alternativo


In Portogallo la crisi è strutturale e, come in altri paesi d'Europa, viene fatta pagare ai lavoratori, ai disoccupati, ai servizi pubblici. La risposta del Bloco de Esquerda in questa intervista al suo leader Francisco Louça


imq
Francisco Louça è un apprezzato economista ma da diversi anni è soprattutto una delle personalità politiche più popolari del Portogallo. Da quando il partito di cui è di fatto il leader, il Bloco de Esquerda - Bloco di sinistra, collocato alla sinistra estrema - è diventato una delle forze politiche che più ha beneficiato della crisi del Partito socialista con il suo 10% alle ultime europee e con il sorpasso sullo storico Partito comunista portoghese. Entrambe le due formazioni costituiscono una spina nel fianco del Ps che oggi è chiamato, come in Grecia, a fronteggiare la crisi e un attacco speculativo senza precedenti. La situazione è in movimento: ci sono manifestazioni convocate, anche se in un clima difensivo, e il Partito socialista non potrà uscire indenne dalla crisi. Anche per questo, il ruolo e le idee del Bloco potranno essere molto rilevanti.

Che tipo di crisi è quella in Portogallo?
La crisi, come in altri paesi dell'Europa, è il risultato combinato di una recessione profonda unita al collasso del bilancio pubblico. Il Portogallo è una economia fragile e dipendente e dunque la crisi è molto grave: due persone su dieci vivono in condizioni di povertà, il dieci per cento è disoccupato mentre il 20% dei lavoratori vivono in condizioni di precarietà. Si tratta quindi di una crisi strutturale e grave.
Di fatto, il problema portoghese non è collocato nel deficit (in Spagna, ad esempio, o nel Regno Uniti parliamo di cifre superiori) o nel debito (guarda a Italia o Belgio). Il problema principale di questa nostra economia è la stagnazione che provoca disoccupazione e che può innescare un lungo periodo di recessione e crisi sociale.
In questo quadro, quali sono le misure che intende prendere il governo socialista. E' come in Grecia?
Al momento sono stati presentati due programmi di austerità che combinano privatizzazioni e aumento delle imposte (1,5%) con la riduzione dei salari. Dunque, è meno di quello che è stato proposto in Grecia ma per una popolazione il cui salario medio è di 750 euro e dove il salario minimo si ferma a 475. D'altro lato, anche prima della crisi il tasso di disoccupazione raggiungeva il recordo del 10% e continua a salire. La misura più grave è probabilmente la riduzione della spesa sociale e la riduzione del valore del sussidio di disoccupazione e di sostegno ai più poveri.
Per questo tipo di intervento il governo del Partito socialista ha fatto un accordo con il principale partito della destra all'opposizione (il Psd).


Che risposte sociali si sono avute e qual è il ruolo del sindacato?
La principale centrale sindacale (che in Portogallo è controllata dal Partito comunista, ndr.) ha convocato una manifestazione nazionale per il 29 maggio e potrebbe vedere in piazza centinaia di migliaia di persone (il Portogallo ha poco più di 10 milioni di abitanti, ndr.). Gli scioperi, d'altro canto, sono stati molto localizzati e limitati: l'effetto dei bassi salari e la paura della crisi conduce a una reazione difensiva per quanto attiene allo sciopero. Ovviamente, la preparazione di una risposta globale è all'ordine del giorno.


Qual è l'approccio della sinistra di opposizione? E il ruolo del Bloco?

A sinistra, le due principali formazioni, il Bloco e il Pcp, convergono su una risposta sociale. Oltre a esse, ci sono alcuni dirigenti e membri del Ps che hanno preso posizione contro gli attacchi ai servizi pubblici, alle privatizzazioni e all'amento delle imposte.
Lo sforzo del Bloco è concentrato sia nell'organizzazione di una risposta sociale sia nella definizione di una proposta politica e economica alternativa. Vogliamo rendere concreta una proposta di politica fiscale e di riorganizzazione dell'investimento pubblico. Soprattutto, vogliamo creare una coscienza politica di massa sul significato dell'austerità, della diseguaglianza e ingiustizia sociale, sulla penalizzazione del lavoro e i benefici che invece derivano al capitale. Per questo, gran parte del nostro lavoro si è concentrato sulla denuncia dei casi concreti di benefit favolosi, dei salari degli ammanistratori e delle banche che raggiungono livelli mai immaginati nella società portoghese, dimostrando che una politica fiscale giusta è una risposta immediata ai problemi di bilancio.

Puoi fare alcuni esempi di proposte immediate?
Noi abbiamo presentato un Programma di Stabilità alternativo, con tagli nella spesa militare e altre misure, dimostrando che la correzione di bilancio si può fare con una politica in grado creare lavoro e non di distruggerlo.
Servono misure di espansione della domanda ma soprattutto di redistribuzione del reddito e di riorganizzazione della fiscalità, della produzione e dell'investimento per permettere che l'obiettivo fondamentale dell'economia sia quello di creare lavoro. E questo significa difendere i servizi pubblici contro le privatizzazioni e punire il sistema finanziario per la crisi che ha provocato

sabato 22 maggio 2010

Connetti le lotte: nasce l'Usb


Si svolgerà domani e domenica il congresso di fondazione di Unione sindacale di base, il nuovo sindacato nato dalla fusione di Rdb, Sdl e settori della Cub. Prima scadenza, la manifestazione del 5 giugno e subito dopo il nodo delle elezioni Rsu nel pubblico impiego. Con un occhio alle vicende della Cgil


Salvatore Cannavò
Connetti le lotte: nasce l’Usb

Salvatore Cannavò
La sigla sta per Unione sindacale di base ma nel video di presentazione l’acronimo è declinato anche in “Unità, Solidarietà, Bisogni”. Usb, inoltre, è anche la porta di accesso a un computer, sia per far funzionare la stampante che una comune “chiavetta”. Non stupisce, dunque, che lo slogan di lancio del nuovo soggetto sindacale giochi su questo refrain e scommetta su un “Connetti le lotte”. E dunque il congresso di fondazione di questo nuovo sindacato di base, che inizia oggi a Roma e che riunirà delegati e delegate in rappresentanza dei circa 250.000 iscritti dichiarati, vuole invertire la tendenza alla scomposizione, ormai più che decennale, sancendo la fusione di due sigle importanti come RdB e SdL ma anche altri settori, di categoria o territoriali, provenienti dalla Cub, la Confederazione unitaria di base nata attorno al sindacato metalmeccanici, Flmu, di Giorgio Tiboni. Oltre a queste sigle, alla giornata conclusiva del congresso, che si terrà il 23 maggio presso il Teatro Capranica, parteciperanno altri soggetti sindacali, che hanno mostrato interesse per il percorso di unificazione, quali il sindacato della comunicazione, Snater, la forte componente del settore trasporti, Or.S.A. e lo Slai Cobas, altra minisigla di un arcipelago di forze, spesso con un certo insediamento locale o settoriale, che da circa un trentennio, cercano di rubare la scena alla Cgil, mantenendo una linea radicale ma senza essere riusciti a fare quel salto qualitativo che molti di loro si aspettavano.
La fusione tra Rdb e Sdl prova a dare una sterzata a questa situazione. L’Sdl, tra l’altro, è già il frutto di una fusione, avvenuta nel 2007, tra l’ex Sincobas e il Sulta, sindacato dei trasporti molto forte storicamente all’Alitalia e nei trasporti locali. Dal canto suo l’Rdb è tra le organizzazioni pioniere del sindacalismo alternativo alle tre confederazioni, molto presente nel Pubblico impiego e nella Sanità.
L’Usb avrà una struttura confederale, sostanzialmente basata su due macro-aree categoriali, il pubblico e il privato. Inoltre, aderiranno in forma associativa l’A.s.i.a, associazione per il diritto alla casa e l’organizzazione di pensionati. Domenica si svolgerà l’assemblea di fondazione, dopo che saranno stati celebrati i congressi di scioglimento delle due organizzazioni costitutive dell’Usb e saranno composti gli organismi dirigenti. Non ci dovrebbero essere problemi anche se l'Sdl si è presentata all'appuntamento con una minoranza del 13% - tali i dati registrati al congresso che si conclude oggi - che chiedeva un maggior approfondimento del processo di unificazione e una maggiore autonomia e decisionalità per le strutture di base. Ma è un dibattito interno, destinato a continuare e che non mette in discussione la fusione che si realizzerà, all'incirca, con due terzi dei nuovi organismi appannaggio delle Rdb e un terzo all'Sdl e ai settori provenienti dalla Cub.
La gran parte del lavoro sarà ovviamente tutta da fare. Il nuovo sindacato nasce nel vivo della più grande crisi economica del dopoguerra e il confronto con la manovra economica del governo Berlusconi è già cominciato. Anche in questa chiave va inteso il lancio della manifestazione nazionale prevista per il 5 giugno prossimo – convocata congiuntamente a un’altra organizzazione del sindacalismo di base, la Confederazione Cobas, che però non aderisce all’unificazione – indetta inizialmente in solidarietà con i lavoratori greci e via via trasformatasi, necessariamente, in una manifestazione contro la “stangata”. La manifestazione poteva essere uno strumento messo a disposizione di uno schieramento più ampio e invece Usb e Cobas hanno deciso di promuoverla da soli, suscitando la contrarietà della Cub, ad esempio, e, forse, limitando le potenzialità stesse della giornata che comunque vedrà certamente in piazza altri settori della sinistra sociale ma anche politica.
Ma la partita più delicata riguarderà le elezioni per le Rsu nel pubblico impiego dove il superamento della soglia del 5% è decisivo per ottenere una rappresentanza al tavolo delle trattative (oltre che distacchi e permessi sindacali). Le Rdb possono superare questa soglia nel comparto Ministeri pubblici e nella Sanità e quindi sarà in quest’ambito che la nuova organizzazione sarà chiamata a misurarsi. Anche per questo si discute quale dovrebbe essere la sigla che concorrerà alle elezioni per le rappresentanze: la nuova sigla, Usb, come chiedono alcuni o ancora la vecchia sigla Rdb come si augura chi non vuole rischiare di incorrere in errori nel voto dei lavoratori?
Questione ancora più delicata è il rapporto con la Cgil. Le due organizzazioni che faranno nascere l’Usb hanno mantenuto negli anni un approccio un po’ differente: più intransigente l’Rdb, con un'ipotesi dichiaratamente concorrenziale e quindi conflittuale; disposta a seguire anche un percorso unitario l’Sdl, sia pure a condizione di contenuti condivisibili. Oggi la situazione vede una Cgil in una fase di transizione: Epifani ha stravinto il congresso ma la sua linea non è riconosciuta da governo e da Cisl e Uil. L'opposizione interna ha raggiunto un risultato non indifferente, il 17%, ma non abbastanza da segnare la vita interna e sta discutendo se e come strutturarsi e se, e come, far vivere una linea conflittuale anche nel rapporto diretto con i lavoratori. Come si relazionerà a questa situazione il sindacato di base che sta per nascere non è definibile a priori e del resto una maggiore unità dell'intera sinistra sindacale, variamente collocata, è resa difficile sia da condizionamenti materiali che politici (non è che la sinistra Cgil brilli per capacità di relazione con il sindacalismo extraconfederale, anzi). Eppure, la questione di una rifondazione del sindacalismo di classe mentre saluta la nascita di una soggettività più efficace continua ad aver bisogno di una più ampia e significativa massa critica. E quello che avverrà in Cgil finirà per riguardare anche la nuova Usb a cui facciamo i nostri migliori auguri.

mercoledì 19 maggio 2010

La Finanza che non conosce crisi


UbiBanca è il primo istituto di credito a commerciare in armi. Lo si ricava dalla relazione presentata dal governo in Parlamento. La banca italiana è seguite da Deutsche Bank e dal gruppo Bnl-Bnp


Luca Kocci
da Adista
ROMA-ADISTA. È salito al vertice delle “banche armate” – ovvero gli istituti di credito che forniscono servizi finanziari alle industrie armiere ottenendo notevoli compensi di intermediazione – il gruppo Ubi (Unione Banche Italiane), nel cui Consiglio di Sorveglianza siede, non a caso, Pietro Gussalli Beretta, vicepresidente di Beretta Holding Spa, la principale azienda italiana, e una delle prime al mondo, produttrice di armi leggere: con 1 miliardo e 231 milioni di euro Ubi Banca è il gruppo che – soprattutto con il Banco di Brescia e per una piccola quota con il Banco di San Giorgio – nel corso dell’anno 2009 ha movimentato più soldi per conto delle industrie italiane che hanno esportato armi all’estero. Nel 2008 l’impegno di Ubi Banca era inferiore ai 250 milioni.

“La nostra policy - spiega ad Adista Damiano Carrara, responsabile Corporate Social Responsibility di Ubi - non è volta ad azzerare l'impegno del gruppo nei confronti del settore che anzi consideriamo importante per la difesa dell’ordine pubblico interno e internazionale secondo i principi della Costituzione italiana, ma a regolare gli interventi secondo criteri di valutazione delle singole operazioni oggettivi e trasparenti, condivisi con varie organizzazioni sociali attente a questi temi”. “Tutte le transazioni sono state effettuate nel pieno e rigoroso rispetto di tale codice di comportamento: il 97% degli importi autorizzati riguarda Paesi dell’Unione Europea, come si può leggere anche nel bilancio sociale consultabile sul sito, e ha come oggetto la fornitura di componenti, ricambi e manutenzioni per aeromobili e di aeromobili non armati. Inoltre sono state declinate operazioni per un importo complessivo di 7,1 milioni di euro, in quanto dirette verso Paesi non ammessi dalla policy”.

Principi e informazioni che tuttavia non possono più essere verificate, come spiega Giorgio Beretta, analista della Rete Italiana Disarmo e per anni animatore della Campagna di pressione alle “banche armate” promossa dalle riviste Missione Oggi, Nigrizia e Mosaico di Pace: “Da quando, due anni fa, il governo ha eliminato dalla Relazione sull’import-export di armi il lungo e dettagliato elenco delle singole operazioni effettuate dagli istituti di credito, è impossibile giudicare l'operato delle singole banche. Nessuno mette in dubbio il resoconto delle banche, nel caso di Ubi anche abbastanza dettagliato, ma senza quell'elenco le loro affermazioni mancano del riscontro ufficiale che solo la Relazione può fornire”.

“Banche armate”: affari per quasi 6 miliardi di euro
La Relazione del governo – pubblicata circa due mesi dopo la divulgazione di un più sintetico Rapporto che ha evidenziato il grande aumento (+ 61%) delle esportazioni di armi italiane nel mondo soprattutto verso Paesi extra Unione Europea e Nato (v. Adista n.30/10) – segnala che nel 2009 sono state autorizzate 1.628 transazioni bancarie per un totale di oltre 4 miliardi di euro, a cui va aggiunto poco più di un miliardo e 700 milioni per “programmi intergovernativi di riarmo (cioè i grandi sistemi d'arma costruiti in collaborazione con altri Paesi, come ad esempio il cacciabombardiere Joint Strike Fighter per cui l'Italia spenderà almeno 15 miliardi nei prossimi anni).

Dopo Ubi Banca, sempre per quanto riguarda il capitolo esportazioni, la seconda “banca armata” è la tedesca Deutsche Bank con 913 milioni di euro, seguita dal gruppo italo-francese Bnl-Bnp che ha movimentato 904 milioni di euro, e che è anche la banca convenzionata con l’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (v. Adista n. 3/10). “Il recente crescente attivismo della banca tedesca nel settore – nel 2004 realizzava operazioni per soli 700mila euro – e soprattutto la totale mancanza di direttive pubbliche per quanto riguarda il settore dell'industria militare e dell'export armiero fanno oggi della Deutsche Bank uno dei principali attori in questo particolare business”, commenta Beretta. “Vien da chiedersi cosa intenda quando sul proprio sito la banca afferma che ‘per Deutsche Bank la Responsabilità Sociale d’Impresa non è un’opportunità per fare beneficenza, ma un investimento nella società e nel proprio futuro’. Se l'investimento è fatto coi proventi dell'export militare, il futuro lo vedo... plumbeo”. E per Beretta “stupisce anche il crescente volume d'affari nel settore da parte di Bnp Paribas: dai poco più di 300mila euro del 2002 si passa agli oltre 804 milioni di euro del 2009 autorizzati a Bnp Paribas Succursale Italia”, ovvero Bnl. “Il Codice Etico della Bnl – aggiunge Beretta – limiterebbe l'operatività della banca nell'export di armi ai soli Paesi della Nato e dell'Ue. Inoltre, stando al principio secondo cui il Gruppo Bnp Paribas adotterebbe nei vari Paesi lo ‘standard più elevato’ in materia di responsabilità sociale, tale limitazione dovrebbe applicarsi anche alla sua filiale italiana. Ma né nei bilanci sociali della Bnl e ancor meno in quelli del Bnp Paribas si rintraccia una cifra o un Paese verso cui le due banche hanno svolto operazioni di armi”.

Questi tre gruppi bancari, da soli, coprono i tre quarti del mercato finanziario relativo alle esportazioni. Seguono circa 20 banche, sia italiane che estere, con importi assai inferiori. Fra gli istituti italiani si notano il gruppo Intesa San Paolo con 186 milioni (a cui però andrebbero aggiunti anche i 47 milioni della Cassa di Risparmio di La Spezia, facente parte dello stesso gruppo) e Unicredit con 146 milioni. A seguire Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (23 milioni), Banca Popolare Commercio e Industria (15 milioni), Banca Antonveneta (quasi 9 milioni) e poi Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Valsabbina, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Credicoop di Cernusco sul Naviglio e Banca Popolare di Milano con importi intorno ai 5 milioni di euro ciascuno.

Giorgio Beretta: oltre le banche, attaccare anche i “governi armati”
Se dalle esportazioni si passa a considerare i “programmi intergovernativi”, i primi due posti sono saldamente occupati da Intesa San Paolo (806 milioni) e Unicredit (702 milioni), leader incontrastati di questo settore - nonché banche di riferimento per le attività della Conferenza Episcopale Italiana e della Caritas Italiana (v. Adista n. 5/10) - che da anni fanno pubbliche e solenni dichiarazioni di disimpegno dal sostegno alle industrie armiere e puntualmente si ritrovano in vetta alla clas-sifica. “Nel caso delle esportazioni definitive, dove comunque si ha una diminuzione del 12% rispetto allo scorso anno, si tratta di transazioni relative a operazioni avviate prima dell'entrata in vigore del nostro codice di comportamento, esteso progressivamente alle banche entrate negli anni nel Gruppo Intesa Sanpaolo” spiega ad Adista Valter Serrentino, responsabile dell'Unità Corporate Social Responsibility di Intesa San Paolo. “Inoltre aggiungo che la principale operazione supportata, che rappresenta oltre il 60% dell’importo totale delle autorizzazioni, è relativa alla fornitura di 3 navi cacciamine alla Marina Militare finlandese. Le operazioni relative ai programmi intergovernativi invece si riferiscono ad accordi pluriennali, anch’essi stipulati prima dell’entrata in vigore del codice di comportamento, che manifesteranno i loro effetti nei nostri bilanci anche per i prossimi anni. Crediamo quindi di aver mantenuto coerentemente gli impegni che abbiamo preso nei confronti sia dei nostri clienti, sia della società civile”.

“Se non è ingiustificata la sottolineatura da parte degli istituti di credito che questi programmi intergovernativi per la loro specificità ineriscono la stessa politica di difesa dell'Italia - replica Beretta - ciò dovrebbe attivare la società civile in maniera ancor più decisa nel chiedere conto innanzitutto al governo della sensatezza delle spese per questi sistemi militari che, oltre che incredibilmente dispendiosi, hanno anche una chiara propensione offensiva, come nel caso del programma per il Joint Strike Fighter”. (luca kocci)

martedì 18 maggio 2010

Torino, 20 maggio: presentazione del libro "la rifondazione mancata"


GIOVEDI’ 20 MAGGIO 2010

ORE 21,00

Sala Gramsci, via Matteo Pescatore ang. via Vanchiglia
presentazione del libro
“La Rifondazione mancata”

1991-2008, una storia del Prc, Edizioni Alegre

di Salvatore CANNAVO’
ne discutono

con l’AUTORE,

Armando PETRINI, segretario regionale di Rifondazione

Francesco CIAFALONI, saggista, ricercatore

Coordina: Gianna TANGOLO

“Ci sarà bisogno di democrazia intesa come cultura del conflitto e invito alla partecipazione, e, soprattutto ci sarà bisogno di una generazione nuova, non solo fatta di giovani, desiderosa di ricostruire. La vecchia generazione politica è stanca e sconfitta anche se le sue memorie politiche e i suoi punti di vista, quando generosamente offerti a una impresa di ristrutturazione, potranno servire come punto di appoggio. Ma sarà una nuova generazione politica a ricostruire una sinistra di classe in questo paese il quale, anche se inconsapevole, ne ha estremo bisogno.”
(dalle conclusioni del libro)

Sinistra Critica
Torino via Santa Giulia 64 tel. 0118177972

Prove generali di unità a sinistra


Un appello trasversale a Rifondazione, Sel, manifesto e altre associazioni chiede di privilegiare le convergenze sulle divergenze. Lo firmano Grassi e Deiana, Parlato e Tortorella, Vinci e Ferrajoli. Mancano però le firme di Vendola e Ferrero. Il quale potrebbe essere finito in minoranza nel suo stesso partito


Salvatore Cannavò
Un appello per unire la sinistra dopo la sua sconfitta. Lo firmano alcuni e alcune dirigenti di vari partiti, associazioni e giornali in un'iniziativa che smuove un po' le acque e, se progredisse, potrebbe cambiare le carte in tavola. L'appello, che dovrebbe apparire domani su Liberazione e manifesto, è firmato da un numero significativo di personalità e, come spesso capita, colpisce per l'assenza di alcuni nomi. In particolare per quella del segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero - mentre il Prc è ampiamente rappresentato - e del presidente della regione Puglia, Nichi Vendola. Ci sono invece Claudio Grassi, Alberto Burgio, Alessandro Valentini e Luigi Vinci di Rifondazione comunista, Licandro e Pagliarini del Pdci, Elettra Deiana, Alfonso Gianni, Patrizia Sentinelli di Sinistra, Ecologia e Libertà ma anche Valentino Parlato e Loris Campetti del manifesto, Aldo Tortorella e Marcello Cini, Giorgio Lunghini e Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli e Massimo Villone. Insomme, uno spaccato della sinistra, a volte minoranza nei partiti di riferimento, in gran parte ex Rifondazione e riconducibile a una visione "continuista", legata alla storia del Pci - sia pure con l'eresia manifestina - ma anche a gran parte del percorso compiuto dal Prc.
"Siamo donne e uomini di sinistra che hanno preso parte alle tormentate vicissitudini culminate nella disfatta del 2008", dice il documento e " siamo diversi ma anche uguali, accomunati dall’appartenenza a una stessa storia e cultura politica". I punti di convergenza sono semplici per quanto generici: "i diritti del lavoro, l’occupazione e il reddito delle classi lavoratrici; l’inalienabile titolarità collettiva dei beni primari, a cominciare dall’acqua, dalla conoscenza e dall’ambiente; la democrazia partecipativa, garantita dalla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista".

"Sulla base di queste opzioni condivise, l’attuale situazione sociale e politica del Paese ci appare grave e densa di pericoli" Si fa riferimento alla crisi economica, agli attacchi al lavoro, ma anche al diffondersi della corruzione fino al "rischio di svolte autoritarie in un contesto segnato dalla rottura della coesione sociale e dalla recrudescenza di pulsioni razziste".

E' per questo, dicono i promotori dell'appello, che "pensiamo che quanto ci unisce debba prevalere su quanto ci ha sin qui diviso e tuttora ci separa". Insomma, è venuto il momento della "inderogabile necessità di puntare sulle convergenze e affinità e di privilegiare le importanti battaglie comuni che insieme possiamo combattere e vincere: innanzitutto quella, cruciale, per il rilancio del sistema elettorale proporzionale per tutte le assemblee elettive, a cominciare dal Parlamento nazionale".

Un nuovo partito, una nuova organizzazione, magari un'associazione? Niente di tutto questo. Per ora, l'appello chiede alle varie componenti di far affermare, ciascuna in casa propria, "una volontà unitaria, indispensabile a far sì che la sinistra torni a giocare un ruolo importante sulla scena politica italiana". Poi si vedrà. Al momento non c'è nessuna iniziativa convocata ma solo il desiderio di verificare l'impatto dell'appello stesso.

Certo, non sfuggono alcune conseguenze politiche. Come dicevamo, l'appello non vede, tra i suoi promotori, alcuni personaggi significativi. Non c'è Vendola, proiettato sempre più in un'altra direzione, alla conquista dell'intero centrosinistra - e con lui manca qualsiasi figura riconducibile alla sinistra ex diessina di Mussi e Fava - mentre da Rifondazione e dalla Federazione della sinistra, non c'è il segretario Ferrero. Solo che i componenti della Federazione, o di Rifondazione, che firmano l'appello, messi insieme fanno la maggioranza di entrambe quelle due organizzazioni. E se la mancata adesione di Ferrero rappresentasse una divergenza reale, questo vuol dire che è finito in minoranza nel suo stesso partito.

sabato 15 maggio 2010

Sindaco di Napoli, pronto De Magistris


Con l'appoggio di Nichi Vendola l'ex pm potrebbe concorrere alle prossime comunali. Il 21 maggio iniziativa comune nel capoluogo campano dove le comuncali costituiscono "il primo banco di prova della sinistra per costruire un nuovo progetto".


Salvatore Cannavò
(da Il Fatto quotidiano)
Pronto a un ticket con Walter Veltroni in grado di sfidare la destra? Oppure immerso in un lavoro di ricostruzione di una nuova sinistra insieme all'ex magistrato, e ora deputato europeo, Luigi De Magistris? Magari, preparando per quest'ultimo la candidatura a sindaco di Napoli?

La strada di Nichi Vendola, rieletto governatore della Puglia, e leader di una sinistra diffusa, in grado di fare incursioni fin dentro il Pd, contempla in realtà la sintesi tra le varie opzioni.

Il presidente della Puglia cha in agenda un incontro per il 21 maggio a Napoli su iniziativa di "Sinistrasvegliati" e altre associazioni che lo vede a confronto con Luigi De Magistris. I due si cercano e si annusano da un po'. Vendola ha già presentato a Roma il libro dell'ex magistrato e poi sempre loro due avrebbero dovuto essere i protagonisti, insieme a Ignazio Marino, la terza componente del Pd, di una serata speciale organizzata a Firenze dal quotidiano il manifesto in collaborazione con Michele Santoro, poi annullata per un'imprevista sovraesposizione politica. Ora si ritrovano a Napoli dove, tra l'altro, il prossimo anno si vota per il Comune. A coordinare il dibattito c'è il giornalista Piero Orsatti che sta lavorando alla nascita di un mensile, Gli Italiani, che dovrebbe vedere la luce a giugno e che si è dato come riferimenti politici proprio Vendola, De Magistris e Marino. Tra i giornalisti impegnati nel progetto c'è anche Aldo Garzia - ex manifesto, ex Aprile - cui non dispiacerebbe un coinvolgimento di Emma Bonino come espressione di una sinistra "liberale e progressista". L'ipotesi non è così peregrina se si pensa che all'interno del mondo radicale si fa largo il timore che la vicepresidente del Senato possa lasciare il suo partito di origine per costruire qualcosa di nuovo.

Sull'iniziativa aleggia un'altra ipotesi, quella della candidatura di De Magistris a sindaco di Napoli alle elezioni che si terranno il prossimo anno (in contemporanea con Torino, Milano e Bologna). E proprio qui potrebbe essere sperimentato un rapporto ancora più stretto tra Vendola e De Magistris. Il manifesto di convocazione dell'iniziativa napoletana è piuttosto chiaro: «Le prossime elezioni comunali della città di Napoli saranno un primo banco di prova per la sinistra per costruire un nuovo progetto di società fondato sulla partecipazione; chiediamo e vogliamo organizzare uno schieramento ed un’alleanza partendo dal basso, con i partiti certo, ma guardando oltre. Ed è per questo che vogliamo ci siano le primarie per discutere di programmi e candidati, per uscire dalle controversie delle segreterie di partito e costruire uno strumento reale di socializzazione dei contenuti e di partecipazione alle scelte.

Su questa base intendiamo entrare in rete, coordinarci, provare ad intraprendere un percorso comune». Insomma, si tratta di esportare a Napoli il metodo che ha consentito a Vendola, anche grazie alle Fabbriche di Nichi, di essere rieletto in Puglia: profilo chiaro e primarie. L'ipotesi di una candidatura di De Magistris viene fatta informalmente nei colloqui telefonici. A essere candidato l'ex magistrato ci è andato già vicino alle Regionali quando il suo nome è stato fatto insistentemente anche contro l'ipotesi De Luca. Una scesa in campo per la città di Napoli costituirebbe certamente una novità di grande peso, destinata a rimescolare gli incerti equilibri del centrosinistra italiano.

Ma Vendola non nasconde nemmeno un ritrovato feeling con quella porzione del Pd che si colloca in Area democratica, diretta da Dario Franceschini ma forse acor più da Walter Veltroni, e la nascita di un nuovo mensile, prevista per giugno, che si chiamerà "Pane e Acqua", lo conferma. Ispirato a un nome francescano che serve, secondo i promotori, a ribadire la necessità di ricostruire, come recita il sottotitolo, «le idee progressiste», Pane e Acqua avrà un comitato editoriale composto, come ha segnalato l'agenzia Asca, dai senatori Pd Roberto Di Giovan Paolo, Paolo Nerozzi e Vincenzo Vita, accompagnati da una figura "autorevole" come l'attuale capogruppo democratico a Strasburgo David Sassoli, molto legato a Franceschini, che lo ha voluto al parlamento europeo. Accanto agli esponenti del Pd ci saranno quelli di Sinistra, Ecologia e Libertà: l'ex Arci e Terzo settore Nuccio Iovene, l'ex responsabile Comunicazione del Prc, e molto vicino a Bertinotti, Sergio Bellucci ma soprattutto Nichi Vendola.

La nuova rivista nasce dopo aver rilevato il mensile ''Aprile'' che sostenne la sinistra Ds ai tempi di Cofferati e Giovanni Berlinguer

venerdì 14 maggio 2010

Dall'Islanda alla Grecia


Lo sciopero greco paralizza il paese e i manifestanti scendonno in piazza al grido "La crisi non la paghiamo". Ancora una prova di forza contro il governo socialista che vuole risanare il bilancio scaricando i costi sui lavoratori. Nel referendum islandese passa invece l'ipotesi di non pagare i debiti pregressi. L'Europa ha qualche problema.


di Antonio Moscato
Non tutto va male al mondo: l’Islanda ci ha dato una bella lezione, grazie a una svista dei suoi governanti. Invece di far votare su cose contorte e lontane dalla gente, hanno ammesso un referendum che poneva ai cittadini una questione elementare: dobbiamo pagare noi un debito che altri hanno contratto, senza chiederci il parere e senza informarci?
“Solo” il 93% si è espresso nettamente per il rifiuto di pagare, mentre ha votato Si solo l'1,7 % degli elettori (il resto delle schede sono state annullate o erano bianche). L’effetto di un voto così massiccio è stato sorprendente: il referendum è servito a spingere Gran Bretagna e Olanda a fare subito offerte migliori all'Islanda, e i negoziati dunque continueranno. La rabbia della gente per il modo in cui banchieri, speculatori e un capitalismo senza regole hanno messo in pericolo e poi messo in ginocchio un intero paese, è stata tale che il presidente della repubblica islandese, Olaf Ragnar Grimsson, è stato il primo a dire di no alla proposta di legge sul rimborso e, a differenza di quel che fa il nostro Presidente, si è rifiutato di firmarla, diventando il portavoce del diffuso malcontento popolare, espresso con cartelli con slogan come "salviamo il paese, non le banche" e "no al capitalismo strozzino". Mandare le cannoniere in Islanda in questa situazione era pericoloso, avrebbe voluto dire attirare di più l’attenzione su questo piccolo paese che ha riscoperto la capacità di dire No a un’ingiustizia.
Ma anche la Grecia ci sembra da imitare: anche se il vecchio partito comunista si è assurdamente astenuto in Parlamento sulle misure che tagliano pensioni e salari e che aumentano l’Iva, classica tassa sui poveri, la maggior parte della popolazione, compresi i militanti di quel partito comunista così cauto, si è scatenata contro i palazzi del potere politico ed economico. I metodi duri servono sempre: poche settimane fa in Germania uno sciopero della Lufthansa, annunciato come sciopero totale di quattro giorni, quindi in grado di paralizzare il paese, ha avuto un tale successo, che ha spinto l’azienda e il governo a cambiare atteggiamento prima della fine del primo giorno di lotta, accettando di riaprire la trattativa. Così si fanno gli scioperi, non con le fermate simboliche che portano danno alle tasche dei lavoratori in lotta senza colpire la controparte!
In Grecia gli striscioni che hanno aperto le manifestazioni dicevano: Non paghiamo! Alludono ai giganteschi prestiti concessi dall’Europa per pagare gli interessi dei prestiti precedenti. Il bilancio pubblico è pieno di buchi, e il governo deve pagare 13 miliardi di euro solo di interessi, e le banche si aspettano altri 13 miliardi come “rendita di capitali”. Un totale di 26 miliardi che è una provocazione: esattamente la stessa cifra del bilancio per salari e pensioni del pubblico impiego… Le banche greche hanno profitti alle stelle, mentre si tagliano pensioni e stipendi. E non sono solo le banche a ingrassare a spese dello Stato: Il ministro delle finanze Giorgos Papakonstantinou si lamenta che i greci non pagano abbastanza tasse, ma questo corrisponde a una scelta dei governi, di destra e di sinistra. Le imposte dirette in Grecia rappresentano un misero 7,7% del Pil, contro una media del 13% in Europa. Papandreou e Papakonstantinou dicono che vogliono combattere l’evasione illegale, ma in Grecia il maggior problema è l’evasione “legale”: ad esempio gli armatori, che sono tra i più ricchi del mondo, sono esentati dalle imposte, con una legge del 1967 (fatta quindi sotto la dittatura militare) che tuttavia è stata accettata da tutti i governi successivi, e inserita perfino nella costituzione.
Ma tutte le grandi imprese pagano pochissimo: i profitti delle banche ad esempio sono stati gravati da un’imposta del 7%, mentre per lavoratori e pensionati si può arrivare anche al 40%, e un lavoratore che guadagna 30.000 euro lorde all’anno, ha già un’imposta di 4.500 euro, pari al 15%. Per questo i greci sono furiosi.
Tante tasse per giunta non garantiscono servizi decenti: gli ospedali pubblici sono senza medici e infermieri, le strade dissestate, le scuole allo sfascio (come in Italia): cosa può tagliare ancora il governo, per ascoltare i consigli di Angela Merkel?
E la rabbia aumenta perché il paese è tartassato dalla corruzione, dal nepotismo, e ogni tanto (poco, come in Italia, ma basta per capire) vengono fuori affari miliardari. Uno ha coinvolto la Siemens, che aveva pagato somme enormi per avere appalti dal governo. Il suo dirigente greco, Michael Christoforakos, se ne è scappato indisturbato in Germania, dove circola tranquillamente. Per questo oggi la parola d’ordine più sentita è “Non paghiamo!”

lunedì 10 maggio 2010

Dalla Grecia all'Europa


Con il varo del piano di salvataggio europeo si annunciano maxi-stangate in tutta la Ue. A Spagna e Portogallo già vengono richieste correzioni di bilancio molto pesanti. E presto l'austerity si estenderà all'Italia. Sinistra Critica fa appello alla sinistra politica, sociale e sindacale per una mobilitazione unitaria


La crisi greca si sta traducendo, dopo l'approvazione del piano di risanamento del governo socialista di Papandreu, in un attacco senza precedenti alle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici di quel paese. Riduzione dei salari, dei diritti, delle pensioni, tagli al pubblico impiego e ai servizi sociali, aumento indiscriminato delle tariffe, senza nessun intervento sui profitti e sulle rendite, costituiscono l'unica ipotesi messa in campo per arginare il buco dei conti pubblici alimentato da corruzione, parassitismo e corsa al profitto.
Contro questa ricetta sindacati e lavoratori hanno iniziato una risposta cui vogliamo dare il nostro pieno sostegno come abbiamo già fatto con l'appello firmato da circa quaranta organizzazioni della Sinistra anticapitalista europea tra cui Sinistra Critica.
Ma i piani di austerity stanno per abbattersi sull'intera Europa e non solo sulla Grecia. Gli accordi siglati la scorsa notte per costituire un Fondo europeo di garanzia da 600 miliardi di euro significano semplicemente che ciascun bilancio nazionale sarà d'ora in poi monitorato e scandagliato dai tecnocrati europei i quali detteranno le prossime manovre finanziarie ai governi in nome del rigore monetario. E' quanto sta per avvenire con la Spagna e il Portogallo ed è quanto avverrà anche in Italia dove si parla già di una manovra correttiva di 25 miliardi di euro, di allungamento ulteriore dell'età pensionistica, di tagli alla spesa sociale e così via. E dove la crisi viene fatta pagare anche sotto forma di riduzione dei diritti come dimostra l'ipotesi di cancellare lo Statuto dei lavoratori o il Collegato lavoro discusso in Parlamento senza una vera opposizione.
Anche il ritorno in auge di prospettive di "unità nazionale" e di governi "di salute pubblica" sta a indicare la possibilità di un nuovo massacro sociale che colpirà i soliti noti.
Pensiamo che contro le ricadute sociali della crisi sia indispensabile mobilitarsi e non farsi trovare impreparati. Le conclusioni del congresso Cgil non aiutano in questa direzione. Le forze politiche, sociali, sindacali che non vogliono abbandonare una visione di classe e un'intransingente difesa dei diritti, delle condizioni e delle prospettive di lavoratori, lavoratrici, giovani, precari e precarie devono e possono trovare una convergenza unitaria per organizzare la più ampia mobilitazione.
Per questo facciamo appello a tali forze per realizzare in tempi rapidi un incontro nazionale per costituire, nel rispetto delle diverse autonomie e dei diversi ruoli, una iniziativa realmente unitaria, efficace, fuori dal coro dell'unanimità liberista - che caratterizza anche il Pd e il centrosinistra - e in grado di dire che le nostre vite valgono più dei loro profitti.
Esecutivo nazionale di Sinistra Critica

venerdì 7 maggio 2010

La crisi fa capolino in Italia


Avvertimento obliquo dell'agenzia Moody's: attenti che se si scatena la speculazione il vostro sistema bancario non regge. Berlusconi non commenta. Tremonti interviene alla Camera e non li cita nemmeno ma parla a un'aula semideserta. La Grecia intanto approva il piano con i voti del Pasok e dell'estrema destra. Il Pd avrebbe fatto lo stesso


Salvatore Cannavò
Mentre il Parlamento greco ha oggi approvato il piano di austerità con i soli voti della maggioranza di governo e del partito di estrema destra Laos, il dibattito sulla crisi è sbarcato in Italia "grazie" all'ennesimo report dell'ennesima agenzia di rating, Moody's che ha puntato il dito contro la presunta fragilità del sistema bancario italiano. Una dichiarazione che ha affondato la borsa di Milano (-4,6%) ma che non è bastata a ravvivare un dibattito parlamentare svoltosi praticamente in un'aula deserta.
Il governo Papandreu ha ottenuto il via dal Parlamento greco con 172 voti a favore, 121 no e 3 astenuti, tutti e tre del Pasok e che per questo sono stati espulsi dal gruppo parlamentare. I conservatori di Nd - con l'eccezione dell'ex ministro degli Esteri Dora Bakoyannis - e i partiti della sinistra, Kke e Syriza, hanno votato contro. Mentre il Parlamento votava, fuori, circa 10mila persone hanno partecipato alle manifestazioni indette dai sindacati e dal Kke. Sindacati che hanno annunciato un nuovo sciopero generale per la prossima settimana.
Ma la crisi oggi è sbarcata prepotentemente in Italia con il rapporto diffuso in mattinata dall'agenzia Moody's. «L'Italia è un paese con un sistema bancario finora piuttosto solido» si legge nel rapporto, «ma nel quale il rischio maggiore è rappresentato dal rischio di contagio nel caso dovessero aumentare le pressioni dei mercati sul debito sovrano». Moody's evidenzia come «ognuno dei sistemi bancari di questi paesi deve affrontare sfide di diverso livello», anche se «il rischio di contagio potrebbe attenuare tali differenze ed esporle tutte a minacce reali e generalizzate». In particolare, l'agenzia conferma come il Portogallo sia «sotto stretta osservazione» ed anticipa «un possibile abbassamento del rating di tutte le banche» lusitane. In ogni caso, l'elemento fondamentale, ammette Moody's, sara «il giudizio del mercato sul successo o meno del pacchetto di aiuti alla Grecia».
Da notare lo stile falsamente scientifico con cui si fa riferimento "al mercato" e alla sua possibile pressione sul sistema bancario. L'affermazione andrebbe letta molto più chiaramente in questo modo: se la speculazione internazionale decide di colpire il sistema bancario italiano, non siamo sicuri che questo regga. Un'affermazione del tutto evidente e che getta uno squarcio di verità su quanto sta avvenendo sui mercati finanziari internazionali ma anche sullo stesso ruolo delle agenzie di rating. E' stato addirittura Romano Prodi a dover ricordare che Moody's era la stessa che «assegnava 10 e lode a Lehman Brothers» prima che questa fallisse.
Insomma, le valutazioni dell'agenzia americana non vengono prese sul serio più di tanto ma non c'è molto da scherzare. La riduzione del rating sul Portogallo significa semplicemente un via libera alla speculazione e la tenuta dell'euro non è così certa se, ancora Prodi, eurottimista convinto dichiara che «l'euro non rischia se c'è saggezza, se prevalgono pulsioni suicide tutto è possibile». Intanto la moneta unica è in una fase di grande debolezza contro il dollaro e oggi ha toccato il minimo storico contro il franco svizzero.
Ma la situazione non è bastata a destare l'attenzione del Parlamento che nel pomeriggio ha fatto finta di ascoltare l'informativa urgente del ministro Tremonti. Urgente a parole ma non nei fatti. Nell'emiciclo di Montecitorio abbiamo contato una decina di deputati del Pdl, una quarantina del Pd, due o tre dell'Idv, una dozzina dell'Udc, due della Lega e altri sparsi. Poco più di 70 su 630 componenti la Camera. Una prova di sensibilità politica e di dignità istituzionale che la dice lunga sul ruolo del Parlamento italiano.
Eppure, Tremonti ha esordito dicendo che la crisi riguarda tutti, che l'attacco speculativo riguarda la zona euro e che la crisi non è mai finita, essendo questa solo la seconda parte di un'unica crisi «sistemica» scoppiata due anni fa. Nulla quanto a proposte incisive ma grande responsabilità istituzionale.
Un intervento che non ha registrato praticamente opposizione, con il ministro in grado di assentire più volte durante l'intervento di Piero Fassino, fatto a nome del Pd, che ha rivendicato i meriti del precedente governo in tema di risanamento finanziario, ha mostrato vicinanza al "compagno" socialista Papandreu, ha chiesto una forte propensione europeista e un po' di soldi per la crescita economica. Un intervento che avrebbe quasi potuto fare Tremonti e che non ha chiesto nulla sul piano sociale. Ascoltandolo in aula non si potevano avere dubbi: se fosse in Grecia, Fassino, e il Pd, farebbe esattamente quello che sta facendo il Pasok.

giovedì 6 maggio 2010

Atene, dallo sciopero alla tragedia


La più grande manifestazione della storia greca, secondo i sindacati che l'hanno indetta, è stata funestata dalla morte di tre impiegati di una banca assalita a colpi di molotov. Un esito che ha confuso e scosso la piazza. Domani nuove manifestazioni mentre il Parlamento voterà il piano di austerità. Il governo chiede l'unità nazionale ma resta solo


nostro servizio
La più grande manifestazione di sempre nella storia recente della Grecia. “Ma anche la più triste” dice Dimitri, uno dei dirigenti della Sinistra anticapitalista greca, testimone della assurda violenza che ha provocato tre morti a seguito del lancio di bottiglie molotov contro una banca di Atene. L’episodio ha marchiato a sangue una giornata nata sotto altri auspici, per quanto si temessero comunque gli scontri con la polizia. Al termine della manifestazione, infatti, un gruppo di black bloc, ha preso di mira, con il lancio di bottiglie molotov, la sede della Marfin Egnatia Bank, al centro di Atene, con i propri dipendenti al lavoro nel giorno dello sciopero. Le molotov sono arrivate inaspettate. Le persone bloccate dentro, una ventina, non sono riuscite a uscire dalla porta e sono così dovute salire ai piani superiori. Ma tre di loro, due donne, di cui una, impiegata della banca, incinta, e un uomo, non ce l’hanno fatta a salvarsi e sono morte di asfissia. La donna incinta è stata ritrovata semicarbonizzata.
La giornata era cominciata con una grande manifestazione popolare, la più grande nella storia greca, come dicono i sindacati che l’hanno indetta, il Gsee, del settore privato, e l’Adedy del pubblico. In piazza molta più gente – centomila o forse più - di quanta ne possa mobilitare la sinistra, moltissimi giovani ma anche famiglie con carrozzine al seguito. E come vuole la tradizione greca, con un’adesione allo sciopero del 100%, o quasi.
Poco prima del tragico assalto alla banca, davanti al Parlamento – che è in seduta per discutere il piano di risanamento “chiesto” dalla Ue – un gruppo di black bloc si è scontrato con la polizia che ha iniziato a sparare gas lacrimogeni. Gli scontri sono durati circa un’ora. Ma gli incidenti sono stati segnalati anche a Salonicco e Patrasso dove si sono svolte grandi manifestazioni. E sempre ad Atene altri due palazzi sono stati dati alle fiamme ma senza conseguenze gravi. La componente violenta delle manifestazioni rischia di avere un peso decisivo sul loro svolgimento e, alla lunga, sul loro esito. Episodi di violenza si susseguono infatti in Grecia da anni e ora la situazione, esplosiva sul piano sociale, non può che peggiorare. La componente anarchica e autonoma è in forte crescita – ci sono anche alcune frange implicate nella lotta armata – e i loro spezzoni nel corteo erano piuttosto imponenti.
La polizia ha compiuto già quattro fermi e ha decretato lo stato di “allarme generale”. Il premier greco Giorgio Papandreou, in seguito alla situazione creatasi, ha invocato l'unità nazionale ribadendo l'invito ad un vertice di tutti leader politici affinché “tutti si assumano le proprie responsabilità”. Ma al momento non sembra che i conservatori della Nea, oggi all’opposizione, abbiano intenzione di accogliere l’appello e di modificare la decisione di votare contro i provvedimenti. Ad appoggiare il Partito socialista (Pasok) ci sarà, molto probabilmente, solo la formazione di estrema destra, Laos, mentre in Parlamento sia Syriza, la coalizione della sinistra radicale, che il Kke hanno dichiarato la loro volontà di proseguire con le mobilitazioni.
E già domani, giovedì, ci saranno nuove manifestazioni. Alle 18, nel momento in cui il Parlamento dovrà votare il piano di austerità, Gsee e Adedy hanno convocato una nuova manifestazione per reagire alla tragedia di ieri ma anche per confermare, come ha dichiarato il Gsee, che “la lotta va avanti”. Contemporaneamente anche il Kke terrà la sua autonoma manifestazione nella tradizione di un partito che segue un percorso proprio di mobilitazione, rifugge l’unità e pensa in primo luogo al proprio consolidamento. Diverso, e più movimentista, l’atteggiamento dell’altro principale blocco della sinistra di opposizione, la coalizione Syriza, che chiede un referendum. Alla loro sinistra i sindacati di base, che hanno realizzato una forma di coordinamento operativo e la Sinistra anticapitalista che considera il referendum una mossa solo difensiva e che invece cerca di spingere sul proseguimento degli scioperi e su azioni dimostrative che diano continuità alle mobilitazioni.
Come evolverà la situazione è molto difficile dirlo. La disponibilità a mobilitarsi si è resa evidente ma la tragedia odierna costituisce un evidente elemento di confusione e demoralizzazione. Il Kke sembra molto più concentrato sulla propria costruzione e crescita che sull'effettiva unitarietà del movimento mentre Syriza scommette sui cortei ma non sulla continuità degli scioperi. La Sinistra anticapitalista punta invece su questi ultimi e sta cercando di realizzare un lavoro unitario a partire anche dal coordinamento del sindacalismo di base. Situazione difficile, in cui pesa la crisi e i suoi effetti profondi e in cui è tutta da valutare la realtà del Pasok, il partito chiamato a gestire la più dura ristrutturazione sociale della storia recente.

martedì 4 maggio 2010

"Non paghiamo la loro crisi"


Una trentina di organizzazioni della sinistra anticapitalista europea, compreso l'est e la Russia, siglano una dichiarazione di solidarietà ai lavoratori greci e si impegnano a iniziative contro la crisi.

1. La crisi economica globale continua. Enormi quantità di denaro sono stati iniettati nel sistema finanziario - 14 000 miliardi di dollari per le misure di sostegno negli Stati Uniti, Gran Bretagna e della zona euro, 1400 miliardi di prestiti bancari in Cina lo scorso anno - un grande sforzo per dare una nuova stabilità all'economia globale. Ma questi sforzi se saranno sufficienti a produrre una ripresa sostenuta, lasciano irrisolto il problema. La crescita resta molto lenta nelle economie avanzate, mentre la disoccupazione continua ad aumentare. Si teme che una nuova bolla finanziaria, questa volta incentrata sulla Cina, abbia iniziato a crescere. La natura prolungata della crisi - che è la peggiore dalla Grande Depressione - è sintomatica del fatto che essa è radicata nella natura stessa del capitalismo come sistema.

2. Dopo una dura ondata di tagli occupazionali, in Europa al centro della crisi è ormai il settore pubblico e il sistema di welfare. Gli stessi mercati finanziari che sono stati salvati dai piani di salvataggio sono ora sul piede di guerra contro il crescente debito pubblico, che tali piani hanno guidato. Hanno chiesto massicci tagli della spesa pubblica. E' un tentativo chiaramente di classe per far pagare i costi della crisi non a coloro che l'hanno scatenata - in particolare le banche - ma ai lavoratori e alle lavoratrici - non soltanto a coloro che sono occupati nel settore pubblico, ma anche a tutti gli utenti dei servizi pubblici. I requisiti di austerità e di "riforma" del settore pubblico mostrano nel modo più chiaro possibile che il neoliberismo, intellettualmente screditato dalla crisi, tuttavia, continua a dominare le decisioni politiche.

3. La Grecia è attualmente al centro della tempesta. Come molte altre economie europee, è particolarmente vulnerabile, anche a causa di un accumulo di debito durante la fase di espansione, in parte perché ha una certa difficoltà a competere con la Germania, il gigante della zona euro. Sotto la pressione dei mercati finanziari, della Commissione europea e del governo tedesco, il governo di Georgios Papandreou si è scordato le sue promesse elettorali e ha annunciato tagli di bilancio pari al 4% del Pil.

4. Fortunatamente, la Grecia ha una ricca storia di resistenze sociali dagli anni 70 in poi. Dopo la rivolta dei giovani, nel dicembre 2008, il movimento operaio greco ha risposto al pacchetto di tagli di bilancio del governo con una ondata di scioperi e manifestazioni.
Sottolineiamo positivamente anche l'esempio del referendum in Islanda, in cui il popolo ha respinto il principio del rimborso del debito imposto dalle banche.

5. I lavoratori greci bisogno della solidarietà dei rivoluzionari, dei sindacalisti, degli anti-capitalisti di tutti i paesi. La Grecia è solo il primo paese europeo a essere bocciata dai mercati finanziari, ma la lista dei potenziali obiettivi include molti altri, in primo luogo lo Stato spagnolo e il Portogallo.

6. Abbiamo bisogno di un programma di misure in grado di far uscire l'economia dalla crisi, sulla base della priorità accordata alle esigenze sociali, piuttosto che ai profitti e imponendo il controllo democratico sul mercato. Dobbiamo lottare per una risposta anti-capitalista: la nostra vita, la nostra salute, i nostri posti di lavoro valgono più i loro profitti.

· Tutti i tagli nei bilanci pubblici devono essere bloccati o invertiti: no a"riforme dei sistemi pensionistici; la sanità e l'istruzione non sono in vendita;

· Un diritto garantito al lavoro e un programma di investimenti pubblici in posti di lavoro ecologici: trasporti pubblici, industrie di energia rinnovabile e l'adeguamento degli edifici pubblici e privati per ridurre le emissioni di biossido di carbonio;

• Per un sistema bancario e finanziario unificato pubblico sotto il controllo pubblico!

· Gli immigrati e i rifugiati non devono essere i capri espiatori della crisi: documenti per tutti!

· No alle spese militari: ritiro delle truppe occidentali dall'Iraq e dall'Afghanistan, massicce riduzioni delle spese militari, e scioglimento della NATO.

7. Abbiamo deciso di organizzare attività di solidarietà in tutta Europa contro i tagli alla spesa sociale e gli attacchi capitalisti. Una vittoria dei lavoratori greci rafforzerà la resistenza sociale in tutti i paesi.

Grecia : Aristeri Anasynthesi, Aristeri Antikapitalistiki Syspirosi, Organosi Kommuniston Diethniston Elladas-Spartakos, Sosialistiko Ergatiko Komma, Synaspismos Rizospastikis Aristeras ;
Portogallo: Bloco de Esquerda;
Germania: Internationale sozialistische linke, marx21, Revolutionär Sozialistischen Bund;
Austria: Linkswende;
Belgio: Ligue Communiste Révolutionnaire - Socialistische arbeiderspartij;
Croazia: Radnička borba;
Cipro: Ergatiki Dimokratia;
Stato spagnolo: En lucha/En lluita, Izquierda Anticapitalista, Partido Obrero Revolucionario;
Francia: Nouveau Parti Anticapitaliste
Gran Bretagna: Socialist Resistance, Socialist Workers Party
Italia: Sinistra Critica
Irlanda: People Before Profit Alliance, Socialist Workers Party
Paesi Bassi: Internationale Socialisten, Grenzeloos
Polonia: Polska Partia Pracy, Pracownicza Demokracja
Russia: Vpered
Serbia: Marks21
Svizzera: Gauche anticapitaliste, Mouvement pour le socialisme /Bewegung für Sozialismus, solidaritéS
Turchia: Devrimci Sosyalist İşçi Partisi, Özgürlük ve Dayanışma Partisi.