lunedì 29 giugno 2009

Da Vicenza alla manifestazione a l'Aquila: l'agenda contro il G8


Il 21 Giugno si è svolta a L’Aquila l’assemblea nazionale contro il G8. Report Assemblea

L’Assemblea, molto partecipata ed eterogenea ha ripreso il comunicato “L’Aquila e le altre”, emerso dalla precedente assemblea del 1 giugno, con le sue caratteristiche di diffusione e dislocazione delle mobilitazioni contro il G8.
Dal 2 al 10 Luglio vi saranno dunque iniziative diffuse in tutte le città italiane, mobilitazioni che saranno rivolte contro i responsabili della crisi e caratterizzate dalla solidarietà verso le popolazioni terremotate e per una ricostruzione sociale del territorio abruzzese.

Le iniziative previste dal 2 al 10 Luglio seguiranno questo calendario:

- 2 luglio diverse manifestazioni sono già promosse da associazioni e realtà territoriali in Sardegna.

- 4 luglio a Vicenza, manifestazione per restituire il Dal Molin ai cittadini. Indipendenza, dignità, partecipazione: la terra si ribella alle basi di guerra.

- 7 luglio a Roma, accoglienza ai grandi dove la rete NoG8 indice, in occasione della presenza nella capitale delle delegazioni internazionali in transito verso il G8 di Coppito, una “Giornata dell’Accoglienza ai Potenti della Terra”, con iniziative diffuse e “piazze sociali anti-crisi”.

- Sempre il 7 luglio a Pescara, si svolgerà un’iniziativa di Goletta Verde contro il decreto sicurezza in solidarietà ai migranti, dal titolo "L’Abruzzo è un porto di mare, noi non respingiamo!”, mentre il 9 luglio si svolgeranno sempre in città iniziative in difesa dell’acqua come bene comune dell’umanità.

- 8 luglio iniziative dislocate in tutte le città, per disegnare una “Mappa della Crisi” attraverso la quale I territori, le comunità e le organizzazioni sociali in resistenza a partire da Roma, passando per Napoli, Genova, Padova, Bologna, Milano, Ancona, Palermo e tutte le altre, manifesteranno la propria indignazione contro la crisi, il carovita, la precarietà, la disoccupazione, la devastazione ambientale, la mercificazione dei beni comuni, la militarizzazione.

Le proposte emerse rispetto alle mobilitazioni sul territorio aquilano, infine sono quelle di:

- Una fiaccolata per chiedere “verità giustizia e ricostruzione sociale”che si svolgerà dalla mezzanotte fino alle 3e32 del 6 Aprile.

- Un forum sulla ricostruzione sociale che si svolgerà a l’Aquila il 7 Luglio e affronterà i temi peculiari del territorio aquilano in rapporto alla crisi globale.

- E infine, per il 10 luglio, una marcia pacifica e di massa nei territori del terremoto che esprima la solidarietà alle popolazioni aquilane, la necessità di una ricostruzione sociale, ma anche il dissenso generalizzato contro la crisi, sulla quale non essendo emersa una reale condivisione i promotori chiedono nei prossimi giorni un confronto alle realtà locali sulla costruzione di tale iniziativa.

E’evidente che l’accelerazione che ha subito il contesto è stata una conseguenza diretta del terremoto e della scelta ignobile di questo governo di voler svolgere in questo territorio il G8 della crisi, scelta che tutti i presenti hanno nuovamente condannato.

Il modo migliore che abbiamo individuato, per sintetizzare una lunga assemblea come quella di oggi, è stato quello di riportare in questo report tutti gli appuntamenti.

Chiediamo infine in maniera determinata e condivisa datutti, che chiunque voglia portare qui la propria solidarietà e i propri percorsi di lotta in quei giorni lo faccia nel rispetto totale della situazione drammatica che si vive in questo territorio. Mancano solo 16 giorni al G8, saranno quindi le varie realtà che costruiranno le mobilitazioni a diffondere al più presto maggiori informazioni sulle singole iniziative.

L’Aquila, 21 giugno 2009

giovedì 25 giugno 2009

INTERVENTO DELLA MILITANTE SINDACALE DELL’AUTO DI DETROIT WENDY THOMPSON


Appunti perla relazione introduttiva

Ora in pensione, ho lavorato nell’industria automobilistica a Detroit per trentatre anni. Sono stata una delle prime donne a entrare nella fabbrica General Motors dove ho lavorato nel reparto che fabbricava assali. Sono stata eletta rappresentante sindacale per la maggior parte dei miei anni di lavoro nella fabbrica. La mia è stata una delle prime cinque fabbriche GM vendute nel 1994 diventando un nuovo fornitore di componentistica che si chiama American Axle. Sono stata presidente della sezione locale negli ultimi sei anni prima di andare in pensione.

Discussione :

Sono contenta di venire in Europa a discutere della crisi mondiale dell’industria automobilistica. Oggi in pensione, starò in Europa per quattro mesi. Ho comprato una Citroën fabbricata nel 1987 e farò campeggio. Abito in campeggio perché al ritorno rischio di perdere la pensione e l’assicurazione malattie pagate dalla compagnia. (Si spera comunque che le cose non vadano così!)

Sono andata in pensione per lasciare il posto a un giovane. Ma il lavoro ben retribuito che ho lasciato, ora non esiste più per i giovani.

Per noi è molto importante mantenere l’assicurazione sanitaria e la pensione.
In passato, il sindacato americano dell’auto (UAW = Sindacato dei Lavoratori dell’Auto) sosteneva l’idea che tutti devono avere prestazioni sociali e pensioni finanziate dallo Stato. Il sindacato aveva una tradizione militante che risaliva agli anni 1930.
I padroni volevano un sistema in cui il finanziamento fosse organizzato da ciascuna impresa, perché questo dava loro un maggior controllo sugli operai e li rendeva più docili. Se si perdeva il lavoro, si perdevano insieme anche le prestazioni sociali .
Anche oggi, le compagnie automobilistiche non vogliono sviluppare l’assicurazione malattia o le pensioni per ripartizione a causa dei legami che hanno con gli altri settori della classe dirigente. Il montante delle pensioni versate dallo stato è solo il trentotto per cento del salario, mentre nella maggior parte dei paesi industrializzati è il sessantacinque/settanta per cento.
Ma il sindacato si è molto indebolito dopo gli anni millenovecentoquaranta e soprattutto dopo l’epoca del maccartismo. Questo perché la direzione che ne ha preso il controllo non accettava altri punti di vista e ha creato posizioni fisse nella struttura, soprattutto ai vertici, ma anche a livello locale. Non c’era discussione su che fare di fronte ai problemi. Persino quando i suoi statuti sembravano democratici, l’organizzazione non era tale.

Io sono il prodotto della grande lotta in Francia nel ’68. Studiavo all’Univesità Aix-Marseille nel ‘68/’69. Prima di venire qui in Francia ero già un’attivista politica nel movimento per i diritti civili e nel movimento contro la guerra in Vietnam. Ma è qui che ho cominciato a capire l’importanza del movimento dei lavoratori, (è qui che sono diventata socialista e ho pensato che una rivoluzione democratica reale era possibile.)
I lavoratori in sciopero erano venuti all’università a parlare della loro lotta. Centinaia di studenti erano venuti a sostenerli. Prima di queste esperienze, ero abituata a pensare ai lavoratori come quelli dell’edilizia negli Stati Uniti che sputavano sui manifestanti contro la guerra in VietNam. Sono stata colpita in Francia quando gli studenti che andavano verso una fabbrica con un volantino politico hanno fatto fermare un autobus di lavoratori per raccogliere dei volantini politici da portare nella fabbrica.
Sono ritornata negli Stati Uniti, piena di speranza di costruire un mondo nuovo. Sono diventata una dei militanti della mia generazione che hanno tentato di creare un movimento di base in seno ai sindacati. Nel 1972, quando ho cominciato a lavorare in fabbrica, c’erano molti scioperi selvaggi contro il caldo, le cattive condizioni di lavoro nocive per la salute, e i capi discriminatori. In quell’epoca, le persone si sentivano forti, facevano le lotte contro le compagnie e hanno tentato di cambiare il sindacato che giudicavano troppo debole in fabbrica. I neri hanno conquistato più posizioni nel sindacato.

Dopo la crisi del petrolio nel ’75, anche quando molte persone vennero licenziate, non si è sviluppato un movimento di lotta contro la disoccupazione. È stato un successo il giornale di base Labor Notes, che esiste ormai da quasi trent’anni e che parla delle lotte nel paese e internazionali contro le multinazionali e parla dei tentativi di democratizzazione dei sindacati.

Le compagnie automobilistiche negli Stati Uniti hanno cominciato a fare i grandi veicoli dopo la crisi del petrolio anche quando era chiaro che occorreva un cambiamento. È perché hanno fatto molti più profitti per ciascun veicolo. Profitto che è minore per le piccole vetture. È per questo che le compagnie americane hanno deciso di lasciare le piccole vetture alle compagnie straniere. E ci si può chiedere se ora funzionerà il fare solo piccole vetture.

L’epoca delle concessioni è cominciata negli anni ottanta durante la prima crisi della Chrysler. Le direzioni sindacali hanno preso la decisione di servire gli interessi della compagnia per salvarla. Questo orientamento ha portato alla situazione in cui i lavoratori non sono preparati oggi a questa crisi. Le concessioni non hanno salvato il lavoro. Nel 1979, 465.000 lavoravano alla GM. Adesso sono solo 62.000, e Obama dice che 45.000, sono troppi! Una concessione ha portato semplicemente a un’altra. In quel momento si è creata una cultura diversa in seno al sindacato. Si è detto che gli interessi dei lavoratori e delle compagnie erano gli stessi.

Fin dall’inizio delle concessioni avevo preso posizione contro.
Alla fine degli anni 1980, fu eletto al comitato di direzione un militante di una corrente di opposizione in seno allo UAW che si chiamava New Directions. Questa corrente ha condotto lotte contro il cambiamento delle regole sul lavoro chiamato produzione flessibile in cui il padrone ha tentato continuamente di avere meno lavoratori a fare più lavoro. Ha usato la tattica dello sciopero bianco in cui si fa solo quello che il contratto stipula. I cambiamenti delle regole spesso non sono stati fatti a livello nazionale ma a livello locale. In questo modo, la compagnia poteva rilanciare. Davano il lavoro nuovo alla sezione locale che aveva accettato le concessioni e punivano quelle che non avevano fatto concessioni. Le New Directions sono state un movimento forte che è stato schiacciato dai capi sindacali. Se il gruppo al potere avesse fatto le lotte contro la «produzione flessibile» come fa contro le sezioni sindacali indipendenti, oggi saremmo in una posizione più forte.

Il clima politico nel paese è cambiato in questi anni. Quale che sia la parte politica, siano i democratici o i repubblicani, sia Carter, Reagan, Clinton o Bush, i politici hanno contribuito a creare una atmosfera contro i sindacati. I media sono stati sempre più controllati dalla destra e hanno avuto un ruolo importante anche contro i sindacati.

Per molto tempo la destra americana, ridurre per le tasse, ha detto che non c’era bisogno dello Stato. Molti lavoratori, soprattutto bianchi non hanno capito che queste idee hanno beneficiato i ricchi e non loro. Ma è difficile vedere lo Stato come soluzione quando i politici sono corrotti e non rappresentano il popolo.

La mia è stata una delle prime cinque fabbriche di GM vendute nel 1994 diventando un nuovo fornitore di componentistica che si chiama American Axle. GM ha detto al sindacato che vuole che dei lavoratori della componentistica guadagnino di meno dei lavoratori del montaggio. Quando il sindacato ha detto no, GM e poi Ford hanno venduto le fabbriche della componentistica. È stata una strategia di estermalizzazione e di subfornitura. Ci si è sempre più sbarazzati del lavoro della gente pagata meglio.

Sono stata presidente della sezione locale negli ultimi sei anni prima di andare in pensione e ho partecipato alle negoziazioni nazionali. Abbiamo conquistato due volte per le fabbriche vendute un contratto uguale a quello di GM. Poi GM ha venduto Delphi e il sindacato ha deciso di concedere salari e benefici a due diversi livelli per lo stesso lavoro. I nuovi assunti avevano salari pari alla metà degli altri, senza pensioni fisse e con benefici molto inferiori. È stato un disastro per l’unità dei lavoratori. Sono stata l’unica persona nelle negoziazioni a prendere posizione contro i due livelli e la base è stata organizzata dalla mia sezione e ha votato no.

Dopo il fallimento di Delphi, ci sono state grandi assemblee di base nel Mid West dove la gente ha cercato di organizzare la tattica dello sciopero bianco. Ma la partecipazione è scomparsa con le offerte di denaro per lasciare la fabbrica.
Poi, c’è stato uno sciopero militante durato quattro mesi nella mia compagnia American Axle. Gli altri lavoratori dell’automobile e i membri della comunità hanno sostenuto spontaneamente gli scioperanti. Ma i risultati sono stati disastrosi perché i capi sindacali hanno rifiutato di organizzare l’unità con i lavoratori del Messico dove la compagnia esternalizzava il lavoro, e non hanno mobilitato la base per la disobbedienza civile come era necessario.

Quando è cominciata la crisi economica i capi di GM, Chrysler e Ford sono volati a Washington con aerei privati, e i senatori del Sud, di destra, li hanno attaccati come anche il presidente del sindacato. Era chiaro che i politici di destra volevano il fallimento di queste compagnie perché i lavoratori erano sindacalizzati.

Le compagnie di Toyota, Nissan e Honda hanno messo le fabbriche al Sud perché ci sono meno sindacati. Queste compagnie hanno dato molto denaro ai senatori di destra molto denaro per le loro campagne politiche. E i senatori detestavano i sindacati per il ruolo che hanno svolto nella sconfitta di Bush nella elezione del novembre 2008.

La situazione esigeva un’azione di base, ma i capi sindacali non avevano intenzione di organizzarla. Un gruppo di base, tra i quali io stessa, pensava di organizzare una carovana di operai dell’auto e di andare a Washington, D.C. I giornalisti erano molto interessati a sentire il punto di vista dei lavoratori di base. Cerano interviste alla televisione, alla radio, così come articoli sui giornali.

A Washington D.C. c’è stata una grandissima conferenza stampa. Noi abbiamo contraddetto la menzogna che i lavoratori dell’auto guadagnano 70 dollari (50 Euro all’ora. In realtà si tratta di 28 dollari o 20 Euro). Hanno usato questa cifra per mettere gli altri lavoratori americani contro di noi. La realtà è che i settanta dollari includono i contributi per la cassa malattie e la pensione. Inoltre, oggi i lavoratori sono molto meno numerosi dei pensionati.

La destra cerca di spingere gli altri lavoratori contro quelli dell’auto. Noi abbiamo chiamato questo le «politiche del risentimento». Ad esempio, un lavoratore della siderurgia che ha perso il lavoro dice: Il governo non mi ha aiutato, perché aiuta voi?

La nostra situazione implica che noi dobbiamo chiedere al governo di mantenere per noi i benefici della pensione e della sanità, quando la maggior parte delle persone non li ha. Nel 1960, il quaranta per cento dei lavoratori aveva un piano pensioni fisso, pagato dalle compagnie. Attualmente è meno del venti per cento. Noi abbiamo detto: il governo deve pagare per l’assicurazione sanità e per le pensioni per tutti. Il messaggio importante è che i lavoratori dell’auto non pensano solo a sé stessi. E l’assicurazione sanità deve essere pagata dallo Stato senza profitto.

Abbiamo elaborato nuove idee come soluzioni per l’industria. Perché non trasformare le fabbriche per fare prodotti per una economia verde? Come durante la seconda guerra mondiale, sarebbe possibile trasformare l’industria molto rapidamente. La questione dell’automobile deve essere vista nel contesto della questione dei trasporti e delle energie alternative per aiutare l’ambiente. Si può cominciare a produrre treni leggeri, treni a grande velocità, e auto elettriche. Non c’è sufficiente trasporto collettivo. In passato, GM ha prodotto locomotive e autobus. C’è necessità di turbine per gli impianti eolici. Non è necessaria la chiusura di un numero tanto grande di fabbriche quando c’è un lavoro importante da fare.


Negli Stati Uniti i lavoratori sindacalizzati hanno salari, benefici, e condizioni di lavoro del venti per cento migliori di quelli non sindacalizzati. Negli anni cinquanta, i sindacalizzati erano il trentotto per cento e attualmente, nel settore privato, sono meno dell’otto per cento. È una grande divisione, e la soluzione è che i non sindacalizzati aderiscano a un sindacato e salgano al livello dei sindacalizzati e non l’opposto.

A gennaio il nostro gruppo di base “autoworkers caravan” ha organizzato una manifestazione contro le concessioni al grand montage delle auto a Detroit. I capi sindacali non hanno appoggiato la nostra azione. I lavoratori contestavano le concessioni e i giornalisti venuti da tutto il mondo hanno parlato con loro.

Abbiamo cercato di continuare l’azione con una riunione organizzata con gli ambientalisti per i lavori verdi. Il TUA è un sindacato che in passato ha cercato di costruire alleanze con la comunità. Ora le direzioni sindacali si sono unite alle imprese contro gli standard delle emissioni. Noi dobbiamo unirci con gli ambientalisti e l’energia verde cosicché la comunità veda che i lavoratori dell’auto restano leali verso i bisogni delle persone delle classi medie.

In maggio, dopo il fallimento della Chrysler, sono state organizzate manifestazioni in molte città del Midwest da parte dei sindacati dei lavoratori siderurgici. Dicevano che il governo deve dare soldi per mantenere l’industria nel paese e non per progetti altrove.

Quest’estate ci sarà un vertice dei capi dell’economia a Detroit. Allo stesso tempo ci sarà anche un vertice di base con una tendopoli. Si protesterà contro la disoccupazione nell’industria dell’auto. Gli uomini d’affari cercano di impedire che il governo sviluppi i piani elaborati per fare i cambiamenti necessari. L’idea del presidente Obama è di creare compagnie per il profitto. Non è di sinistra. È di centro, quantunque sia preferibile avere un presidente intelligente, competente, un presidente afroamericano in un paese in cui la storia del razzismo è il fattore più importante nel creare una classe operaia divisa e fragile

Aveva torto il governo a dare soldi a Wall Street senza restrizioni, mentre per noi si chiedono concessioni profondissime. Ma c’è un’apertura con la crisi, poiché i non ricchi possono ora vedere che sono le idee della destra che hanno creato questa crisi. È importante.

Ma le imprese pensano che siccome i sindacati sono così deboli, ci si può sbarazzare di loro. Le imprese amano dire che i sindacati non sono democratici e che i capi guadagnano molto di più che i membri di base. E ogni volta che i sindacati accettano concessioni, diventa più difficile convincere la gente ad aderire.

Se si potessero cambiare le cose sarebbe più facile organizzare la gente. È vero per tutte le fabbriche di automobili delle imprese straniere al sud. Il problema finora è lo stesso quando dei lavoratori organizzano la lotta. Non ci sono vittorie e si demoralizzano. Con Bush era molto difficile. È bene che se ne sia andato.

Per gli operai dell’auto in Europa e negli Stati Uniti, le imprese cercano di mantenere la divisione tra i lavoratori dei paesi dell’Est e quelli dell’Ovest.. Per noi ci vuole l’unità tra i lavoratori del Canada, degli Stati Uniti, del Messico e dell’America del Sud. Dobbiamo sviluppare legami sindacali forti per innalzare i salari e le condizioni di lavoro dei lavoratori meno pagati.
Allora, che fare di fronte alla crisi mondiale dell’industria dell’auto?

1) Organizzare il lavoro per tutti
2) Stabilire il controllo dei lavoratori, degli ingegneri, degli ecologisti e della popolazione sul sistema dei trasporti e dell’energia alternativa, e
3) Scendere in piazza per costruire un movimento tanto forte da ottenerlo.

lunedì 22 giugno 2009

LA FIAT NELLA CRISI DELL’AUTO


La crisi economica mondiale del capitalismo che coinvolge tutti i paesi del mondo e che, nella sola Europa, ha già distrutto due milioni di posti di lavoro, si presenta in forme particolarmente acute nel comparto produttivo dell’auto. Esiste una enorme capacità produttiva delle case di automobili (si possono produrre più di 90 milioni di autoveicoli ogni anno, di fronte a prospettive di vendita che oscillano intorno alla metà o al massimo a due terzi, come confermato dallo stesso Marchionne nel recente incontro coi sindacati) dentro il contesto di una crisi economica che è destinata a prolungarsi nel tempo e che incrocia un'altra crisi che ha un impatto immediato su questo settore di produzione, cioè la crisi ambientale.

La risposta padronale alla crisi di sovrapproduzione
La crisi di sovrapproduzione in questo comparto industriale è dunque macroscopica e comporta una acutissima concorrenza tra le diverse case produttrici; siamo alla vigilia di un gigantesco processo di riorganizzazione del settore, alla “madre” di tutte le ristrutturazioni i cui costi in termini di occupazione, diritti, salario dovrebbero essere pagati dal lavoratori per garantire il rilancio dei profitti dei padroni. Le grandi manovre di Marchionne, in America, Germania e Sud America e l’accordo infine raggiunto tra la Fiat e la Chrysler con il beneplacito e l’intervento del governo americano si inseriscono in questo difficile e pericoloso scenario per le lavoratrici e per i lavoratori.
Il problema di Marchionne e dei suoi consimili è relativamente semplice nei suoi elementi costitutivi: deve cercare di sopravvivere operando una forte ristrutturazione, accorpando o accorpandosi con altre case, riducendo gli stabilimenti (possibilmente con la scomparsa di qualche concorrente); deve quindi liberarsi di una parte dei lavoratori, facendo lavorare a ritmi più intensi quelli che rimangono; esattamente quello che ha imposto ai lavoratori della Crysler negli USA prendendoli per la gola con il sostegno della Casa Bianca. E Obama ha ripetuto l’operazione con la nazionalizzazione della General Motors. Gli obbiettivi sono: aumentare ancora la produttività, guadagnare quote di mercato e quindi garantire profitti e dividendi più alti agli azionisti. E le partite Chrysler e GM si sono concluse con una pesante sconfitta del movimento sindacale e dei lavoratori.

La crisi americana
I crolli di vendite dei veicoli hanno coinvolto tutte quante le case automobilistiche, ma hanno prodotto un vero rapido terremoto per quanto riguarda due delle tre grandi compagnie americane, General Motors e Chrysler; anche la Ford è stata fortemente colpita, ma ha retto meglio delle altre due che sono finite in bancarotta.
La debolezza delle compagnie americane rispetto ad altre concorrenti è spiegata da una serie di fattori. In primo luogo l’enorme peso che grava sui bilanci di queste compagnie la previdenza e la sanità aziendale: quella che era un punto di forza e di controllo dei lavoratori, alla lunga si è rivelato un boomerang che ha messo in ginocchio i bilanci dell’aziende. Nessuna azienda può prevedere quale possa essere il costo a distanza di 30 o 40 anni di questi servizi sociali fondamentali che possono essere garantiti durevolmente solo collettivamente dalle strutture pubbliche. Un secondo elemento sono le tipologie di vetture prodotte, soprattutto veicoli di grande cilindrata e di grandi consumi energetici, favoriti anche dal basso costo della benzina negli Usa. Negli USA su 100 vetture solo 15 erano della gamma medio bassa, mentre in Europa il rapporto è di 60 a 100. Queste tipologie di produzione sono state vincenti per tutta una fase perché garantivano fortissimi profitti per ogni vettura venduta, ma nel momento dell’esplodere della crisi più acuta e dell’emergenza ambientale, il crollo verticale di questo segmento di mercato, ha determinato il fallimento di General Motor e Chrysler, cioè di due pilastri della storia del capitalismo americano.
Messi da parte l’ideologia e il verbo liberista, il governo americano è intervenuto in modo massiccio come aveva già fatto per le banche e le assicurazioni, di fatto nazionalizzando la General Motors e acquisendo una partecipazione decisiva anche nella Chrysler.
La nuova struttura della nuova General Motors, dopo la presentazione dei libri contabili alla corte fallimentare (172,81 miliardi di dollari di debito, a fronte di appena 82,29 miliardi di attività patrimoniali) e l’applicazione dell’art. 11, (grosso modo una procedura di fallimento controllato), è la seguente: il tesoro americano avrà circa il 60% delle azioni e tira fuori complessivamente 50 miliardi di dollari. Quello canadese e dello stato dell’Ontario si divideranno il 12% delle azioni e sborsano altri 12, 2 miliardi di dollari. Il 10% viene attribuito agli obbligazionisti, che naturalmente hanno perso gran parte del loro passato investimento; per gli azionisti è andato anche peggio se si tiene conto che le azioni che valevano 94,63 dollari nel 2000 sono scese a meno di un dollaro e il titolo è stato estromesso dall’indice Dow Jones. Il 17% infine andrà al sindacato in cambio di importanti concessioni: la riduzione del 55% del fondo sanitario e pensionistico, salari assai più bassi, sussidi di disoccupazione ridotti che non supereranno la durata di un anno, per i nuovi assunti il salario sarà di soli 14 dollari l’ora contro i 28 finora erogati agli operai che pagheranno maggiori contributi per prestazioni sanitarie ridotte. La produzione di autovetture scenderà del 30-40% con auto più piccole e con la chiusura di 17 impianti.
Presi alla gola i lavoratori hanno dovuto accettare questo patto leonino.
Per questa via saltano i diritti conquistati dai lavoratori delle tre big negli anni di maggior potere contrattuale e le loro condizioni vengono equiparate ai nuovi stabilimenti del Sud degli Usa dove si sono insediate le case estere e dove salari e diritti sono considerevolmente inferiori.. Ma questo obbiettivo di equiparazione al ribasso era esattamente uno degli obbiettivi padronali e del governo.

Le mosse di Marchionne
La Fiat , pur conoscendo anch’essa un forte calo delle vendite è venuta a trovarsi in una situazione particolare che ha permesso a Marchionne di muoversi spregiudicatamente nella consapevolezza, più volte rimarcata dall’AD del Lingotto che al termine della grande ristrutturazione potrebbero rimanere sul mercato solo 5 o 6 aziende e che per reggere bisogna produrre 6 milioni di vetture all’anno.
Naturalmente la Fiat non è una azienda che possa acquistare strutture assai più grandi di essa, ma, nel quadro di una grave crisi, sfruttando alcuni suoi successi tecnologici e settori di produzione nel comparto delle vetture medie piccole, su cui ha una esperienza e know-how innegabili, può sperare di giocare un ruolo importante. Ecco dunque il disegno di Marchionne: acquisire la Chrysler, come primo passo per costruire una struttura molto più grande, di essere partecipe della formazione di una grande compagnia, di cui la Fiat auto sarebbe soltanto un pezzo, separando questo settore dal resto del Gruppo Fiat. E’ chiaro che in questo caso la famiglia Agnelli non disporrebbe più di un ruolo egemone, ma avrebbe soltanto più per il 10%, una quota significativa, ma assai minoritaria di un nuovo colosso mondiale dell'auto. In questa partita Marchionne può sperare di giocare un ruolo personale centrale, diventando, per ora l’AD della Chrysler.
Per altro questo è il problema che hanno tutte le famiglie che controllano alcune delle case automobilistiche. Vale per la famiglia Peugeot dell’omonimo gruppo, per la famiglia Toyoda della stessa Toyota, oggi diventata il primo produttore mondiale.

Chi ha pagato il fallimento della Chrysler
Solo che a salvare la Chrysler, non sono stati Marchionne e la Fiat che non hanno messo un soldo; chi ha messo i miliardi sono stati il governo americano, prima di tutto, le banche creditrici e gli altri creditori e, soprattutto i poveri operai e sindacati che hanno accettato una drastica riduzione del salario, del diritto di sciopero, delle pensioni e che rischiano ancora di più per il futuro essendo entrati in un pacchetto azionario, il cui valore è per lo meno dubbio. La Fiat non ha messo un soldo, mentre il governo americano sborsa subito 6,6 miliardi di dollari, ma qualcuno pensa che in realtà arriverà in futuro a oltre 20 miliardi. Anche i creditori pagano un duro prezzo: messi di fronte a una liquidazione che non avrebbe dato loro quasi nulla, dopo un lungo tira e molla e il ricorso di alcuni alla Corte Suprema, hanno dovuto accontentarsi di due miliardi di dollari in cambio dei 6,9 miliardi di crediti da loro vantati.
Di fronte a questo scenario alcuni commentatori hanno definito la Fiat un “fondo locusta”, cioè un fondo di “private equity” specializzato in attività di crisi. Su La Repubblica del 9 maggio si poteva infatti leggere che la Fiat “Punta su aziende sull’orlo del baratro per negoziare duro concessioni da creditori e dipendenti, rilevare le attività con capitali zero, finanziare la ristrutturazione con la leva fornita da altri, accorpare il tutto e collocarlo in borsa per sfruttare l’entusiasmo di mercato per le scommesse. Se va bene profitti favolosi, se va male i soldi sono degli altri”.
A conclusione dell’operazione la Fiat detiene il 20% delle azioni che potranno salire fino al 35% e arrivare fino al 51% nel caso, e quando si restituissero tutti i prestiti governativi. Il sindacato United Auto Workers con il suo fondo sanitario per i pensionati detiene oggi il 55% delle azioni (da brivido per il futuro dei lavoratori) e poi ci sono due quote di minoranza dirette per il governo statunitense (8%) e canadese (2%). La fusione determina la formazione del 6° gruppo mondiale con vendite complessive (potenziali) di 4,5 milioni di auto all’anno. Sempre che l’operazione funzioni, perché per risanare la Chrysler, occorre che per un po’ di tempo si continui a vendere le grosse cilindrate e i Suv, in attesa che entrino sul mercato le nuove vetture più piccole, stile Fiat, che però daranno un profitto unitario assai inferiore. E tutti gli analisti pensano che la Chrysler continuerà a bruciare cassa almeno fino al 20012.

La campagna germanica
Marchionne ha provato a portare avanti il suo obbiettivo di costruire un nuovo colosso dell’auto con la Opel, sperando anche in questo caso di fare acquisti, giocando alla grande, senza metterci un soldo, ma puntando anche in questo caso sull'intervento e sui soldi del governo tedesco intenzionato a salvare questa azienda.
Ma la partita qui si è rivelato assai più difficile per diversi motivi: in primo luogo perché le ristrutturazioni e i licenziamenti imposti dalla Fiat erano veramente troppi e insopportabili non solo per i sindacati, ma anche per il governo tedesco; in secondo luogo perché l’esborso di denaro pubblico richiesto dalla Fiat, di alcuni miliardi, era ancor meno accettabile. Perché i tedeschi avrebbero dovuto mettere tanti soldi per rafforzare un costruendo un colosso auto concorrente con la WW e la Porche? Ma anche la General Motors e il governo americano, nel frattempo diventatone proprietario, non potevano avere alcun interesse a favorire il progetto di Marchionne, cioè la formazione di un concorrente troppo pericoloso E anche la trattativa tra governo tedesco da una parte e Opel/General Mortor e governo americano dall’altro in relazione alla vendita alla Magna è stata molto dura; ognuno a cercare di proteggere i propri interessi capitalistici, a non tirare fuori troppi soldi e per la GM anche a mantenere il controllo di tecnologie. Come è noto alla fine la Opel è stata venduta alla azienda austro-canadese Magna, in cordata con la banca Sberbank e la casa automobilistica Gaz, entrambe russe. Il governo tedesco ci mette 1,5 miliardi di euro insieme ai 4 lander che ospitano gli stabilimenti; ma è solo l’inizio; i lavoratori ci mettono 11.000 licenziamenti di cui 2.600 in Germania su 55.000 occupati, cioè il 20%. Ma tutte le clausole non sono state ancora definite e rimangono parecchi punti interrogativi su cui qualcuno in Italia continua a sperare. Il risultato per ora è che i soci Opel saranno così suddivisi; il 35% resta alla GM, i dipendenti si accollano il 10%, la Magna il 20% e la Sberbank il 35%.
Marchionne ha dovuto ammettere che:“l’emergenza della situazione non può forzare Fiat ad assumere rischi del tutto inusuali: Di più non ci può essere richiesto” . Per forza, non voleva sborsare nulla.
Anche un altro obbiettivo secondario della Fiat di cui si era parlato, l’acquisizione della Saab, azienda che produce vetture di alto livello e le cui vendite erano precipitate, obbligando la GM a disfarsene, non è andato in porto. La Saab è stata infine venduta a un piccolo produttore di vetture sportive svedese, anche in questo caso, guarda caso, grazie a un generoso intervento dello stato svedese, la cui entità per altro non è stata precisata.

Dove sta la Fiat
La sconfitta subita in Germania e lo stallo dei tentativi operati in America latina, mettono a nudo le difficoltà della Fiat dopo centinaia di articoli agiografici comparsi sui giornali italiani, come nei fatti è infine emerso nell’incontro tra Fiat, sindacati e governo.
Lo stesso accordo con la Chrysler, sul piano produttivo, non risolve i problemi specifici della Fiat, che non potrà mai utilizzarne appieno l’enorme capacità produttiva e questo spiega la grande ritrosia dei dirigenti Fiat in tutti questi mesi, mentre si assisteva alle gesta di Marchionne, a rendere conto ai sindacati dei loro progetti concreti a partire dall’Italia. Ci sono dati che non sono circolati in queste settimane dove vengono segnalati come vittorie i minori arretramenti della vendite Fiat rispetto a altri concorrenti. Per esempio che la Fiat l’anno scorso ha bruciato 6 miliardi di cassa (altri 400 milioni nel primo trimestre) e che ha 23 miliardi di debiti lordi, come ha ricordato un mese fa un ministro tedesco, di cui 10 devono essere rifinanziati quest’anno.
La Fiat resta in mezzo al guado, e la relazione di Marchionne ai sindacato e al governo, ha evidenziato tutte le indeterminatezze del suo piano e quindi la grande incertezza sul futuro degli stabilimenti italiani, dove però una cosa già è certa: Termini scomparirà come stabilimento produttore di auto. Così come è certa il fatto che il mercato europeo è in flessione da 13 mesi e che per il 2009 si prevede un segno negativo del 10% con un utilizzo delle capacità produttive appena del 65%.
Ecco quello che Marchionne chiama “sovracapacità produttiva cronica” che “necessita di razionalizzazione”. E’ facile capire che prima o poi sarà proposto ai lavoratori Fiat una cura da cavallo come quella imposta ai lavoratori americani. O anche più.
Da subito l’AD della Fiat chiede altri soldi al governo e allo stato italiano e ai sindacati di essere docili, cioè subalterni, evitando “i conflitti ingiustificati”, cioè di rinunciare spontaneamente allo sciopero.

Dove sta il capitalismo europeo?
Queste vicende permettono due considerazioni. Si conferma che nella logica del capitalismo, l’intervento e una forte spesa pubblica dello stato sono possibili se servono agli interessi dei padroni, non sono possibili se servono a garantire pensioni e salari decenti. Obama si è dichiarato un “azionista riluttante” nella vicenda GM, cioè obbligato dalle circostanze, e dentro la finalità di restituire rapidamente ai privati la proprietà delle aziende una volta risanate. Seconda considerazione: ogni stato protegge i suoi attori nazionali, e, per quanto riguarda l’Europa, si evidenzia la difficoltà ancora una volta alla nascita di un capitalismo europeo cioè la formazione di grandi aziende multinazionali europee, prodotte dalla fusione di soggetti europei. Il Sole-24 ore ha commentato: “E’ più facile realizzare alleanze e fusioni transcontinentali che unire due costruttori europei sotto lo stesso tetto”. Per altro questa realtà ha avuto la sua espressione politica, economica e anche plastica massime, nell’incapacità della Comunità Europea di stabilire un piano comune europeo contro la crisi.

E i lavoratori…
In questa situazione la partita decisiva tra padroni e lavoratori si gioca intorno alla capacità o meno dei lavoratori di essere spettatori passivi e subalterni ai propri padroni e alla contrapposizione tra l’unità e la divisione. L'arma micidiale che viene ovviamente usata dai padroni è la divisione degli operai tra uno stabilimento e l'altro, di puntare sulle frontiere nazionali e sulla mancanza di una solidarietà che superi queste barriere per far credere che il nemico o per lo meno il concorrente da battere siano gli operai, polacchi, o quelli tedeschi. o anche che gli avversari siano direttamente in casa: meglio che affoghino gli operai di Termini Imerese o quelli di Pomigliano piuttosto che quelli di Torino. Naturalmente il ragionamento “speriamo che io me la cavo” porta direttamente alla catastrofe di tutti.
Per rimanere in Italia, anche dopo la manifestazione nazionale del 16 maggio, la Fiat si ritiene infatti abbastanza forte per cercare di fare tutto quello che vuole: per esempio, far lavorare su due turni il sabato qualche limitato settore di lavoratori, tenendone in cassa integrazione per lunghe settimane migliaia di altri; di introdurre provocatoriamente ritmi e carichi di lavoro più intensi, contro cui si è già scioperato in alcuni reparti di Mirafiori.
La manifestazione nazionale della Fiat è stata una prima parziale, ma importantissima risposta dei lavoratori per difendersi dai processi di ristrutturazione in corso nella multinazionale dell'auto; processi di cui i lavoratori intuiscono la dimensione strutturale, ma non ancora tutte le scelte definitive e concrete, compresa la localizzazione dei diversi interventi.
Non era facile dopo mesi di cassa integrazione, di redditi sempre più ridotti, e in un contesto di crisi che attanaglia centinaia di fabbriche, con lotte sparse e isolate, senza che finora sia apparsa una proposta di lotta e di riunificazione del movimento, scendere in migliaia per le strade e tornare ad essere protagonisti. Non a caso, soprattutto a Torino i dubbi sulla dimensione della partecipazione nei giorni precedenti erano forti: proprio per questo i militanti sindacali della sinistra avevano moltiplicato gli sforzi e le iniziative di coinvolgimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Non c'è dubbio che le reazioni sindacali sono state non solo tardive, ma anche inadeguate, compresa l’assoluta incapacità di concepire un rapporto e una iniziativa a livello europeo; l’incontro coi sindacati tedeschi è stata una iniziativa giunta tardi e del tutto episodica senza alcuna conseguenza operativa pratica.
Per comprendere tutte le difficoltà della partita, alle incapacità o non volontà di reazione di alcune organizzazioni sindacali si aggiunge lo stato della lotta di classe, cioè la condizione politica dei lavoratori, assai disorientati e stressati dalle condizioni materiali e dalle incertezze delle prospettive.
Tuttavia col passare dei giorni, era andata crescendo sia al Sud che al Nord la consapevolezza dei rischi estremi che si corrono e della necessità di una risposta forte e unitaria dei lavoratori. Al Sud, dove tutti percepiscono i margini ridottissimi di sopravvivenza è montata una rabbia forte con la volontà di vendere cara la pelle. A Mirafiori la consapevolezza della posta in gioco si era manifestata nella partecipazione alle assemblee e nel rigetto degli straordinari.
Di qui la riuscita della manifestazione e la volontà di reggere la sfida con lo strumento dell'unità espressa nel vecchio slogan, ma sempre valido “Nord Sud uniti nella lotta”. La manifestazione ha dunque messo in luce:
questa volontà unitaria e la ricerca di risposte comuni;
la forte determinazione degli operai del sud,
un certo impatto sulla pubblica opinione,
un rapporto abbastanza aperto tra le varie appartenenze sindacali, in particolare tra settori della Fiom e i lavoratori del SDL, assai presenti nella manifestazione. Stiamo cioè parlando dei settori di sinistra delle organizzazioni sindacali.
La conclusione della manifestazione con l’improvvida forzatura dello Slai cobas, di cui i segretario della FIOM è stato vittima, pur creando divisioni e contrapposizioni settarie di cui certo non c’è bisogno e dando possibilità alla stampa di costruire una notizia amplificata che svalutava la riuscita della manifestazione, non è stata tale, tuttavia, da comprimere le potenzialità messe in campo quel giorno.
Deve piuttosto spingere alla costruzione dell’unità e della democrazia sindacale ed operaia, del riconoscimento di tutte le forze in campo e del diritto alla parola di tutti per poter reggere la sfida padronale. Sfida che si presenta particolarmente ardua, a partire dal principale stabilimento, Mirafiori, dove le elezioni delle RSU hanno evidenziato, parecchie difficoltà (con qualche parziale risultato positivo) e la capacità d’intervento della direzione aziendale.

Interrogativi pesanti
Ma il secondo elemento presente nella manifestazione ed oggi ancor più importante era l'interrogativo: come si va avanti? Cosa vogliono fare i dirigenti sindacali? Quale impegno per costruire una vera lotta fino in fondo?
Una parte dei dirigenti sindacali poco tempo fa ha firmato un accordo con governo e padroni che riduce il movimento sindacale a complice dello sfruttamento dei lavoratori. La FIOM, sa bene quale sia la posta in gioco e non c'è dubbio che voglia costruire una vera risposta, ma sappiamo anche quali siano i condizionamenti interni alla CGIL ed esterni, e soprattutto quali siano le difficoltà obbiettive. Deve essere tuttavia chiaro a tutti che senza il ruolo e l'impegno della più forte organizzazione sindacale dei metalmeccanici, il cui segretario ha ribadito più volte la determinazione a non far chiudere nessun stabilimento, la partita vera non comincia nemmeno. Questi interrogativi si sono aggravati, perché dopo la manifestazione non c’è stata alcuna ulteriore mobilitazione e ancor meno un movimento verso quello sciopero generale, tanto più necessario in un contesto in cui la cassa integrazione dilaga e ormai una serie di aziende stanno per superare il tetto delle 52 settimane con impatto dirompente sulla condizione e sul reddito dei lavoratori, come la stessa CGIL ha denunciato.

Come rispondere? Come andare avanti?
Mi pare che ci troviamo di fronte a due ordini di problemi.
Il primo è il problema dell'unità, dell'unità certo delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, ma la partita della Fiat e più in generale la partita dell'auto si gioca a livello europeo e su scala internazionale; la sola unità in Italia non è sufficiente, perché può essere innestata la contrapposizione nazionalista, l'appiattimento sui propri governi, tutte condizioni che darebbero ancora una volta la possibilità di Marchionne di manovrare. Oggi occorre costruire una iniziativa sindacale unitaria attraverso le frontiere; ne è tempo, è nelle necessità obbiettive imprescindibili; le sinistre sindacali devono farsene carico, devono impegnarsi a fondo per costruire le interlocuzioni necessarie, ben sapendo che oltre frontiera ci sono le stesse remore e gli stessi limiti di orientamento.
Serve effettivamente una vertenza europea dell'auto, una azione unitaria per impedire che la grande ristrutturazione, travolga uno dei punti di forza del movimento operaio europeo, in altri termini che la crisi la paghino fino in fondo i lavoratori e sia usata per una modifica radicale dei rapporti di forza e della stessa struttura sindacale del movimento operaio europeo.
Ma la questione della vertenza tira in ballo la piattaforma rivendicativa e gli obbiettivi su cui è possibile difendere il lavoro e l'occupazione.
La piattaforma dei sindacati italiani, conquista del tavolo di trattativa, maggiore copertura salariale per i lavoratori in cassa integrazione, piano industriale e difesa di tutti gli stabilimenti, è inadeguata, non perché questi elementi non siano giusti, ma perché non sono in alcun modo sufficienti per reggere la sfida della crisi di sovrapproduzione.
Mantenendo solo quegli obbiettivi si può già immaginare che si andrà a un certo punto nella stretta dell'imbuto.
I padroni infatti non potranno mantenere gli stessi livelli di produzione del passato, diranno: “non possiamo vendere tante macchine”, neanche se una parte di queste diventano “ecologiche”; quindi inevitabilmente si comincerà a discutere di quale sacrifici fare, di quanta manodopera ridurre, di quali stabilimenti chiudere, si discuterà di ammortizzatori sociali, governi e enti locali saranno chiamati a intervenire su questo terreno, ecc. ecc. un film già visto. A pagare sarà quindi il lavoro e non i profitti
Se i padroni pensano di risolvere il problema della sovrapproduzione, facendo scomparire qualche concorrente, riducendo drasticamente il numero dei lavoratori, diminuendo la produzione, ma aumentando la produttività, e i profitti, l'obbiettivo dei lavoratori deve essere opposto.
Tenere tutti al lavoro, ridurre le produzioni, riconvertirne alcune, ridurre i profitti, in altri termini lottare perché nel settore auto ci sia una riduzione dell'orario a 35 ore o anche a 32 a parità di salario.
Far pagare quindi i padroni e non il lavoro.
Non è facile costruire questa alternativa, ma non è possibile una soluzione che salvi il lavoro e i profitti. Questa terza soluzione non è data, e i prezzi pagati dai lavoratori nelle vicende della Chrysler, di General Motors e anche della Opel lo confermano.
Sono passati in Italia 40 anni dall'ultima significativa riduzione di orario. La produttività è fortemente aumentata e ristrutturazione dopo ristrutturazione il movimento dei lavoratori ha conosciuto arretramenti e sconfitte; il fatto che la battaglia di Rifondazione negli anni '90 per la riduzione dell'orario, mal condotta, sia finita male, non significa che il movimento sindacale e dei lavoratori non debba riappropriarsene e farla diventare la battaglia del Piave, la battaglia per imporre che la crisi la paghi chi la prodotta, i sistema capitalista e i padroni
Infine c’è il problema dello stato dell’intervento pubblico. Abbiamo visto nei tre casi esaminati, come questo abbia mosso risorse enormi dentro una ipotesi che però non a niente a che vedere con le vecchie politiche keynesiane. L’intervento dello stato è concepito come strumento per rimettere in ordine i conti, socializzando le perdite, far ricomparire profitti e quindi ridare nelle mani dei privati la gestione delle aziende.
Nessun progetto complessivo di salvaguardia dell’occupazione, di difesa degli equilibri sociali dei territori e tanto meno un piano di riconversioni produttive, che evidentemente si rendono necessarie e che devono essere funzionali a salvaguardare l’ambiente e i posti di lavoro. In altri termini, pronto soccorso davanti ai disastri del mercato, che deve però restare al centro dell’economia. Serve proprio il contrario, un intervento duraturo e razionale dell’intervento pubblico, combinato a un ruolo di controllo da parte dei lavoratori nella costruzione di un progetto realmente funzionale al benessere delle lavoratrici, dei lavoratori e dei cittadini.

domenica 21 giugno 2009

Anticapitalista! - 26° campeggio internazionale rivoluzionario femminista ecologista


Dal 25 al 31 luglio nella Grecia attraversata dai conflitti, a Molossi, si terrà il campeggio internazionale, rivoluzionario, femminista ed ecologista, organizzato dalla Quarta Internazionale ma ormai da anni allargato a diverse forze della sinistra anticapitalista e ad esperienze di movimento. In Italia il campeggio è promosso dal movimento politico Sinistra Critica. Un appuntamento particolarmente importante quest’anno, segnato dalla profonda crisi del capitalismo e dalla ripresa dei movimenti sociali e anti G8 in Europa, dall’Onda italiana, alla Francia, alla Grecia. Un occasione utile per discutere, confrontare lotte ed esperienze, per progettare campagne contro la crisi, la guerra, la precarietà, la dismissione della formazione pubblica, così come sui temi di genere e lgbt. Un momento importante per chi è impegnato nei movimenti sociali, nelle scuole e nelle università, e nella costruzione di una sinistra anticapitalista europea, senza se e senza ma, alternativa alle destre ma anche alla “sinistra” liberista.
Un’occasione nel nostro paese per chi, nonostante la deriva autoritaria impressa dal governo Berlusconi - tra ronde, pacchetti sicurezza, norme antisciopero e contro le libertà individuali - non si arrende allo stato di cose presente e non rinuncia a costruire nei e con i movimenti sociali un’alternativa di società, una rivoluzione. Solidarietà internazionale, femminismo, ecologismo, giovani e movimenti sociali, strategie, migranti, scuola e università, marxismo, antifascismo, beni comuni, guerra, precarietà, lgbt, saranno i temi al centro dei sette giorni. Un campeggio totalmente autogestito dai partecipanti, in modo tale che anche nel piccolo e per poco tempo proverà a dimostrare che un altro mondo, oltre che necessario, è possibile, e che sono possibili altri tipi di relazioni umane, di divertimento, di gestione degli spazi comuni. All’interno del campo è prevista la presenza di uno spazio femminista ed uno lgbt, che permetteranno l’approfondimento, il confronto e l’autorganizzazione di soggetti che vivono condizioni di oppressione specifiche, quella di genere e quella sessuale: due spazi per rimettere in discussione categorie imposte dalla società... e ancora Workshop, Forum, formazioni, meeting e feste tutte le sere, tra cui quella donne e quella lgbt.

Il prezzo del campeggio è di € 200 comprensivo di posto tenda, pasti e viaggio da Ancona.

Per info e prenotazioni:
menime@inwind.it 3389758141/3280530049

mercoledì 17 giugno 2009

Integrazione Fiat-Chrysler


INCONTRO CON UNA MILITANTE SINDACALE
DELL’AUTO DI DETROIT

 La crisi economica mondiale del capitalismo che coinvolge tutti i paesi del mondo e che nella sola Europa ha già distrutto due milioni di posti di lavoro, si presenta in forme particolarmente acute nel comparto produttivo dell’auto.
 Esiste una grandissima capacità di sovrapproduzione delle diverse case automobiliste che comporta una acuta concorrenza tra di esse; siamo di fronte a un gigantesco processo di ristrutturazione e riorganizzazione del settore, i cui costi in termini di occupazione, diritti, salario dovrebbero essere pagati dal lavoratori per garantire il rilancio dei profitti dei padroni.
 Le grandi manovre di Marchionne e l’accordo tra la Fiat e la Chrysler con il beneplacito e l’intervento del governo americano si inseriscono in questo difficile e pericoloso scenario per le lavoratrici e per i lavoratori.
 Serve una risposta unitaria di tutti i lavoratori della Fiat per impedire che i costi delle ristrutturazioni ricadano su di loro, ma serve anche una strategia e una iniziativa comune del movimento sindacale a livello europeo per garantire la salvaguardia dei posti di lavoro e impedire che i padroni vincano dividendo e contrapponendo un settore di lavoratori a un altro.

Per discutere di questi problemi vi invitiamo a partecipare

SABATO 20 GIUGNO ORE 9,30

NELLA SEDE DI MIRAFIORI IN VIA PODGORA 16

Assemblea dei lavoratori della Fiat con la compagna americana Wendy Thompson militante del sindacato dell’auto a Detroit

martedì 16 giugno 2009

LA FORZA DELLE DESTRE, LA CRISI DELLE SINISTRE. SI APRE LA FASE DELLA RICOSTRUZIONE


Il coordinamento nazionale di Sinistra Critica si è tenuto a Roma il 13 e 14 giugno. Questo il comunicato finale approvato all'unanimità.

Il Coordinamento assume l'analisi del voto a opera del Gruppo operativo nazionale, disponibile qui di seguito. Si apre una fase difficile per la sinistra di classe, una fase di resistenza sociale in cui è posta la questione della costruzione di una nuova sinistra anticapitalista. Un progetto che ha bisogno di una forte discontinuità con il passato, di un bilancio serio della fase, ormai conclusa, della rifondazione comunista, di delineare gli assi programmatici e politici di una strategia anticapitalista.
Per questo non ci interessa una discussione sui contenitori in cui inserire le sinistre sconfitte né formule astratte di un'improbabile unità politica. Ci interessa invece avanzare una proposta di unità sociale, perché la ricostruzione della sinistra si farà nella società. Per questo proponiamo alle sinistre politiche, sociali e sindacali, di discutere assieme di una Campagna unitaria e prolungata contro il razzismo e la crisi, in grado di cogliere la connessione tra razzismo istituzionale, sfruttamento dei migranti, licenziamenti e peggioramento di vita dei lavoratori e delle lavoratrici.
Allo stesso tempo apriamo, con la convocazione del nostro Congresso nazionale, un'ampia discussione aperta a tutti e tutte sulle coordinate che dovranno caratterizzare la sinistra del futuro, una sinistra anticapitalista, di classe, orientata al conflitto e ai movimenti sociali, alternativa alle destre e al Pd.
Il primo momento di questa discussione pubblica sarà rappresentato dalla Festa di Sinistra Critica che si terrà a Roma dal 26 al 29 giugno e che vedrà il 27 giugno la presenza di Olivier Besancenot, portavoce nazionale del Nuovo partito anticapitalista (Npa) francese.

sabato 13 giugno 2009

Si chiude un ciclo, ora ricostruiamo una sinistra anticapitalista


Una prima analisi delle elezioni - Gruppo Operativo Nazionale

Le elezioni europee, e amministrative, si presentano come una conferma degli elementi di fondo che animano la società italiana ed europea. Progressiva sconfitta di una sinistra socialdemocratica compromessa con il sistema; tenuta della sinistra di classe ma anche sua avanzata piena quando riesce a intercettare nuove dinamiche sociali (Bloco portoghese, Npa francese); tenuta faticosa dei partiti dominanti che reggono l'urto della crisi ma non crescono in consensi e in egemonia (Cdu, Ump, Pdl); contestuale affermazione di partiti razzisti e xenofobi dai tratti pericolosi (compresa la Lega); affermazione generalizzata di forze politiche del tutto nuove, o percepite come tali, che rompono schemi consolidati e alludono a un rinnovamento della politica (Cohn Bendit, Di Pietro, Partito dei Pirati).

1. La grande sconfitta è l'Unione Europea che raccoglie l'adesione più bassa di voto dalla sua nascita (43%). Il progetto di unificazione non ha mai convinto (vedi referendum in Francia, Olanda e Irlanda) e tanto meno convince al tempo della crisi. L'Europa non è una formula economicamente conveniente per i suoi abitanti e le illusioni si rompono soprattutto a Est che invece avevano accolto il proprio ingresso nella Ue a colpi di feste in piazza. Si realizza così un evidente fallimento del progetto di una componente della borghesia continentale che invece preferisce cedere alle lusinghe di un neo-nazionalismo protezionista - vedi la vicenda Opel-Fiat - in cui le prestazioni migliori vengono offerte dai partiti popolari e conservatori. Di qui la tenuta di Cdu, Ump, Pdl o l'avanzata del Pp spagnolo. Fa eccezione il partito conservatore greco che però ha dovuto affrontare una sollevazione popolare.

2. La crisi del progetto europeo trascina con se i socialisti che non hanno un'alternativa valida da proporre e che non dispongono di una ricetta per uscire dalla crisi e la cui commistione con il sistema capitalistico si confonde più con le istanze liberiste e sovranazionali che con quelle nazionali ma dal sapore protezionistico. Il partito socialista europeo viene sconfitto nella sua linea strategica e l'unico in grado di reggere sembra quello spagnolo o un Pasok che ha appoggiato le mobilitazioni. Ma è un crollo di fondo che colpisce i pilastri della socialdemocrazia continentale: Labour, Spd e Ps francese. Di fronte ai conservatori che ricorrono all'intervento statale per salvare le imprese i socialisti si preoccupano di salvaguardare i princìpi del liberismo; la rottura con gli interessi materiali dei lavoratori si nota in tutta la sua evidenza e produce una sconfitta di grandi proporzioni.

3. Questa situazione, la profondità della crisi e il suo impatto sociale, la demoralizzazione che ne deriva, l'assenza di un movimento europeo che coinvolga il movimento operaio - eclatante il silenzio del settore Auto - o di movimenti sociali in grado di segnare l'agenda europea, contribuiscono a spiegare il voto alla destra razzista che agisce su popolazioni e su settori di lavoratori atomizzati, ripiegati su se stessi, indifesi e incattiviti dalla crisi. Il caso olandese e austriaco si pongono all'avanguardia ma non va sottovalutata la crescita di consensi alla Lega nel centro Italia e addirittura nel Lazio. Un voto di opinione a favore dei respingimenti e di una linea "coerente" contro i migranti si afferma sempre più.

4. La sinistra alternativa tiene, a eccezione dell'Italia e della Spagna. Va bene quando assume posizioni coerenti con il 10,7% in Portogallo al Bloco o il 5% in Francia al Npa o, ancora, il 4,7% alla greca Syriza oppure quando conserva i suoi bastioni come nel caso del Pc portoghese al 10,6%, il Pc greco all'8,3, il 7,6% per Die Linke e il 6,3% per l'alleanza francese tra il Pcf e i fuoriusciti dal Ps (che fremono però per rientrare, vista la crisi verticale dei socialisti). Da segnalare anche il 7% al Ps olandese, di difficile collocazione. Una tenuta che non beneficia a fondo dell'arretramento socialdemocratico - vedi Germania o Francia - e che appare priva di una progettualità sul piano direttamente europeo. Il Partito della Sinistra politicamente non esiste più e nel formando Gruppo parlamentare della sinistra unita (Gue) continueranno a convivere correnti e progetti molto diversi: quello comunista-ortodosso, quello nordico, quello della Sinistra europea e quello anticapitalista.

5. In Italia, Berlusconi non sfonda nel paese, l'astensione lo penalizza portandogli via 3 milioni di voti rispetto alle politiche. Il suo governo non convince, non trascina un blocco che vive contraddizioni pesanti, in particolare al Sud dove avviene l'emorragia più pesante. Semmai premia la Lega anche se il balzo percentuale è soprattutto frutto della diminuzione dei votanti. In termini assoluti Bossi e i suoi conservano intatto - ed è comunque un successo - i loro 3,1 milioni di voti con un significativo allargamento dei consensi in Emilia Romagna, nelle Marche e anche in Toscana.
La crisi sociale, gli scandali sessuali, una effettiva delusione verso un governo che ha solo peggiorato le condizioni di vita dei lavoratori si fanno sentire anche se il successo della Lega, unica formazione xenofoba al governo in un paese dell'Unione può acuire l'aggressività del governo e renderlo ancora più pericoloso per i lavoratori chiamandoli a una necessaria mobilitazione.

6. Chi fa il vero balzo è Di Pietro che dal 1,5 milioni di voti del 2008 passa a 2,45, affermandosi come il vero vincitore di questa tornata. Di Pietro beneficia di voti Pd (ma anche di voti che provengono da Pdl e Lega) e sfrutta il sentimento dell'antipolitica che agita l'Italia da alcuni anni. Un fenomeno poco rilevante ai fini del conflitto di classe, ma interessante come coagulo di un voto di protesta e di opposizione che va tenuto d'occhio e al quale occorre imparare a parlare.

7. Infine, mentre Casini mantiene un pacchetto stabile di circa 2 milioni di voti prevalentemente al Sud e in Sicilia - con una politica del centro che inizia a scontare i suoi limiti - assistiamo a un Pd che perde 4 milioni di voti rispetto allo scorso anno ma che, paradossalmente può dirsi soddisfatto. Il crollo, in effetti, è minore di quanto si era fatto credere tramite i sondaggi e in parte mitigato dal fatto che i voti persi dal Pd si dirigono verso aree limitrofe: circa 900mila a Idv, 600mila a Sl e Comunisti, oltre 2milioni all'astensione. Franceschini tiene quindi in piedi la baracca ma non risolve nessuno dei problemi esistenti comuni al resto dei centrosinistra europei: nessuna seria alternatività ai conservatori sul piano delle ricette economiche, uno scollamento progressivo con la vita e gli interessi dei lavoratori, un gruppo dirigente screditato e quindi un progetto muto socialmente. La stessa politica delle alleanze è stretta tra un'area, Rutelli e altri, che guarda all'Udc, un'altra, i prodiani, la sinistra, che pensa alla vecchia Unione e la corrente daleiana che pensa invece a un centrosinistra omnicomprensivo. Opzioni diverse e difficili da "amalgamare".

8. A sinistra si chiude - come abbiamo più volte indicato - definitavamente un ciclo, quello della rifondazione comunista. Entrambe le liste dei Comunisti e di Sinistra e Libertà non superano il quorum, anche se insieme totalizzano quasi due milioni di voti cioè oltre 500mila in più della somma tra Arcobaleno e Socialisti alle Politiche dello scorso anno e il Pcl di Ferrando, con la sua lista mantiene nella sostanza il proprio voto di riferimento, migliorandolo in qualche realtà ma restando nei recinti dell'inefficacia politica. Le sinistre pagano il prezzo degli errori del passato e la miopia politica. I gruppi dirigenti hanno appeso le proprie sorti al Quorum e ora hanno pochi spazi di manovra anche se, paradossalmente, chi si muove più agilmente è l'ala vendoliana che incassa la legittimazione del suo leader. Un'ipotesi unitaria dei due tronconi è fortemente plausibile anche perché Rifondazione, con l'abbraccio mortale al Pdci e al continuismo dilibertiano, ha pagato un prezzo altissimo inibendosi la possibilità di uno scarto a sinistra e di un nuovo inizio.
Resta il paradosso di un voto a sinistra ampio, circa 2 milioni di voti, affidato a gruppi dirigenti fallimentari, che hanno sbagliato molto e che continuano a sbagliare.

9. Sinistra Critica, alla luce dei risultati, rivendica la scelta di essersi tenuta fuori dalla competizione per le europee e di non aver partecipato alla conta degli sconfitti. Una scelta sofferta ma comunque utile ai fini del rilancio di una proposta politica che costituirà l'asse del nostro imminente congresso. Una scelta, tra l'altro, per nulla gratuita visti i risultati ottenuti alle amministrative dove Sinistra Critica conferma, e in molti casi supera di molto, i risultati delle scorse politiche. La conferma è molto faticosa nelle principali città - Torino, Milano e Napoli - dove si presentavano quattro o cinque liste "comuniste" contemporaneamente e dove comunque Sinistra Critica regge la propria presenza - come a Casoria in provincia di Napoli - mentre nel resto delle province si assiste a risultati importanti: 1,7% a Rimini (2% a Riccione e 8% a Misano), 1,3 a Livorno (e in città la coalizione sostenuta ottiene il 9%); 6% nel comune di Calcinaia a Pisa; 1,2 a Perugia (con la coalizione a Bastia che supera il 5%); 0,8 a Terni che diventa l,1,5% a Orvieto e il 2% in comuni limitrofi; 0,6% a Rieti che diventa il 3% in Sabina, 0,8% ad Aprilia. Risutati modesti che però indicano una presenza e una capacità politica. In grado di impegnarsi nel sostegno alla lista "Bologna città libera" che ottiene l'1,6 a Bologna o di sostenere a Firenze la lista De Zordo che ottiene oltre il 4%. Un bene prezioso per continuare l'azione di resistenza che il quadro politico ci consegna.
Ci troviamo quindi a valle dell'ultimo episodio di una sconfitta lunga che chiama in causa un vasto gruppo dirigente (a questo punto farsi da parte sarebbe davvero molto dignitoso) e che pone sul serio la partita di una ricostruzione politica e sociale.
Serve un nuovo progetto di ricostruzione della sinistra anticapitalista che affronti sul serio e non di sfuggita nodi importanti. Non ci interessa un improbabile "coordinamento delle sconfitte" né una discussione di sigle, contenitori e di nominalismi. Pensiamo sia venuto il momento di una vera discussione pubblica, seria, approfondita, aspra, che prenda il tempo necessario per questa ricostruzione, che è soprattutto sociale. E' il tema del nostro congresso e che poniamo all'attenzione della sinistra tutta.

venerdì 5 giugno 2009

ALLE PROVINCIALI VOTA SINISTRA CRITICA



RICORDATI CHE LA SCHEDA PER LE PROVINCIALI E' GIALLA
RICORDATI DI METTERE SEMPRE IL SEGNO SUL SIMBOLO

giovedì 4 giugno 2009

Candidati di Sinistra Critica a Piossasco



Fausto ANGELINI

27 set 1967

impiegato


Giovanni (detto Giampaolo) FAUSTO

31 gen 1987

studente

martedì 2 giugno 2009

Europa, più a sinistra non c'è crisi


Europa, più a sinistra non c'è crisi
Una radiografia della sinistra anticapitalista in Europa a pochi giorni dal voto. Cresce ovunque tranne che in Italia dove paga i suoi errori. I casi del Npa, della Linke, del Sp olandese e del Bloco portoghese.

Alberto D'Argenzio (da il manifesto)
Produzione ai minimi e disoccupazione alle stelle, occupazioni di fabbriche e sequestro di dirigenti, manifestazioni di massa. È tempo di crisi e le crisi, tanto quella economica quanto quella dei partiti socialdemocratici, mettono un po' di brio alle formazioni di estrema sinistra. Le fanno crescere nelle urne, nei limiti del possibile. I pronostici indicano che il Gue, il gruppo della sinistra unitaria che include i partiti comunisti e gli ecologisti scandinavi, uscirà rafforzato dal voto del 4-7 giugno, pur di fronte ad una contrazione dei seggi europei, che passeranno da 785 a 736 come vuole il Trattato di Nizza.
Secondo Predict09, una proiezione sui risultati elettorali realizzata dalla London School of Economics e dal Trinity College di Dublino, il Gue passerà da 41 a 44 eurodeputati. Il successo non sorride però a tutti in ugual misura nel continente. A tirare la volata sono francesi, olandesi, tedeschi, greci e portoghesi, gli altri arrancano. E la sinistra italiana, divisa e penalizzata dalla nuova legge elettorale, ma anche che per tradizione riveste un ruolo importante a Strasburgo, resta una vera e propria incognita.
«La sinistra radicale - spiega Yves Mény, presidente dell'Istituto universitario europeo di Firenze - è storicamente forte in Francia, Italia, Portogallo, Grecia, paesi di vecchia tradizione di lotta radicale, con componenti anche anarchiche. Queste sono forme di protesta sconosciute in Gran Bretagna e nei paesi scandinavi». Per non parlare dei paesi dell'est, in cui l'estrema sinistra quasi non esiste, paga ancora i conti del passato.
«Il voto per l'estrema sinistra - insiste Mény - è anche figlio della crisi dei partiti socialdemocratici, che non sono riusciti a rispondere alle sfide degli ultimi 20 anni e che anche dove presumevano di poter conciliare modernità e socialismo, come il caso del New Labour di Tony Blair, hanno ormai fallito, finendo in una crisi nerissima». «La sinistra europea non è mai stata così giù dalla fine della Seconda Guerra mondiale», sintetizza dalle colonne di Liberation Mario Telo, Presidente dell'Istituto europeo della Ulb, l'Università libera di Bruxelles. Un elemento non ideologico, ma fisiologico e comunque indicativo di questa crisi è la carta di identità dei votanti della socialdemocrazia in Europa: è l'elettorato più vecchio del continente, segno evidente di come il socialismo faccia fatica a entrare nei cuori dei giovani, tra i più esposti ai venti della crisi e della precarietà.
E una buona fetta di questi giovani, di conseguenza, si sposta agli estremi, facendo crescere l'estrema sinistra. Ma non solo, anche l'estrema destra si dimostra più che mai presente nelle zone un tempo roccaforte della socialdemocrazia e ancora prima dei partiti comunisti. I sondaggi indicano infatti una decisa crescita delle formazioni neofasciste e di quelle razziste e xenofobe in Gran Bretagna, Romania, Slovacchia, Olanda, Belgio, Danimarca, Finlandia, Repubblica Ceca e Bulgaria. Un voto soprattutto proletario.
Tornando a sinistra, il successo del radicalismo ha volti, linguaggi e modi nuovi, a partire dalla Francia. L'Npa, il Nuovo partito anticapitalista di Olivier Besancenot, lanciato nel febbraio scorso come superamento della Ligue Comuniste Révolutionnaire. Besancenot, uno dei portavoce dell'Npa, ha 35 anni, continua a lavorare come postino nella borghesissima Neuilly-sur-Seine, ama il calcio e la musica rap ed è attualmente, dicono le inchieste, il politico meglio considerato in Francia. Nelle intenzioni di voto il suo partito è dato intorno al 10%, lanciato dalla tensione sociale che si respira nel paese, dalle grandi manifestazioni che si sono susseguite da gennaio a maggio e dalle divisioni del Partito socialista, incapace di gestire una protesta che monta.
«Ci sono 10 mila buoni motivi - ha detto recentemente in un meeting in Spagna - per non rimanere impassibili, per non restare spettatori guardando ciò che succede nel mondo, vedendo i poliziotti che caricano i lavoratori appena licenziati». Al lato dell'Npa dà segnali di vita anche il Pcf, il partito comunista francese che dopo la debacle delle presidenziali del 2007 dovrebbe riuscire a superare il 5%.
In Germania è Die Linke, la Sinistra, di Lothar Bisky e Oscar Lafontaine ad approfittare della perdita di consensi dei socialdemocratici con la possibilità di superare il 10%, una soglia oltrepassata anche in Olanda dal Socialistische Partij, il Partito socialista del carismatico Jan Marijnissen, un ex-metalmeccanico che ha trasformato questa formazione, nata nel 1972 dalla confluenza per nulla scontata tra maoisti e marxisti-leninisti, in una realtà capace di fare breccia nella società olandese cavalcando i temi della difesa ambientale e della lotta alla precarietà. Il suo simbolo è un pomodoro.
Espressione di una sinistra plurale è anche il Bloque de Esquerra portoghese, che in queste europee dovrebbe superare per la prima volta lo storico Partido Comunista, ancora marxista e leninista. Le due formazioni di estrema sinistra dovrebbero diventare il terzo e quarto partito del paese, un paese pesantemente segnato dalla crisi. Dopo le massicce proteste che hanno segnato Atene, è in crescita anche l'estrema sinistra greca, tanto con i lpiù eterogeneo Synaspismos quanto con il comunista KKE.
E l'affacciarsi di nuovi soggetti a sinistra arriverà fino ai vertici del Gue. Il grigio comunista francese Francis Wurtz, eurodeputato dal 1979 e Presidente del gruppo Gue dal 1999, non si ricandiderà ad un nuovo mandato, aprendo la via ad successore, ad nome nuovo, che dipenderà molto da che successo avranno l'Npa in Francia e Die Linke in Germania.