venerdì 18 luglio 2008

Quattro ruote e una crisi

L'auto è a fine corsa? Il modello fondato sulla mobilità privata è spinto fuori strada dalla crisi, dal prezzo del petrolio e dalle ragioni ambientali. Marchionne non fa più miracoli. Un seminario della Fiom
Loris Campetti
TORINO

I miracoli riescono raramente. A Sergio Marchionne ne è riuscito uno, qualche anno fa, quando la multinazionale italiana delle quattro ruote era data da tutti per spacciata per effetto della crisi esplosa nel 2002. Una ventina tra presidenti e amministratori delegati della Fiat e della Fiat Auto si erano succeduti alla guida di un'automobile impazzita, a cui non erano bastati il monopolio nazionale e i ripetuti sostegni pubblici per mantenere una qualche rotta. I lutti e le risse nella famiglia proprietaria, la perdita di quote di mercato e di redditività, l'esplosione dei debiti, l'evidente fallimento del matrimonio con una General Motors che da big mondiale stava iniziando una discesa che l'avrebbe fatta precipitare sull'orlo della bancarotta, l'espansionismo insensato a 360 gradi che aveva indebolito fino all'infarto il core business - l'auto -, lasciavano ben poche possibilità di sopravvivenza autonoma alla maggiore industria italiana. Alla fine era arrivato lui, l'uomo dei miracoli, amministratore delegato con ampi poteri: Sergio Marchionne. Come ben sintetizza Sergio Cusani, il consulente finanziario che per conto della Fiom ha condotto a partire dal 2001 un'analisi attenta e talvolta spietata della situazione eco-finanziaria della Fiat, il nuovo a.d. è riuscito a sfilare il Lingotto dalla trappola (una «vendita differita») in cui Gianni Agnelli e Paolo Fresco avevano gettato l'azienda con l'accordo con la Gm. Marchionne aveva poi valorizzato il gruzzolo sganciato dagli americani per ottenere il divorzio ed evitare l'acquisto a costo zero di un moribondo, ingestibile per un gigante dai piedi d'argilla già sotto osservazione medica. Un utilizzo serio del danaro Gm, insieme a una politica di risanamento dei conti e a un rapporto agevolato con le banche che hanno concesso alla Fiat quel che nessuna banca avrebbe mai garantito ad alcun cliente (il convertendo), hanno riportato l'auto italiana sul mercato. Senza licenziamenti e chiusura di stabilimenti, senza rapporti duramente conflittuali con i sindacati. Uno dopo l'altro, ha portato a casa 34 accordi internazionali sui prodotti e sulla loro distribuzione, joint-venture, pianali e motori comuni, sinergie, avevano fatto balzare il titolo in borsa sopra i 21 euro. L'auto aveva ripreso a tirare, anche grazie alla droga delle rottamazioni che non rappresenta che una delle tante forme di sostegno dei nostri governi all'industria automobilistica. Dunque, onore a Marchionne, a cui si deve anche un recupero d'immagine dei marchi rendendo l'azienda più presentabile.
Il motore batte in testa
I venti di crisi che soffiano dall'Atlantico, passando per i pozzi di petrolio del Golfo, in pochi mesi hanno costretto tutti i costruttori di automobili a ridimensionare i propri progetti, a rivedere le previsioni e occuparsi del pessimo stato di salute del malato grave. La malattia è più pericolosa delle tante che l'hanno preceduta, dalla crisi del Kippur a oggi. I costi dei carburanti alle stelle mandano in tilt lo stesso modello americano, finora indifferente ai consumi automobilistici come ai danni ambientali, figuriamoci se potevano risparmiare la vecchia Europa. La crisi - economica, ambientale, culturale - delle quattro ruote non grazia alcuno dei mercati ricchi del Nordamerica, dell'Europa e del Giappone dove si scatena la più feroce delle competizioni tra le multinazionali delle quattro ruote. In palio ci sono pochi posti numerati nel futuro mercato. Sono in molti, per ora, a salvarsi la pelle grazie ai mercati emergenti: la vivacità della domanda brasiliana e di una parte dell'America latina (in Argentina l'auto gode di buona salute) e l'avvio della motorizzazione nei giganti asiatici (l'India e, tra mille contraddizioni, la Cina), non fa che estendere la guerra tra i produttori in questi paesi, con i grandi marchi giapponesi ed europei pronti a gettarsi come avvoltoi sulle quote eventualmente lasciate libere dalla precipitazione dei conti delle tre big americane, Chrysler, Gm e Ford.
La Fiat risente come tutti i suoi concorrenti della crisi. L'avvio di un ciclo che non sarà breve di cassa integrazione in tutti gli stabilimenti italiani, con l'eccezione di Cassino, ne è il segno più evidente perché coinvolge decine di migliaia di lavoratori il cui salario inadeguato sarà ulteriormente decurtato. E' da alcuni mesi che ogni occasione per ridurre la produzione viene accolta malcelata soddisfazione dal Lingotto, che sia dovuta allo sciopero dei camionisti, alla ristrutturazione di uno stabilimento, al mancato arrivo di componenti. Qui a Mirafiori, dicono i delegati della Fiom, si passa più tempo a fare corsi che a costruire macchine. Anche perché la Punto che si doveva in parte costruire a Torino in cambio del sostegno garantito al Lingotto dagli enti locali torinesi, è stata riportata per intero a Melfi.
Piange la Borsa
L'altro segnale rosso arriva dalla borsa, dove il titolo del Lingotto ha subito un tracollo dai 21 agli attuali 10 euro: non bastano gli annunci di nuove alleanze, l'ultimo quello con Bmw, a invertire la tendenza al ribasso. Analisti e operatori sanno che la crisi non è passeggera e che l'auto è la prima delle vittime designate. Anche la decisione della Fiat di rivedere al rialzo i listini dei prezzi delle vetture non lascia presuppore alcunché di buono. Neppure la promessa di Sergio Marchionne che conferma i dati previsionali relativi agli utili dell'azienda può tranquillizzare, in particolare i lavoratori. Il mantenimento e persino il miglioramento della quota Fiat nel mercato italiano e solo in parte in quello europeo avviene in una rincorsa al ribasso della domanda. E' vero che Marchionne si salva con i nuovi mercati, in particolare in Brasile e in prospettiva in India grazie all'accordo con Tata, ma proprio per questo le nuvole sono destinate ad addensarsi sui cieli italiani, dove fabbriche, linee di montaggio e posti di lavoro cominciano a tentennare.
Del nuovo ciclo aperto in Fiat dalla crisi dell'auto si è discusso venerdì scorso a Torino per iniziativa della Fiom. Più che un'assemblea, un seminario, una scuola quadri per i delegati del gruppo industriale torinese, presenti il segretario generale dei metalmeccanici Cgil Gianni Rinaldini e Sergio Cusani. La crescita di una cultura ambientalista mette alle corde un modello di sviluppo incentrato sul trasporto privato e su motori alimentati con i derivati del petrolio, inquinanti e sempre più costosi. Si riapre dunque a sinistra un sano confronto sul modello, tra chi teme come il demonio il petrolio a 200 dollari e chi invece vi legge una possibilità, una speranza per ripensare al modo in cui muoversi e, soprattutto, in cui vivere. Dubbi, questi, che attraversano gli stessi delegati operai, che sono anche cittadini, prima ancora che produttori e consumatori. Secondo Cusani la Fiat ha perso un'occasione rinviando all'infinito la quotazione in borsa dell'Auto che avrebbe consentito l'afflusso di capitali freschi da destinare ai nuovi prodotti. Con il risultato che la Fiat è indietro rispetto alla concorrenza e troppo legata a un'idea vecchia di trent'anni di automobile, intesa come bene di consumo veloce. Oggi, dice Cusani, bisognerebbe tornare agli anni Cinquanta, quando l'auto era un bene durevole che non si cambiava ogni due o tre anni ma ogni otto o dieci. E' questa la scelta fatta dalla Toyota che arriva a offrire garanzie per 9 anni e per 5 sull'auto elettrica, mentre il Lingotto continua con la politica dei restyling dei modelli ogni due anni, fidando su un mercato drogato dalla politica delle rottamazioni. I dati di realtà - costi economici e ambientali - spingono nella direzione di un consumo critico crescenti soggetti impoveriti dalla crisi e dalle politiche liberiste.
La Fiat è in ritardo sul terreno dell'innovazione di prodotto, e questa è un'opinione comune dal segretario all'ultimo delegato della Fiom. La concorrenza è lanciata ormai da tempo sul versante dei motori ibridi, sull'auto elettrica, sull'idrogeno e già si parla di propulsori trifuel. E pensare che per decenni la multinazionale torinese ha investito invece sull'innovazione di processo, ammaliata dall'illusione del miracolo pantecnologico che avrebbe emancipato la produzione dal lavoro umano. L'unico terreno su cui la Fiat è all'avanguardia è quello del metano, in un paese però che non investe sulla rete distributiva, rendendo le vetture alimentate con questo gas, se non inutilizzabili, quasi. Non sarebbe più sensato, sia pure in una prospettiva immediata e non strategica perché il futuro viaggia a idrogeno e a elettricità, fare quella lobbyng di cui la Fiat è maestra da oltre un secolo, per spingere il governo a investire (e far investire i petrolieri) sulla distribuzione del metano, invece che spargere i fondi della collettività a pioggia con le rottamazioni? Che la Fiat sia brava a incidere sulle scelte politiche è testimoniato dall'andamento della mobilità nel nostro paese, l'unico al mondo che nell'ultimo decennio è riuscito ad aumentare dal 70 all'80% la quantità di merci trasportate su gomma. Innovazione di prodotto vuol dire investimenti, ricerca, vuol dire ripensare all'oggetto automobile che in passato si è salvato dalla crisi grazie alla quantità di tecnologia incorporata. Siamo arrivati alle utilitarie munite di ogni confort, navigatore satellitare compreso, mentre a conquistare i mercati impoveriti dalla crisi sono oggi vetture sobrie, «risparmiose», senza troppi fronzoli.
Il divorzio tra auto e petrolio
Un primo elemento di riflessione, per chi ha a cuore il futuro, più ancora che dell'auto privata dei lavoratori che la fabbricano, è l'esigenza di separare il destino delle macchine da quello del petrolio, investendo ogni risorsa, come si diceva, su nuovi propulsori più compatibili, sia da un punto di vista ambientale, che economico, che politico, considerando quel che il petrolio riesce a mettere in movimento. A partire dalle guerre. A che serve ingaggiare battaglie durissime per rinviare e mitigare le riduzioni di emissioni di Co2 da parte dell'Unione europea? Che scelta miope è questa, che ha visto tra i suoi maggiori protagonisti proprio Sergio Marchionne, in qualità di presidente di turno dell'Acea, la potente associazione europea di costruttori di automobili? Meglio sarebbe tentare di recuperare il ritardo nella ricerca e nella sperimentazione sull'auto elettrica, ammesso che per la Fiat non sia già troppo tardi. E ammesso che il Lingotto abbia le risorse necessarie. Questo dubbio ne lascia trapelare un altro: non si tornerà a parlare di vendita dell'automobile italiana, magari a un soggetto in grado di investire le risorse necessarie per essere competitiva sul mercato che, molto presto, verrà?
Qui in Europa, come negli Usa, non c'è più spazio per nuove automobili, un ormai ipotetico mezzo di locomozione che invece di garantire la mobilità condanna all'immobilismo. Si può pensare solo a un mercato di sostituzione, sapendo che nell'arco di pochi anni le vetture, dice Rinaldini, saranno ben diverse da quelle che conosciamo, per materiali e soprattutto motori. Bmw va avanti con l'idrogeno, e non è su questo versante che si basa l'accordo stipulato dalla Fiat; Toyota con la Prius si permette di perdere soldi perché può permettersi di investire sull'innovazione di prodotto. E la Fiat dov'è? E fino a quando potrà salvarsi senza prodotti competitivi, puntando sul Brasile, o sui camion e le macchine movimento terra? C'è chi teme l'estensione della crisi anche a Iveco e Cnh.
Ci sono tanti modi per far tornare i conti. Il più semplice e miope sembra conquistare anche Marchionne: bassi salari, orari allungati e straordinari alternati alla cassa integrazione, aumento della prestazione e della flessibilità delle tute blu, circostanziano i delegati di Mirafiori. Ma se è vero che la crisi riguarda (anche) l'intera Europa, al punto che per la prima volta in Germania è in forte rallentamento la produzione manifatturiera, mentre tutta la produzione di elettrodomestici si è trasferita o sta trasferendosi nell'est europeo, si può pensare di far tornare i conti aumentando lo sfruttamento? La globalizzazione è un affare serio, e la crisi generale dei sindacati sta proprio nel fatto di non aver saputo costruire un'idea diversa di globalizzazione. Senza un passo avanti in questa direzione, non potrà che imporsi il trasferimento del conflitto dal livello classico tra capitale-lavoro a quello tra stati, tra aziende, tra stabilimenti e, alla fine, tra lavoratori. Con politiche sociali al ribasso che cancellano i diritti nei punti alti dello «sviluppo», agitando il ricatto delle delocalizzazioni. Anche i sindacati si adattano a questo trend, come avviene in Germania. O come testimonia la fusione dei sindacati siderurgici - minacciata anche nell'auto - negli Usa, Canada e Gran Bretagna che ha generato la rivolta dei paesi poveri contro il protezionismo dei ricchi. Sempre negli Usa, molte imprese si trasferiscono al sud degli States dove non c'è sindacato, e in Brasile le aziende pensano di trasferire la produzione di automobili dallo stato di San Paolo, dove l'orario di lavoro è di 40 ore, a quello del Minas Gerais, dove di ore se ne lavorano 44 alla settimana. Il mese scorso, durante una riunione mondiale dei sindacati metalmeccanici, i brasiliani che si battono per le 40 ore hanno accolto con disperazione la direttiva dell'Unione europea che porta a 60 ore il lavoro settimanale. E chi si batte nel mondo per conquistare il contratto nazionale (che sopravvive a fatica sono in Italia e in Germania, dove però si rischia di ripiegare sul salario minimo) non è certo sostenuto dall'orientamento, prevalente in Italia, a liquidarlo.
Si può affrontare il futuro dell'auto senza un'ipotesi globale, forte, alternativa a quella culturalmente egemone della globalizzazione neoliberista? Così conclude Rinaldini, senza trascurare il fatto che la crisi strutturale dell'automobile impone un ripensamento generale di modello nei punti alti dello sviluppo: o si sogna forse di scaricare il problema sulle economie emergenti, convincendo i cinesi che per salvare il pianeta devono rinunciare a quel che abbiamo noi, e a cui non siamo disposti a rinunciare? Neanche a San Sergio Marchionne riuscirebbe un miracolo del genere.

Manifesto del 17 luglio 2008

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