domenica 20 giugno 2010

Crisi del debito greco


Da: [Europe Solidaire Sans Frontières] 20/05/2010

Intervista sulla «crisi del debito greco»
UDRY Charls-André
12 marzo 2010


Questa intervista è stata effettuata il 12 marzo 2010. Le domande sono state poste dai responsabili del periodico della Sinistra operaia internazionalista (membro del raggruppamento Syriza). Alla luce degli sviluppi attuali, la pubblicazione di questa intervista può avere un certo interesse, anche se è datato.




Domanda: Nel corso degli ultimi anni, il debito pubblico è aumentato in tutti in paesi sviluppati, quali sono le ragioni?

Charles-André Udry:

Quando i media parlano del debito, molto spesso si fa confusione. Il debito pubblico non è che il debito lordo dell’insieme delle amministrazioni pubbliche (Stato centrale, amministrazioni locali, organismi della «sicurezza sociale», sistemi di insegnamento, ecc.). È dunque l’insieme degli impegni finanziari che queste istanze devono in linea di principio rimborsare ai loro creditori, con gli interessi.

Ma queste stesse entità detengono degli attivi (finanziari e non finanziari: dagli immobili al sapere [know how] di proprietà del sistema educativo), un patrimonio. Se si tiene conto di questo dato, il rapporto del debito pubblico al PIL cambia. Le élites dominanti vogliono mostrare con il dito solo il numeratore. Il debito è sempre un rapporto tra ciò che il paese deve e ciò che vale. Vale a dire il suo patrimonio globale. Spesso si tace su questo elemento. Il che facilita la strumentalizzazione sociale e politica del debito pubblico nel senso dei piani di austerità che prendono di mira i salari diretti e il salario sociale, a vantaggio dei percettori di reddito che «vivono tra l’altro sul debito» ed esigono misure che assicurino il flusso degli interessi legati alle obbligazioni (titoli di credito) che detengono. Tale realtà è ben caratterizzata da J.M. Keynes nell’ultimo capitolo della “Teoria generale”, nel quale reclamava «l’eutanasia dei percettori di reddito».

Dall’inizio degli anni 1970, il debito pubblico accumulato si è fortemente appesantito in tutti i paesi dell’Unione Europea (UE), Le finanze pubbliche non hanno smesso di degradarsi sotto l’effetto delle diverse recessioni economiche. Il debito pubblico è dunque legato strettamente alla crisi strutturale del capitalismo dal 1974-75. Bisogna però aggiungere tre elementi.

● Il primo: nell’insieme dei paesi dell’OCSE si constata un aumento relativo, sul lungo termine, della spesa pubblica. Questo traduce la partecipazione pubblica necessaria alle condizioni dell’accumulazione del capitale (strutture collettive, servizi pubblici, formazione…). E anche a bisogni sociali ai quali le classi dominanti hanno dovuto –a seconda dell’evoluzione dei rapporti di forza sociali– rispondere per stabilizzare il loro dominio. E questo senza imporre una politica fiscale che, nei periodi di «pericolo» come la Seconda Guerra Mondiale, espropriava quasi totalmente i redditi più elevati al di sopra di una certa soglia. Questa tendenza è stata studiata, nel 1973, da James O’Connor nella sua opera «The Fiscal Crisis of the State».

●Il secondo: l’aggravamento del debito pubblico non è legato, dopo gli anni 1980, ad un aumento «sconsiderato» delle spese pubbliche, ma ad una diminuzione relativa delle entrate pubbliche.
Questo rinvia: a una diminuzione delle imposte che colpiscono i redditi elevati (e molto elevati) e le imprese capitaliste; alla defiscalizzazione delle operazioni finanziarie (banche, assicurazioni, fondi di investimento, ecc.); alla creazione di «nicchie fiscali» che proteggono somme molto importanti; a misure favorevoli «alla concorrenza fiscale» all’interno dell’Unione europea (UE) e su scala mondiale, incluso all’interno dei paesi federalisti, i cui Länder [regioni tedesche], cantoni o Stati (Germania, Svizzera, Stati Uniti), conducono le loro battaglie fiscali concorrenziali interne per attirare «investitori» (imprese) o la residenza dei detentori di grandi fortune; alle decisioni politiche che permettono che le società riducano la loro «partecipazione» ai contributi sociali, con l’obiettivo dichiarato politicamente di facilitare la creazione di posti di lavoro, allorché gli studi assai poco contestatori indicano che l’investimento dipende dalla domanda finale (vale a dire: che cosa c’è nelle indicazioni dei portafogli degli ordinativi) assi più che dagli «aiuti ai salari» e dalla «riduzione della tassazione sul capitale», senza menzionare i settori economici che sfuggono a qualsiasi fiscalizzazione («economia sommersa») e i «paradisi fiscali».

Il fatto che le entrate pubbliche non siano aumentate al ritmo delle spese pubbliche è dunque il frutto di una volontà politica dei governi –di destra come di «sinistra»– di mantenere i prelievi al di sotto del livello necessario a un certo equilibrio tra spese ed entrate, e che la creazione della ricchezza sociale rendeva tuttavia possibile.

● Il terzo: questa politica va direttamente a beneficio di alcuni settori capitalisti e permette una operazione «miracolosa». Questi diventano creditori dello Stato. In effetti, banche e società di assicurazione presso le quali piazzano i loro «risparmi» (i loro guadagni) acquistano titoli del debito pubblico (obbligazioni, buoni del Tesoro, a volte defiscalizzati come in Italia). Di conseguenza, le imposte non pagate da questi «attori economici» –in fondo si tratta di una evasione fiscale legale –diventano un capitale finanziario che apporta interessi. Questi ultimi sono pagati da/i/lle salariat*. Il debito ridistribuisce dunque la ricchezza sociale a favore dei ricchi; è uno strumento di crescita della disuguaglianza sociale; di qui l’importanza di assicurare il suo flusso verso i creditori.

Per di più, il debito pubblico giustifica le privatizzazioni, in seguito a un degrado pianificato degli investimenti nelle infrastrutture e di compressione del personale di diversi settori pubblici, tra gli altri quelli della sanità, dell’istruzione, dei trasporti, della posta. Il che impoverisce ancora di più i/le salariat* sfruttat*, che avrebbero bisogno di un accesso gratuito (o a prezzo molto basso) a cure di qualità, a infrastrutture collettive, alla formazione. Quindi, rifiutare un simile debito non sembra assurdo. Questo ancor più per il fatto che l’indebitamento (il credito) è un elemento intrinseco di risposta del capitale alla sua crisi di lunga durata.

Non si è visto accelerare questo processo dal 2008? E perché?

C-A.U.:

In effetti, la connivenza tra il governo e gli investitori finanziari −che in realtà non si contrappongono− ha condotto nel corso dell’autunno 2008 al salvataggio delle banche (i 28 miliardi di euro accordati da Konstantin Karamanlis di Nuovo Democrazia ad alcune banche) e al sostegno alle grandi imprese (settore automobilistico). Questo è stato fatto, in gran parte, tramite prestiti: buoni del Tesoro emessi sul mercato del debito pubblico (i mercati delle obbligazioni). Sotto l’affetto di questi prestiti, della diminuzione delle entrate legate meccanicamente alla diminuzione della produzione e delle vendite di beni (TVA) −come pure ai regali fiscali che in Grecia sono stati la base di un’alleanza sociopolitica del governo della Nuova Democrazia dal 2004− il debito pubblico è aumentato in tutti i paesi della UE. Dal 2007 al 2010, (calcoli e stime di Eurostat), il tasso di aumento è stato del 26,7% per l’eurozona; del 27,7% per la Francia; del 38,4% per i Paesi Bassi; del 28,3% per il Portogallo; del 72,1% per la Spagna; del 218,8% per l’Irlanda; del 12,2% per l’Italia; del 21,3% per la Grecia.

Quanto al debito in percentuale del PIL, Eurostat fa la seguenti valutazioni per il 2010: Francia: 81,5%; Paesi Bassi: 63,1%; Portogallo: 81,5%; Spagna: 62,3% (ma con una prospettiva di peggioramento molto forte per il 2011); Irlanda: 79,7%; Italia: 116,1%; Grecia 115%; l’eurozona: 83,6%.

Se la Grecia è il terreno di prova delle politiche di austerità della UE e della realizzazione di uno «Stato effettivamente neoliberista» non è dunque a causa dell’aumento del suo debito. Governi europei e istituzioni finanziarie internazionali, Banca Centrale Europea (BCE) e Fondo Monetario Internazionale (FMI), utilizzano il tasso del debito in rapporto al PIL come strumento di un attacco che vuole essere un banco di prova sociopolitico, al quale collaborano i capitalisti greci e il loro governo.

Tutti sanno che le attuali risorse fiscali della Grecia dipendono di fatto da tre fattori: i noli della flotta marittima, il commercio con il Medio Oriente −inclusa la Turchia− e il turismo. La crisi economica e la politica della BCE soffocano meccanicamente questi tre fattori. Anche con un governo «rigoroso», secondo i criteri della UE, il deficit sarebbe esploso. Non ci sono dunque i «salari troppo elevati» de/i/lle salariat* grec* o i redditi de/i/lle pensionat* all’origine dell’esplosione del debito.

Esaminiamo infine il ruolo specifico delle banche nella situazione attuale. Queste sono state salvate nel 2008: oggi dichiarano profitti importanti. Queste istituzioni diversificate hanno comprato buoni del Tesoro con i il denaro che gli è stato accordato dai governi. Hanno trasferito delle liquidità −che gli sono state accordate a interessi bassissimi− verso filiali speculative (edge funds) che cercano di guadagnare ancora di più sul debito pubblico, tra l’altro con strumenti speculativi come i CDS (Credit Default Swaps). [1]

Il potere del capitale finanziario è dunque uscito rafforzato dalla crisi e senza essere messo in imbarazzo da una pretesa «regolazione» che i governi hanno tanto invocato e che continuano a proclamare. Questo settore si sente abbastanza forte da speculare apertamente contro i governi e contro l’euro.

Più concretamente fa presente che è tempo di imporre a/i/lle salariat* una superausterità che assicuri il servizio degli interessi dell’insieme del debito e persino forse un rimborso del principale, almeno in parte.

«La finanza» ha come priorità di assicurare che i crediti accumulati dalle banche europee –tedesche, francesi, inglesi e, in misura minore, svizzere− sulla Grecia non siano svalorizzati. Domani, lo stesso scenario rischia di svilupparsi allo scopo di tranquillizzare le banche e le altre istituzioni (comprese sotto la formula quasi magica di mercati) fortemente impegnate in direzione della Spagna.

I padroni utilizzeranno i «piani di austerità» per ristabilire i loro profitti toccati dalla recessione del 2008-2009, invocando −tutti− la necessità «di affrontare la concorrenza internazionale»; la contrazione dei salari nel [settore] pubblico servirà da leva, con la disoccupazione, per abbassare i salari e intensificare e allungare il tempo di lavoro di quelli e quelle che dispongono di un posto di lavoro, formale o «informale», atipico.

Per raggiungere questi obiettivi, sarà necessario condurre una guerra sociale contro la popolazione salariata greca ed europea, con l’appoggio dei governi a tonalità, più o meno pronunciata, di unione nazionale; il che condurrà d’altronde ad accelerare una nuova e dura recessione nella UE.

È possibile che uno Stato della UE faccia fallimento nel corso di tali crisi del debito?

C-A.U.: In senso stretto uno Stato non può fare fallimento come un’impresa. In stato di cessazione di pagamento quest’ultima viene cancellata dal registro del commercio e deve liquidare i propri attivi (macchine, immobili, brevetti…) per pagare –spesso meno che più− i diversi creditori e i salari (almeno una frazione) dei licenziati. Il parallelo tra un paese e un’impresa non è dunque pertinente.

Per affrontare questa questione occorre avere presente la natura di classe dei prestatori (dei creditori) che si sono ingrassati pagando pochissime tasse e incassando gli interessi delle obbligazioni e con altri strumenti finanziari che posseggono; interessi pagati da* salariat* contribuenti.

Uno Stato potrebbe evitare uno scenario catastrofico di una incapacità di pagamento [o insolvenza] aumentando le entrate. In altri termini, prelevando delle imposte sulle categorie sociali più agiate che risparmiano di più, cosa che non diminuirebbe il consumo. Diversi studi dimostrano che il deficit di bilancio greco potrebbe essere coperto da una tassazione dei ricchi che sono tra i creditori dello Stato. Perché dimenticare che F.D. Roosevelt, nel 1932, fece passare il tasso marginale di imposizione dei redditi elevati al 79% (per il futuro, in Grecia, è previsto al 45%!). Uno studio della banca HSBC (Mathilde Lemoine) indica che il 29% dell’ultimo prestito di 5 miliardi di euro emesso dalla Grecia, è stato sottoscritto –a un tasso delirante del 6,25%− da greci, dunque da ricchi, e domani ancora più ricchi! La scelta della tassazione è rifiutata, a partire da una difesa degli interessi delle classi dominanti, il che implica un attacco multidimensionale condotto dai governi in carica contro la maggioranza che produce la ricchezza sociale di un paese.

L’affermazione che il tasso del 6,25% (in rapporto al 3,2% per le obbligazioni a 10 anni della Germania) del prestito è delirante si fonda su molte ragioni. 1° Aritmetica: il finanziamento del debito a un tasso del 6,25% accompagnato da una crescita nulla o negativa risulterà in un’esplosione catastrofica del debito. L’attuale piano di austerità greco equivale già, secondo l’OFCE (Ufficio francese delle congiunture economiche, Xavier Timbeau) almeno a un raddoppio dell’imposta sul reddito in Francia. 2° Questo tasso del 6,25% è accettato per «obbedire alla disciplina dei mercati», vale a dire gli investitori. Ora, questi ultimi sono largamente all’origine della crisi del 2008. Accettare i loro ordini equivale a camminare sulla testa. Quando «i mercati sono rassicurati» i salariati devono essere spaventati! 3° Una tale politica conduce alla distruzione delle capacità produttive di uno Stato a beneficio del pagamento degli interessi privati del debito. 4° Una soluzione elementare , persino nell’ambito di una politica borghese semi-keynesiana potrebbe essere la seguente: man mano che i titoli del debito greco (o di altri paesi) arrivano a scadenza, le banche della UE dovrebbero essere obbligate a sottoscrivere i nuovi titoli a un tasso di interesse con un tetto massimo. E se queste banche devono rifinanziarsi, potrebbero sempre depositare questi titoli presso la BCE, cosa che si fa già per le «obbligazioni buone».

Il rifiuto di una tale opzione ha come solo fondamento l’avidità di classe di guadagno degli investitori e dei loro complici governativi, e una scommessa politica su un grado sufficiente di «tolleranza sociale» delle masse lavoratrici (inquadrate dagli apparati politici e sindacali); senza menzionare il peso dei dogmi monetaristi e la difesa degli interessi specifici dominanti dei paesi del nord della UE, in particolare l’imperialismo tedesco.

Quale dovrebbe essere la risposta della sinistra e del movimento operaio in una tale situazione?

C-A U.: Nella misura in cui una opinione così moderata (non farsi imporre tassi indecenti e misure distruttrici) come quella indicata prima è chiaramente respinta, il ripudio del debito appare –dal punto di vista degli interessi dei lavoratori greci ed europei, e non solo di quelli del Portogallo, della Spagna e dell’Italia− come una strada ragionevole da imboccare.

Questo di deve basare sull’ampiezza della mobilitazione sociale e politica, l’imposizione di un rapporto di forza e la sua estensione su scala europea. La posta in gioco è infatti europea, come ripete dal gennaio 2010 “The Economist” la bibbia della City [il cuore bancario e finanziario di L.] londinese.

Per una volta, i creditori saranno gli zimbelli della compagnia, proprio loro che amano richiamarsi al rischio! Tanto più che gli speculatori che utilizzano i CDS −cioè una specie di assicurazione incendi su una casa che non si possiede, ma sperando che prenda fuoco, compreso giocando ai piromani− non esitano a strangolare i popoli.

Uno Stato resta uno Stato anche se decide di sbarazzarsi del fardello −o di una parte importante− del suo debito. Può almeno sospendere per qualche semestre il pagamento degli interessi, indicando che non ci sarà recupero. Può ridurre il montante nominale dei titoli del debito quando arrivano a scadenza. Ma è preferibile puntare in alto, dato che il contrattacco dei «mercati» contro i «cattivi pagatori» sarà ugualmente forte, limitato o ampio che sia il ripudio. E, allo stesso tempo, fare chiarezza sulle origini del debito, le sue componenti, le operazioni dubbie legate all’indebitamento. In fondo mettere in piedi una revisione dei conti popolare.

Bisogna che il ripudio fornisca risorse che siano almeno all’altezza del deficit corrente, per dare ossigeno. In effetti i prestatori dovranno pagare –non ricevendo più il prelievo di ricchezza che attendono pazientemente grazie al possesso di parti del debito pubblico− una somma che non è altro che le tasse che non hanno pagato in questi ultimi 25 anni e che hanno nascosto legalmente, ad esempio registrando le loro società a Cipro o in Svizzera, sull’esempio degli armatori greci.

In effetti, come abbiamo spiegato, hanno preferito governi che si indebitano (a loro favore) a governi che li tassano! Dunque, ecco un semplice giro del bastone dell’«etica» della quale i difensori del Capitale ci riempiono le orecchie.

Certo, questo ripudio deve essere accompagnato da un insieme di misure che vanno dalla nazionalizzazione delle banche a un nuovo sistema di imposte e a una riorganizzazione della sicurezza sociale e dei servizi pubblici....

Non è qui che un tale piano −che dovrebbe essere largamente discusso tra i settori mobilitati, unitamente a una vasta inchiesta sui bisogni sociali non soddisfatti− deve essere esposto. È compito de* salariat* della Grecia, de* immigrat* e de* lavorat* europe*. Poiché la crisi in arrivo è di una gravità senza paragoni dalla Seconda Guerra mondiale.



[1] I CDS sono contratti finanziari −assimilabili a un contratto di assicurazione− con l’obiettivo di proteggere contro il fallimento di un prestatario [o mutuatario, cioè chi prende a prestito]. Chi acquista un CDS paga un premio annuale, in contropartita del quale il venditore si impegna a compensare la perdita di valore di un attivo, o il caso di insolvenza di un prestatario. Contrariamente ad un assicuratore classico, il venditore di CDS non è tenuto a mettere insieme in anticipo i fondi necessari per coprire il possibile deprezzamento.


Charles-André Udry, economista, membro del “Mouvement pour le socialisme” (MPS-BSF) e animatore di “Editions Page deux”.

Nessun commento: