giovedì 19 febbraio 2009

Morire di governo, anche all'opposizione

di Salvatore Cannavò
Chi pensa che la crisi che ha colpito il Pd con la sconfitta in Sardegna e le dimissioni di Veltroni non interpelli e coinvolga anche la cosiddetta sinistra radicale si sbaglia. La crisi del Pd non è semplicemente il frutto di scelte e svolte operate nel medio periodo ma viene da lontano, da molto lontano. Per certi versi è l'ennesimo, disastroso, scivolone conseguente allo scioglimento del Pci e non è casuale che esploda solo pochi mesi dopo la scomparsa della sinistra comunista dal parlamento. Una crisi che interpella tutta la "famiglia" politica proveniente da Pci e che pone in termini davvero urgenti e drammatici la questione della ricostruzione della sinistra di classe.Che le dimissioni di Veltroni siano il fallimento annunciato di un progetto mai davvero avviato e organizzato sono in molti ormai a dirlo e a scriverlo. In realtà, dietro la nascita del Pd un disegno politico c'era ma è stato sconfitto. Il Pd è nato per il governo, cioè per essere il braccio operativo, sul versante illuminista e progressista, della borghesia italiana nella competizione internazionale. A rapporto da Confindustria non c'è andato solo Veltroni ma tutti i dirigenti ex Ds e ex Margherita: D'Alema come Fassino, Bersani come Rutelli. Solo che quel progetto ha perso, per ben due volte, la prova del governo, non è riuscito, cioè, a coagulare attorno a sé un blocco sociale, politico e culturale in grado di fare da contrappeso al progetto speculare, ma vincente, di Berlusconi e del suo "Popolo delle Libertà". La ragione è semplice: il progetto di Berlusconi è limpido e solare - un populismo liberista che parla al ventre molle e agli istinti bassi di un paese impoverito e incattivito. Quello del Pd allude a un compromesso sociale - "dinamico" nelle parole di Bertinotti - fuori dal tempo e dalle urgenze sociali. La crisi del governo Prodi, e poi la rovinosa sconfitta di aprile, lo hanno bollato definitivamente Ma a spazzarlo del tutto ci ha pensato il sopravvento della più grave crisi economica del dopoguerra che ha polverizzato la pretesa progressista del liberismo temperato che ha mosso l'Ulivo prima e il Pd poi. E oggi mentre anche i conservatori sono costretti a scoprire gli effetti benefici dell'intervento statale, i liberisti di sinistra sono rimasti al palo. Lo dimostra l'inconsistenza del programma economico veltroniano e il mutismo che il Pd ha scontato finora nel pieno di una crisi economica e sociale senza precedenti. I nodi sono venuti al pettine: nato per proporre una sponda politica a una borghesia in crisi di rappresentanza - dopo il crollo dei grandi partiti novecenteschi, Dc e Psi e in costanza dell'inaffidabilità berlusconiana - il progetto sognato da Occhetto già nel 1989 ha mostrato la propria stessa inaffidabilità e, allo stesso tempo, si è reciso i legami con l'unico blocco sociale di riferimento, il movimento operaio vecchio e nuovo. L'assenza della dirigenza democratica alle recenti manifestazioni della Cgil ha rappresentato il sintomo di questa impasse e ne ha accentuato le debolezze. Un partito che ha smesso di rappresentare gli interessi dei lavoratori, sia pure su un piano riformistico e compatibilistico, ma che non è riuscito a realizzare i favori del padronato. Come è costretto ad ammettere Massimo D'Alema quando dice che "ci vorrebbe un po' di socialismo" per affrontare la crisi ricordando però, allo stesso tempo, che il governo Prodi, con il cuneo fiscale, ha regalato ai padroni circa 7 miliardi l'anno "e quelli non hanno neanche detto grazie. Anzi, si sono alleati con Berlusconi".Il richiamo al governo Prodi serve a ricordare l'altro soggetto in crisi, la sinistra alternativa dei vari Bertinotti, Giordano, Diliberto, Ferrero e via dicendo, che nella vicenda di quell'esecutivo ha dimostrato quanto alto fosse ancora, dopo 17 anni di "rifondazione del comunismo" il proprio tasso di riformismo e di atteggiamento compromissorio. Mentre i cugini dei Ds, divenuti poi Pd, cercavano di svestire i panni del togliattismo vecchia maniera per indossare quelli del kennedismo, i dirigenti del Prc e del Pdci non hanno saputo fare di meglio che perpetuare una visione di "democrazia progressiva" che invece, nei conflitti indotti dalla violenza della globalizzazione, non aveva spazio alcuno. La crisi verticale e irrimediabile del governo Prodi lo ha dimostrato con esattezza. E oggi ci troviamo al punto più basso della storia repubblicana con una "sinistra" nel suo insieme muta, non-credibile, disastrata che avvolge nella sua crisi tutti noi e in particolare i lavoratori e le lavoratrici.Il nodo della ricostruzione è posto con nettezza. E a dover essere ricostruita non è soltanto una ma due sinistre: una sinistra di classe e anticapitalista - comunista, ecologista, femminista come noi la chiamiamo - ma anche una sinistra riformista di stampo socialdemocratico che non è la nostra prospettiva ma la cui affermazione, nella situazione data, costituirebbe un passo avanti. Questo compito non spetta a noi e non sappiamo se qualcuno vi si accingerà. Bertinotti ci spera quando parla della necessità di un "big bang" (facendo finta di non accorgersi che il big bang in realtà c'è già stato e lui ne è stato uno dei promotori), Bersani ci punta. Vedremo. A noi compete invece la ricostruzione di una sinistra di classe che provi a partire da un punto stabile e fermo: il capitalismo si combatte e non si governa. E non si governa perché è proprio la compromissione con esso ad aver prodotto guasti irreparabili. Chi vuole continuare a far finta di non vedere che se a Roma la destra ha vinto e si affermano ronde e rigurgiti fascisti è grazie all'eredità lasciata dal centrosinistra compresa Rifondazione? e che lo stesso avviene in altre parti d'Italia? Ovviamente questa acquisizione non basta ma è un punto di partenza per delimitare il campo delle forze che possono impegnarsi in una riflessione comune.

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