lunedì 21 dicembre 2009

Copenaghen, fallimento al vertice vittoria alla base .


L'insuccesso del Vertice sul Clima è la dimostrazione di un mondo governato dalla logica del profitto e della concorrenza. Ma nella capitale danese si è mostrata una consapevolezza nuova che poggia sull'azione collettiva e può far nascere una nuova dinamica di lotta


Si sapeva che il vertice delle Nazioni Unite a Copenaghen non avrebbe portato a un nuovo Trattato internazionale ma a una semplice dichiarazione di intenti, l'ennesima. Ma il testo approvato al termine dell'incontro è peggio di qualunque cosa si possa immaginare: nessun obiettivo per le riduzioni delle emissioni quantificate, non l'anno di riferimento per la misurazione, nessuna scadenza, nessuna data.
Il testo comprende una vaga promessa di un centinaio di miliardi di euro l'anno per l'adattamento nei paesi in via di sviluppo, ma le formule utilizzate e i vari commenti sollevano timori di prestiti amministrati da grandi istituzioni finanziarie piuttosto che un reale indennizzo da parte dei responsabili per i rifiuti. L'incoerenza del documento è totale.
I capi di Stato e di Governo riconoscono che «il cambiamento climatico costituisce una delle più grandi sfide della nostra epoca» ma, al termine della quindicesima Conferenza sul problema, sono ancora incapaci di prendere qualsiasi misura concreta per affrontarlo.
Essi ammettono per primi la necessità di restare «sotto 2°C» di rialzo della temperatura, quindi la necessità di «riduzioni drastiche delle emissioni conformemente al quarto rapporto del GIEC» ma sono incapaci di firmare le conclusioni quantificate dai climatologi: almeno il 40% di riduzione entro il 2020 e 95% di riduzione entro il 2050 nei paesi evoluti. Sottolineano con enfasi la forte volontà politica» di «collaborare alla realizzazione di questo obiettivo» (meno di 2°C di rialzo della temperatura), ma non hanno niente altro da proporre che una locanda spagnola dove ogni paese, dal 1 febbraio 2010, comunicherà agli altri ciò che conta di fare.
Intrappolati dall'ipermediatizzazione che hanno loro stessi orchestrato, i Grandi della terra si sono ritrovati sotto la pressione della piazza e capaci solo di mostrare le loro sorde rivalità. E così, i rappresentanti di 26 grandi paesi hanno fatto fuori le Ong, messo da parte i piccoli Stati e steso in extremis un testo il cui scopo principale è di far credere che ci sia un pilota politico nell'aereo. Ma non c'è pilota. O piuttosto, l'unico pilota è automatico: è la corsa al profitto dei gruppi capitalisti lanciati nella guerra di concorrenza per i mercati mondiali. Il candidato Obama e l'Unione europea avevano giurato e spergiurato che le imprese avrebbero dovuto pagare i loro diritti di emissioni: ma hanno fatto marameo! Alla fine, la maggior parte di esse li ricevono gratuitamente e ci fanno profitti sopra rivendendoli e fatturandoli al consumatore! Sul resto ci si accorda. La consegna è non disturbare gli affari.
Questo sedicente accordo trasuda impotenza da tutti i pori. Restare sotto 2°C, certamente non si decreta. Sempre che sia ancora possibile, occorre assolvere condizioni piuttosto drastiche. Che comportano di consumare meno energia, dunque di trasformare e trasportare minor materia. Bisogna produrre meno per la domanda solvibile e soddisfare allo stesso tempo i bisogni umani, in particolare nei paesi poveri. Come fare? È la domanda chiave. Non è così difficile da risolvere. Si potrebbe sopprimere la produzione di armi, abolire le spese di pubblicità, rinunciare a quantità di fabbricazioni, di attività e di trasporti inutili. Ma ciò andrebbe contro la produzione capitalista, la corsa al profitto che necessita la crescita. Sacrilegio! Tabù! Risultato? Mentre le emissioni mondiali devono diminuire almeno del 80% entro il 2050, mentre i paesi sviluppati sono responsabili di più del 70% del riscaldamento, l'unica misura concreta infilata nell'accordo è l'arresto della deforestazione che riguarda solamente il Sud e rappresenta il 17% delle emissioni.
Avanzamento ecologico? No! «Proteggere» le foreste tropicali (cacciando la gente che ci vive!) è per gli inquinatori il modo più economico per mantenere il diritto di continuare a produrre (armi, pubblicità, ecc) e inquinare ...dunque continuare a distruggere le foreste per il riscaldamento.
Così la legge del profitto marcisce tutto ciò che tocca e trasforma tutto nel suo opposto.
Fortunatamente, di fronte alla rovina del vertice, Copenaghen è una magnifica vittoria dal basso. La manifestazione internazionale di sabato 12 dicembre ha raccolto circa 100.000 persone. Il solo precedente di mobilitazione tanto massiccia su questo tema è quello dei cortei che hanno raggruppato 200.000 cittadini australiani in diverse città contemporaneamente,nel novembre2007. Ma si trattava di una mobilitazione nazionale e l'Australia subisce con forza gli impatti del riscaldamento: non è (ancora) il caso dei paesi europei da cui sono venuti la maggior parte dei dimostranti che, nonostante una repressione poliziesca selvaggia, hanno investito la capitale nordica al grido di “prima il Paneta, prima i popoli”.
Di fronte all'incapacità totale dei governi, di fronte agli interessi economici che impediscono di adottare le misure per stabilizzare il clima nella giustizia sociale, sempre più abitanti del pianeta capiscono che le catastrofi annunciate dagli specialisti potranno essere evitate soltanto cambiando radicalmente politica.
Copenaghen simboleggia questa presa di coscienza. Essa è espressa dalla partecipazione di attori sociali che, fino a poco tempo, si tenevano lontani dalle questioni ambientali, o addirittura le guardavano con diffidenza: organizzazioni di donne, movimenti contadini, sindacati, associazioni di solidarietà Nord-sud, movimento della pace, raggruppamenti altermondialisti, ecc.
Un ruolo chiave è giocato dai popoli indigeni che, lottando contro la distruzione delle foreste, (con un rapporto di forza paragonabile a quello di Davide che affronta Golia!), simboleggiano al tempo stesso la resistenza alla dittatura del profitto e la possibilità di un'altra relazione tra l'umanità e la natura.
Queste forze hanno in comune di puntare maggiormente sull'azione collettiva che sull'attività di pressione, cara alle grandi associazioni ambientali. La loro entrata in scena sposta radicalmente il centro di gravità. Ormai, la lotta per un trattato internazionale ecologicamente e socialmente efficace si giocherà nelle strade – piuttosto che nei corridoi dei vertici - e sarà una battaglia sociale - più che un dibattito tra esperti.
Mentre il vertice ufficiale partoriva uno straccio di carta, la mobilitazione sociale e il vertice alternativo hanno gettato le basi politiche dell'azione da condurre dal basso nei prossimi mesi: “Change the system, not the climate„, “Planet not profit„, “bla bla bla Act Now„, “nature doesn't compromise„, ““Change the Politics, not the climate„, “There is no PLANet B„.
Nonostante i suoi limiti (che riguardano il ruolo delle Nazioni Unite, in particolare) la dichiarazione del Klimaforum09 è un buon documento, che respinge il mercato del carbonio, il néocolonialismo climatico e la compensazione (“offsetting„) delle emissioni con piantagioni di alberi, o altre tecniche bidone.
Sempre più gente lo capisce: il deterioramento del clima non è il risultato “dell'attività umana” in generale bensì di un modo di produzione e di consumo intollerabile. E ne traggono la conclusione logica: il salvataggio del clima non dovrebbe derivare soltanto da un cambiamento dei comportamenti individuali, richiede al contrario dei cambiamenti strutturali profondi. Si tratta di addebitare questo carico al profitto, poiché questo comporta inevitabilmente la crescita esponenziale della produzione, dello spreco e del trasporto di materia, dunque emissioni.
Disastro, fallimento del vertice? Ottima notizia invece. Ottima notizia, perché è il momento di fermare questo ricatto che impone che in cambio di meno emissioni si debba dare vita a più neoliberismo e più mercato.
Eccellente notizia perché il trattato che i governi potrebbero concludere sarebbe ecologicamente oggi insufficiente, socialmente criminale e tecnologicamente pericoloso: implicherebbe un rialzo di temperatura tra 3,2 e 4,9°C, una salita del livello degli oceani di 60cm a 2,9 metri (almeno), ed una fuga in avanti nelle tecnologie di apprendista-stregone (nucleare, biocombustibili, Ogm e “carbone proprio” con stoccaggio geologico di miliardi di tonnellate di CO2.
Centinaia di milioni di poveri sarebbero le principali vittime. Notizia eccellente poiché questo fallimento dissipa l'illusione che la “società civile mondiale” potrebbe, con “la buona gestione”, associando tutti «azionisti» trovare un consenso climatico tra interessi sociali antagonistici.
È il momento di vedere che, per uscire dai combustibili fossili, ci sono due logiche completamente opposte: quella di una transizione guidata alla cieca dal profitto e della concorrenza, che ci conduce diritto contro il muro; e quella di una transizione progettata coscientemente e democraticamente in funzione delle necessità sociali ed ecologiche, indipendentemente dai costi, dunque ricorrendo al settore pubblico e condividendo le ricchezze. Questa via alternativa è la sola che permette di evitare la catastrofe. Il re è nudo.
Il sistema è incapace di rispondere al problema gigantesco che egli stesso ha creato se non infliggendo danni irrevocabili all'umanità ed alla natura. Per evitarlo, è tempo della mobilitazione più ampia. Siamo tutte e tutti coinvolti e coinvolte. Il riscaldamento del pianeta è molto più che una questione “ambientale”: è una minaccia sociale, economica, umana ed ecologica che richiede obiettivamente un'alternativa ecosocialista. La questione di fondo è questa: il capitalismo, come sistema, ha superato i suoi limiti. La sua capacità di distruzione sociale ed ecologica prevale chiaramente sul suo potenziale di progresso. L'augurio è che questa constatazione possa aiutare a fare convergere le lotte a favore di un'altra società. I dimostranti di Copenaghen hanno aperto la via. Ci invitano a raggiungerli nell'azione: “Act now. Planet, not profit. Nessun compromesso sulla natura».

Nessun commento: