mercoledì 2 dicembre 2009

Autunno 69: si ribellano gli operai, nascono i consigli,


Di seguito pubblichiamo la sintesi della relazione introduttiva del nostro compagno Diego Giachetti al convegno Autunno 69: si ribellano gli operai, nascono i consigli, organizzato a Torino il 21 novembre 2009 dal Partito della Rifondazione Comunista.
Nell’articolo relativo al convegno, pubblicato il giorno dopo sul quotidiano «Liberazione», che dettaglia e sintetizza la maggior parte degli interventi, di questa introduzione e dell’introduttore non si è fatto alcun cenno.


Il ciclo di lotte che appartengono all’autunno caldo italiano si inserisce pienamente in un fenomeno che interessa altri paesi del mondo facendone, come per il magnificato ’68, un evento internazionale. I dati relativi alla conflittualità prodotta dai lavoratori salariati, principalmente dell’industria, nell’arco di tempo che va dal 1948 al 1973, evidenziano un picco di sincronia delle lotte, elevato e concentrato nel quinquennio 1968- 1973, in molti paesi: Stati Uniti, Italia, Irlanda, Canada, Australia, Giappone, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Finlandia, Nuova Zelanda, Danimarca, Norvegia, Olanda, Germania Occidentale, Svezia, Svizzera, Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia, India, Cile, Perù, Argentina, Marocco, Kenia, Zambia, Ghana, Uganda, Nigeria. In generale fu la classe operaia manifatturiera che apportò il maggior contributo al ciclo di ascesa delle lotte in quel quinquennio. In particolare, fu nell’industria che si produsse una forte conflittualità di classe. E nel settore industriale il comparto automobilistico - definito il settore «fondamentale per il capitalismo del XX secolo» - si caratterizzò per le numerose mobilitazioni dei lavoratori.
Quelle onde di contestazione e di protesta operaia avevano caratteristiche simili. Si scatenarono all’improvviso e con forza imprevista e ottennero «rapidamente dei risultati»; adottarono forme non convenzionali di protesta, «tipica l’azione diretta, gli “scioperi strategici”»; quelle mobilitazioni «assunsero, per la nazione in cui avvenivano, un significato politico che andava al di là dell’importanza specifica del settore e dei suoi addetti, per cui queste ondate rappresentarono vere e proprie svolte all’interno di ciascun paese nei rapporti tra capitale e lavoro». Sul momento, quando l’ondata di lotte investì anche la Fiat di Torino, commentatori borghesi come l’allora direttore de «La Stampa», Alberto Ronchey, coniarono la definizione di “scioperi selvaggi” per mettere in evidenza due aspetti salienti: l’indizione spontanea degli scioperi da parte dei lavoratori e le forme di lotta particolarmente dure adottate per condurre la contrattazione, non rispettose delle regole che regolavano le relazioni tra sindacato e padronato.
All’appuntamento con quella ripresa delle lotte, in particolare alla Fiat, le forze del movimento operaio si presentarono con alcune caratteristiche specifiche. Il sindacato era estremamente indebolito a causa della repressione subita nella fabbrica vallettiana. Inoltre, i quadri sopravvissuti erano “vecchi”, in moltissimi casi l’adesione al sindacato era motivata ragioni di “ordine ideologico”, molti vivevamo fuori dalla fabbrica, perché erano stato licenziato o perché non vi erano mai entrati. Infine, la quasi totalità dei sindacalisti era di origine piemontese, parlava abitualmente piemontese.
Non meno difficile e problematica è la situazione in cui viene a trovarsi il Pci. Nel 1968 partito aveva 250 iscritti alla sezione Mirafiori, 200 alle Ferriere, 200 alla Metarferro e 150 a Stura, pochi se confrontati col peso elettorale che aveva in città e nei quartieri popolari. Si trattava di tesserati poco attivi in fabbrica che ebbero nell’immediato difficoltà a rapportarsi alle nuove forme di lotta, alle rivendicazioni che nascevano dalla base, compresa l’elezione diretta del delegato operaie e le prime riunioni del consiglio di fabbrica.
Diverso invece l’approccio dell’allora Psiup che promosse la sua iniziativa in fabbrica appoggiando le nuove forme di organizzazione operaia (delegati, assemblee di officina e reparto) considerate come organismi di un movimento politico di massa totalmente autonomo dai sindacati, capace di condizionarli e di trattare con loro come si tratta coi padroni.
In questo vuoto di rappresentanza sindacale e politica una parte consistente degli operai Fiat in lotta spontanea, giovani immigrati addetti alla catena di montaggio soprattutto, trovarono riferimento e rappresentanza nell’Assemblea operai e studenti, sorta nel maggio del 1969 dalla fusione tra i quadri del movimento studentesco locale e vari gruppi “operaisti” che facevano da tempo “lavoro di porta” alla Fiat. Quest’organismo informale ebbe nei mesi della primavera del 1969 una certa egemonia nel coordinamento della lotta che si sviluppava simultaneamente nei vari reparti e che rivendicava aumenti salariali eguali per tutti, riduzione dell’orario di lavoro, passaggio automatico di categoria, diritto di assemblea nei reparti. In quei mesi, dirà anni dopo Sergio Garavini, «la gestione degli scioperi non l’avevamo noi, l’aveva Lotta continua», riferendosi alla firma che compariva al fondo dei quotidiani volantini prodotti dell’’Assemblea opera e studenti.
L’apice di questa prima ondata di ripresa della lotta alla Fiat, dopo gli “anni duri” della repressione, quando le adesioni agli scioperi erano scarsissime, si raggiunse con la manifestazione del 3 luglio 1969, passata alla storia come la rivolta di Corso Traiano, dal nome del corso dove avvennero lunghi e prolungati scontri tra operai, studenti e forze dell’ordine. Accanto agli studenti, scrisse a caldo un giornalista, c’erano gli operai, soprattutto quelli giovani e immigrati, i “tera da pipe”, “napoli”, “bassitaglia”, “terroni”, come venivano appellati dai torinesi.

A settembre subito la lotta riprese con decisione a partire dell’officina 32 di Mirafiori. Nel frattempo le segreterie nazionali dei sindacati metalmeccanici decisero di aprire anticipatamente la vertenza contrattuale dei metalmeccanici e si presentarono all’appuntamento con una piattaforma che faceva proprie le richieste promosse dalla base nella primavera: aumenti di salari e stipendi di 75 lire per tutte le categorie operaie e di 15600 lire mensile per tutte le categorie speciali i impiegatizie; riduzione dell’orario settimanale a 40 ore a parità di retribuzione; parità normativa tra operai e impiegati in caso di infortunio e malattia; tre giorni di ferie in più per gli operai; diritto di assemblea all’interno degli stabilimenti durante l’orario di lavoro. Si trattò di una svolta che passò alla storia col nome di “cavalcare la tigre” del movimento. Ciò ridiede credibilità al sindacato e alla Fiat gli consentì di riguadagnare l’egemonia nelle lotte che aveva perso in primavera.
Questo nuovo sindacato fece propria, non senza resistenze interne, la forma consiliare voluta dagli operai (delegati eletti direttamente e consigli di fabbrica), abbandonando la vecchia organizzazione per commissioni interne. La lotta fu dura e lunga e si concluse il 21 dicembre quando fu firmato l’accordo con la Confindustria. Un accordo che aprì a rapporti di forza nuovi e vantaggio dei lavoratori nelle fabbriche e che essi useranno, consolidandoli e ampliandoli, per quasi tutti gli anni Settanta.

Tra le molte ragioni che promossero quella sollevazione di coscienza, di orgoglio e di partecipazione alla lotta negli stabilimenti della Fiat di Torino, vorrei sottolineare un aspetto che, mi pare, ancora un po’ trascurato. Si tratta del disagio esistenziale vissuto dai giovani operai immigrati meridionali nella città, non solo quindi dentro la fabbrica. Difficoltà relazionali, clima “freddo e grigio”, isolamento umano, solitudine in tutti i sensi, compresa quella sessuale. Tema quest’ultimo abbastanza rilevante in un proletariato giovane e maschile e ben interpretato (“maschilmente”) da un cantante, Patrik Samson, non certo “vate” della protesta e del movimento, dell’epoca: «la voglia di amare mi scoppia nel cuore/ soli si muore/ voglio un amore./ E’ l’ultima notte che prego il signore/ soli si muore./ Tu, o un’altra è lo stesso/ aspettare non posso!».

Diego Giachetti

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