sabato 13 ottobre 2012

L'impasse del femminismo

L'incontro di Paestum è stato un successo di partecipazione. Come tanti altri incontri negli ultimi dieci anni, da Sommosse a Usciamo dal silenzio. Che però hanno generato sempre un'auto-dissoluzione

Lidia Cirillo

da zeroviolenzadonne.it


Non ho potuto essere a Paestum e non sono in grado quindi di commentare l'incontro (delle femministe, molto affollato vedi qui, ndr) ma (mi dicono) caratterizzato da un'elevata età media. Mi interessa fare alcune osservazioni a partire dalla constatazione che da una decina d'anni l'esigenza di politica coagula, periodicamente e per un momento, un gran numero di donne. Eravamo un migliaio e anche più a Firenze nella Fortezza da Basso con la Marcia Mondiale delle Donne.


Ci sono state poi le manifestazioni sotto il titolo giustamente criticato di Usciamo dal silenzio, Sommosse, Se non ora quando e infine Paestum, oltre ad affollate scadenze locali in genere poco note perché poco comunicanti tra loro. Ne sono state promotrici correnti diverse e conflittuali del femminismo, ma nel mio discorso non è questo che conta. La realtà è che, anche nelle iniziative più subalterne a esigenze di burocrazie politiche e sindacali, la partecipazione è stata inizialmente alta e per molte determinata da un sincero desiderio di agire politico diretto.


Sia pure in modo diverso, ciascuno di questi momenti si è risolto in fenomeni di auto-dissoluzione, lasciando qua e là solo piccoli sedimenti organizzativi. Naturalmente si può ritenere che l'inconcludenza sia uno specifico femminile, celebrando il femminismo che ha segnato l'incontro di Paestum come il migliore dei mondi possibili, come ha fatto Ida Dominijanni sul Manifesto del 9 ottobre. Ma che le cose non stiano così è dimostrato da una semplice constatazione, cioè dal fallimento di quella che negli ultimi due decenni è stato il proposito dichiarato del femminismo tutto.


Ci siamo dette più volte che le donne potevano cambiare la politica, ma è fin troppo evidente che la politica non è cambiata e, quando lo ha fatto, lo ha fatto in direzione opposta a quella desiderata. Non è cambiata prima di tutto la politica come esercizio professionale di apparati di partiti e sindacati. La rivendicazione del 50 e 50 (in qualche caso anche legittima come forma di denuncia e di lotta) sortisce ovviamente l'effetto opposto al cambiamento, perché è fondata su forti meccanismi di cooptazione. Ed è normale che apparati e istituzioni a dominanza maschile cooptino le donne più adattate e adattabili alle loro logiche. Non è cambiata la politica come insieme di forme di auto-organizzazione del corpo sociale, troppo frammentarie e disperse per incidere quanto sarebbe necessario sulla realtà.


Insomma mi sembra che il punto debole del femminismo, e di quello italiano in modo particolare, stia nella difficoltà di cominciare a realizzare quello che ha rappresentato probabilmente il punto più alto della sua riflessione. Certo le donne hanno continuato ad andare avanti, in parte per la spinta propulsiva del femminismo degli anni Sessanta e Settanta, in parte perché ragioni strutturali hanno fornito una base materiale emancipativa al senso di sé delle donne. Ma la contemplazione soddisfatta della propria storia basta sempre meno, perché il mondo cambia e per altri aspetti gli anni Settanta sono abissalmente lontani.


La questione è che il potenziale di cambiamento di un soggetto collettivo non si realizza, se a un certo punto non si verifica un salto di qualità della coscienza e delle pratiche. Nessuna delle rivoluzioni che hanno caratterizzato la storia contemporanea ha mai avuto luogo per il solo potenziale di trasformazione di un soggetto. Sono stati necessari a un certo punto atti della volontà, determinati da una comprensione maggiore del contesto e delle vie percorribili per cambiarlo.


Nell'assemblea di Paestum – leggo nell'articolo di Dominijanni – Loretta Borrelli avrebbe raccomandato di non regredire a una concezione economicistica o sociologica della condizione femminile. La raccomandazione mi sembra il segno di un grave ritardo nella lettura del mondo in cui siamo state gettate. Quella economica non è una regressione, è solo una delle dimensioni possibili dell'esistenza femminile e quindi del femminismo. Si tratta di una dimensione acquisita nel corso del Novecento dalla contaminazione con il movimento operaio di cultura marxista e dall'irruzione sulla scena politica del lavoro subalterno femminile.


Il femminismo precedente era stato caratterizzato da una dimensione soprattutto giuridica per l'influenza liberale e per l'esigenza di cancellare o modificare leggi che imponevano l'esclusione e la disuguaglianza. Altre dimensioni sarebbero poi intervenute, per esempio quella psicoanalitica di cui il femminismo delle vecchie generazioni porta ancora il segno nella sua riduzione della politica a parola.


Insomma le donne come gli uomini non sono esseri a una dimensione. Quale assuma l'importanza maggiore dipende dal tempo, dall'ambiente, dalle necessità dei settori di donne che decidono di fare politica per se stesse. La cosa che mi sembra fondamentale oggi comprendere è l'importanza che la dimensione economica di nuovo assume in presenza della crisi.


Non era così negli anni Settanta, ancora nell'onda lunga dei tre decenni di ascesa economica; non è stato così fino al 2007, cioè nel periodo in cui il capitalismo, sia pure tra una recessione e l'altra, ha potuto comunque esibire un'apparente prosperità. Le determinazioni economiche dell'esistenza femminile non agiscono solo dal punto di vista di ciò che arriva o non arriva in tasca alle donne. La precarietà e il taglio dei servizi impongono altri ritmi e altre scansioni alla loro vita quotidiana. E non solo: la crisi genera fenomeni di imbarbarimento razzista, sessista e omofobo, che non sono senza conseguenza sul modo in cui le donne si percepiscono e sulle dinamiche della loro soggettivazione.

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