venerdì 8 agosto 2008

Oggi serve l'elogio dell'opposizione

Di Salvatore Cannavò

L'esito del congresso del Prc, come il manifesto ha evidenziato, pone nuovi elementi di riflessione a sinistra. Non c'è dubbio che un ciclo politico si è chiuso, quello apertosi all'inizio degli anni '90 con lo scioglimento del Pci e la contestuale nascita dei Ds e del Prc. Un ciclo che si chiude in perdita, con un'ulteriore sconfitta che peserà a lungo. E che non risiede solo nei due anni sciagurati di governo ma è figlia di una contraddizione rimasta irrisolta in questi anni: mano a mano che i margini di mediazione riformista si sono ridotti e che il capitalismo globalizzato ha mostrato per intera la sua ferocia, la sinistra, anche quella di classe, anche Rifondazione, ha cercato di rinverdire proprio una strategia riformista. Che però ha perso.
Per cui ha ragione Dominjanni a sostenere che oggi si riparte dalla cultura politica e che non si tratta di operare semplicemente «un ripristino». Ma i conti vanno fatti proprio con quella cultura riformista che è stata sconfitta e che riemerge ancora, ad esempio nelle giunte locali. Qui c'è un punto irrisolto. Fare l'opposizione a Berlusconi non è facile ma è scontato. Farla al Pd non lo è, e infatti non la si fa davvero.
La sinistra ritorna protagonista se si riappropria di una cultura politica e di una strategia chiara. Per quanto la strategia sia un terreno libero di ricerca, deve poggiare su di un anticapitalismo conseguente che riproponga non nei testi o negli statuti ma nella pratica la logica del superamento dell'attuale sistema sociale, del tutto irriformabile, e la battaglia per una società autogovernata, democratica, socialista, ecologista, femminista. Occorre però un punto fermo: se si vuole battere il capitalismo non si può governare il capitalismo stesso, non ci si può ridurre a mitigarne gli effetti, a ridurre il danno. Bisogna progettare una rivoluzione politica e sociale. Per questo parliamo di «elogio dell'opposizione»: è quello il luogo per progettare la trasformazione sociale, ma anche per strappare conquiste e rafforzare un fronte unitario fatto di partecipazione e democrazia. Un terreno incompatibile con il sostegno a un governo «razzista» come quello di Penati alla Provincia di Milano o alla giunta filoTav della Bresso in Piemonte, o con il governo di uno dei cuori del capitalismo in Emilia.
Solo una nuova cultura anticapitalista può generare una nuova sinistra anticapitalista, fuori dalla mistica del «comunismo» che assunto in forma astratta vuole dire cose spesso molto diverse tra loro. Non abbiamo bisogno di rifugi identitari ma di sfidare il capitalismo contemporaneo. Nella cultura politica rientrano anche le pratiche sociali e le modalità di relazione con i soggetti sociali. Per questo non ci convince a pieno il modo con cui si sta affrontando la più che necessaria mobilitazione di autunno. Non ci piace il metodo delle «consultazioni» tra i vertici dei partiti, serve una forma consensuale che riunisca strutture tra loro diverse, concordi su una piattaforma e sulle forme più utili per portarla avanti, non dimentichi le date già fissate come lo sciopero del 17 ottobre, e lavori alla massima integrazione. Per questo occorre una discussione, un incontro pubblico sulla base di alcuni punti fermi: l'opposizione al governo Berlusconi, alla sua politica antisociale, securitaria e razzista, ma anche al padronato e alla concertazione, alle leggi del governo Prodi che hanno alimentato la precarietà, al Trattato di Lisbona che vergognosamente il Parlamento ha approvato all'unanimità, alla costruzione della base di Vicenza, alla Tav, agli inceneritori e le discariche, all'aumento delle spese militari, al sadico integralismo del Vaticano. Ricominciare dalle pratiche e dall'unità. E stavolta, saranno i fatti a dire più delle parole.

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