sabato 24 aprile 2010

I ricatti di Marchionne e Elkann


Il nuovo piano di sviluppo della Fiat magnificato da giornali e televisioni ha in realtà un programma molto chiaro: "lacrime e sangue". Il progetto di Marchionne e del "Giovin signore" Elkann riguarda ancora il futuro complessivo del mondo del lavoro in Italia che prova a resistere alla crisi.


Franco Turigliatto
“Lacrime e sangue” è questo il programma che lo sportivo ed ammirato amministratore generale Marchionne e il moderno “giovin signore” presidente della Fiat, Elkan hanno prospettato per il futuro dei lavoratori, vergognosamente coperti e sostenuti dai media di ogni colore che non hanno avuto paura del ridicolo nella loro attività incensatoria.
Al di là degli ipotetici piani di sviluppo del futuro, totalmente dipendenti dall’evoluzione della crisi economica del sistema capitalistico, i due capi della Fiat hanno detto cose fin troppo chiare:
1) nel prossimo periodo ci sarà una flessione fortissima del mercato e quindi si farà ricorso massiccio alla cassa integrazione (almeno per un anno e mezzo) e si procederà alla chiusura di Termini Imerese; naturalmente questa situazione produrrà non solo gli esuberi dello stabilimento siciliano, ma molti altri esuberi in altri stabilimenti.
2) se il mercato mondiale riprenderà a tirare tra due anni, la Fiat ha pronto un grande piano di sviluppo, compreso una forte ripresa di produzione in Italia, quello magnificato da giornali e televisioni.
3) questo piano, per altro ipotetico viste le turbolenze dell’economia, verrà attuato solo se i lavoratori accetteranno di lavorare alle condizioni dei loro compagni di altri paesi dove i diritti del lavoro valgono poco o niente, cioè se rinunceranno agli accordi di tutela, alle pause e ai riposi e se accetteranno la fatica immonda dei 18 turni settimanali, cioè se accetteranno di farsi sfruttare come e quando vogliono i padroni. Meno lavoratori, maggiore produttività e maggiore produzione.
4) nel caso in cui i sindacati e i lavoratori non volessero dimostrare entusiasmo per questa generosa offerta/ricatto dei padroni delle ferriere in guanti bianchi, Marchionne ha pronto il piano B, cioè lo spostamento delle produzioni in altre parti del mondo dove ci sono tanti disoccupati desiderosi di produrre più facili profitti agli azionisti della Fiat.
Naturalmente dopo due anni di cassa integrazione, con stipendi che scendono sotto i mille euro al mese, Marchionne e Elkan sono abbastanza convinti che anche i sindacati e i lavoratori più combattivi saranno abbastanza ammorbiditi, pronti allo scambio: lavoro contro diritti elementari.
Come avviene nell’economia monetaria dove la moneta cattiva, quella che vale poco, scaccia quella buona, così il lavoro cattivo deve scacciare il lavoro buono, quello tutelato da diritti.
5) i padroni della Fiat hanno preso la decisione definitiva di scorporare il settore auto dal resto delle attività produttive, da una parte l’auto dall’altra la Fiat industriale. Lo scopo naturalmente è quello di poter valorizzare maggiormente i capitali investiti nei due settori, di poter integrare pienamente la Fiat nella Chrysler, cioè di disporre di una multinazionale dell’auto maggiormente competitiva, che significa una Fiat sempre più fuori da Torino e dall’Italia, un colosso i cui dirigenti guardano la cartina del mondo e spostano le pedine da una parte e dall’altra, cioè il futuro di uomini e donne per realizzare più alti profitti. Vale la pena di ricordare che questa nuova creatura è frutto della fatica dei lavoratori, dei tanti soldi dati dallo stato italiano alla Fiat, ma anche dei miliardi di dollari dello stato americano per il salvataggio della Chrysler, affidata a Marchionne senza che la Fiat tirasse fuori un soldo.

La situazione per il movimento dei lavoratori non è facile anche perché parte dei sindacati è passata armi e bagagli dalla parte dei padroni, la demoralizzazione e la rassegnazione coinvolge numerosi settori di lavoratori, e complessivamente i rapporti di forza si sono fortemente deteriorati negli ultimi anni.
Tuttavia deve essere chiaro, che pur non avendo più questa azienda la dimensione di 30 anni fa, quello che succederà alla Fiat riguarda tutto il movimento dei lavoratori, le dinamiche delle organizzazioni sindacali ed avrà incidenza sugli stessi livelli di democrazia nel nostro paese, per non parlare del futuro di una città come Torino, così come è già oggi per Termini Imerese.
In primo luogo bisogna riaffermare un diritto democratico elementare: che il futuro e il destino, la vita stessa di migliaia di persone non possono essere decisi da due individui e da ristretti consigli di amministrazione dei potenti in nome dei loro profitti e delle loro rendite. Certo questa è la realtà del capitalismo, ma proprio per questo non può essere accettata.
Proprio per questo fin da quando è scoppiata la crisi abbiamo affermato con forza che il futuro delle lavoratrici dei lavoratori, le nostre vite, valgono più dei loro profitti.
La prima condizione per resistere è impedire che un settore di lavoratori sia contrapposto a un altro, che gli stabilimenti siano messi in concorrenza per fare la migliore offerta (per i padroni) per “tenere” il lavoro.
Questo discorso vale per gli stabilimenti in Italia, ma deve valere per tutti gli altri stabilimenti del gruppo Fiat, a partire dall’Europa. È molto negativo che mentre la crisi dell’auto ormai dura da tantissimi mesi, le organizzazioni sindacali del settore o per lo meno della stessa multinazionale non abbiano trovato forza e volontà per cercare una strada comune, ma abbiano continuato a ragionare “speriamo che me la cavo”. Per questa via si finisce solo per essere affettati fetta dopo fetta come un salame.
Non c’è dubbio che il settore dell’auto è saturo e che è impossibile continuare a produrre 90 milioni di macchine nel mondo all’anno quando se ne vendono al massimo 60.
Le scelte sono solo due: o passa la politica padronale di ridurre numero di stabilimenti e operai, aumentando la produttività e garantendosi i profitti; o si riesce a creare un rapporto di forza in Italia, ma forse è necessario crearlo a livello europeo, anche se è difficile, per imporre una ripartizione del lavoro esistente tra tutti, una riduzione dell’orario a parità di salario e quindi anche ritmi di lavoro più umani, meno profitti per i padroni, lavoro per tutti.
Le difficoltà sono immense, ma ogni altra strada che non si ponga questo obbiettivo e questo problema, rischia di perdere i pezzi per strada e consegnarsi, nel migliore dei casi all’elemosina dello stato con gli ammortizzatori sociali, per altro sempre pagati con le tasse e i contributi di tutti i lavoratori, dentro una sconfitta complessiva.
Per questo serve oggi rispondere alle provocazioni della Fiat con una vasta campagna di informazione della posta in gioco, della denuncia del vergognoso ricatto, sulla paziente, ma urgente costruzione di una risposta che coinvolga le lavoratrici e i lavoratori di tutto il settore auto, ma che possa congiungersi con un processo di unificazione delle tante lotte in corso per difendere l’occupazione e il salario.
Per far questo è importante che i lavoratori sappiano tornare protagonisti, che non si arrendano, che costruiscano fabbrica per fabbrica gli strumenti sindacali e organizzativi per reggere la sfida. È importante che i sindacati che non hanno accettato di diventare complici del padronato e che si pongono il compito di restare sindacati, cioè organizzazioni di lavoratori per i lavoratori, contro l’involuzione corporativa, agiscano insieme, trovino gli strumenti di unità; è questa è la strada per cui un maggior numero di lavoratori può diventare consapevole che bisogna dire no a Marchionne e Elkan, che si può provare a imporre i diritti del lavoro, impedire che altri determino il futuro della loro vita.

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