mercoledì 1 luglio 2009

POESIE DI GIANNI MILANO



POESIE LETTE DURANTE LA CENA DEL 27/6/2009 DI SINISTRA CRITICA

ATTENDENDO L’INTERNAZIONALE

Ho atteso con maniche rimboccate ed il ciuffo sulla fronte
che passasse, trionfale e commossa, l’Internazionale
a levare di colpo i coperchi dalle pentole del diavolo.

Ho atteso che tutta si ricamasse la notte e la luna offrisse the
e pasticcini alle fontane di Torino e sempre, anche se tardi, ho disposto
le orecchie sui viali per sentirla arrivare, l’Internazionale dei sogni d’agosto.

Ho atteso assorbendo residuate melodie dalle finestre di civetta
che, almeno, s’annunciasse di lontano con sintomi e presagi
il senso della nuova storia a venire, l’Internazionale del fare all’amore.

Da tempo albeggia
e non è mai mattino.

1984


1° Maggio


In questo spaccato del mondo,
in questa fessura del tempo,
il 1° Maggio infantile attizza la vita
nelle nervature in attesa.

Bambini di latta smaltata,
con secche rotonde movenze,
sotto il pendolo rintanati,
bambini con guance di collirio
ed occhi di smeriglio luminoso, cavalcano –

cavalcano locuste
cavalcano grilli
cavalcano coccinelle
sfilando per la Città.

Solo ai grulli la persiana è chiusa,
per gli altri le mammelle debordano
dai davanzali assieme ai gerani stupiti, e saltano –

saltano le locuste
saltano i grilli
saltano le coccinelle
nell’arena di cipria dorata.

Sfondano con agile nonchalance
l’immane il glorioso il lucido
cerchio di prosciutto,
l’OdiGiotto rappreso in letizia.

Solo ai grulli la persiana è chiusa,
per gli altri è domenica,
domenica di rivoluzione.

1977

A una bambina
Impara a dipingere
fiori, nuvole,
bellezze varie,
ma anche i manifesti,
perché senza giustizia
non basta, per volare,
la bellezza delle ali.

1979


Oscar

Oscar dai baffi bruni, in una bolla di vetro opaco,
lievemente sospeso sul selciato,
santo di barriera alle sette di mattino.

Mentre la nuvola al di sopra dell’Asilo
s’ingrigia e s’adagia sul sofà del cielo – il cane
si scansa flemmatico
annusando nell’aria una storia d’amore –
ippocastani immobili come ussari in pensione
tra di loro sorseggiano tazzine di pettegolezzi,
scodellandosi gli uni agli altri minutaglie
di passeri, cuori con le ali, fragili come la pioggia –
un cappello di carta, la rapida
coreografia della foglia che cade.

Oscar dai baffi bruni, con occhi d’onice brillante,
alla piazza concede uno sguardo,
una pietà operaia con cirri d’Internazionale.

Sgrappola il fumo tra il lacrimoso e la sciarpa,
quando la porta s’apre
e ritaglia nel buio un buco di calore,
un’aspirazione tentatrice
di grappa e caffè nel covo degli specchi –
e là si posa la metafora del sapere
e la ruga s’allenta
ciondolando sul giornale in un’altalena d’emozioni stente –
mentre ad arco
la voce della ragazza dietro al banco lucente
s’incontra
col sornione complimento
del vecchio gatto grigio ronfante.

Oscar dai baffi bruni, che trattiene nella memoria
profili di pugni sollevati
in una festa equamente divisa tra il rosso e il nero
dell’inverno,
attraversa lo spazio,
come una poesia, come un flusso grumoso
d’epopea e di sogno,
Oscar dell’oggi operaio in tuta
e di ieri anche promanazione, passo leggero e preciso:
dove l’attende il drago?

Oscar dai baffi bruni, saluta
con sofferenza agli angoli del vedere
le accosciate presenze degli amici al caffè,
e subito l’agguanta
un abbaiare di freddo, una bestemmia
fumata via dal naso, una ridda
di vegetali tentazioni, ultimi spasimi degli alberi,
ultime dita che segnavano il ritmo del tram
scampanellante.

Oscar dai baffi bruni, che incarna il pastrano
rivoltato,
l’altra faccia della storia,
che si specchia in spiccioli di vetro,
e si lava le mani in lavandini a conchiglia,
orinando contro gli alberi,
bofonchiando saluti, Cincinnato manovale
con la fronte a ragnatela.
Che ogni giorno è la prova,
il muro color del chi se ne frega
là davanti,
con inferriate e mosche morte, qualche petalo secco
di geranio e il guardiano in divisa
dove naufraga il volto
e rimane l’azzurro,
una macchia incisiva
che controlla
all’entrata.

Ha l’aspetto d’un vecchio cane prossimo a finire
e grintoso
e non cede e trattiene con la saliva
delle gengive afflosciate
la sua caparbia volontà di vivere –
Manifattura Tabacchi, avvolgente amore odiato,
che sta
e sbarra il flusso,
l’ipotesi dell’avvenire,
il volo ascendente di Oscar dai baffi bruni,
il ricciolo barocco della bandiera rossa.

Oscar dal mattino nebbioso – Oscar dalle mani in tasca
Oscar della barriera – Oscar dell’oltre-ferrovia
Oscar del cicchetto al bar – Oscar della grinta indolente
Oscar per tutti dai baffi bruni
pronto a bollare la cartolina
e a incidere di minuti suoi
la pelle rugosa del drago
mentre fuori le lampade si spengono
e solo i pensionati osservano il cielo
in attesa che qualche superiore disegno
concluda in un applauso il quotidiano spettacolo.

Torino, Regio Parco, 1980



Quartetto del disamore
1.

Le erbe arrugginite
sul greto della Dora stanno in guardia.

Al comando di Boudienny,
sull’attenti, consumano la linfa –
e talvolta un’amara acqua di fogna
le avvolge,
sentinelle dell’ultima riva,
le abbandona
con vinti e corrosi cimeli.

Fanno la guardia all’alba –
piccoli topi s’annidano nell’alba.

Si stringono in sciarpe di nebbia
e l’unica stella che sigla l’assunto
su una vuota struttura di vuoto
s’insedia –
la Mole è ad un tiro di sputo
ma eoni di tempo le vietano il fiume:
dov’inerte si consuma un manifesto
rosso
di Vladimir Il’ic Lenin, serigrafato,
senza sonoro,
senza messaggi da scagliare
nel brivido dell’inverno
ov’ìlare e tragica ruota
la vecchia donna dai capelli strinati,
contratta in geolitici strati di scialli
ad insultare il mattino
che illumina la storia
della sua randagità.

Compagne! All’erta!


2.

Al fumo!

senza arrosto
dove bruciano le speranze della tuta blu
che il mattino spalanchi occhi di sole
e le fabbriche ronzino con stecchini tra i denti
producendo oltre al pane anche un bouquet di rose
un frinfrinin da niente che solletica il riso
e t’accomoda il ritorno
l’acciaccarsi sul tram nell’ora della diaspora.

In via Lassalle quest’oggi non giungono i pompieri
a smorzare gli ardori d’un camino irruente.
Ci ha pensato il padrone stringendo
per il collo con due dita accurate
il gozzuto pretendente al mattino solare.

Giù, nell’umida oscurità del capannone!
Giù, sul cemento del pavimento sporco
a scaldarsi le mani col fuoco della stufa
dove bruciano e arricciano e stridiscono un poco
i volantini del tempo degli scioperi fruttuosi!
Oggi è giorno di clava. La pioggia cade.
Il fumo devia violento. Da via Lassalle irrompe
sulla schiena del fiume, imbizzarrisce un attimo,
nitrisce e s’inabissa con sbrendoli di carta
che non sanno più dire.


3.

La falce e il martello
appesi al cancello –
sdruciti tutti:
lo sciopero è fallito.

La pioggia cancella
il martello –
rimane la falce:
malinconia di luna calante,
di volto magro e stranito alla Hulot.

Di colpo il mattino
starnuta:
un volo di passeri
si frantuma.

Gli operai riprendono il lavoro.


4.

Dalle montagne del tempo
la Dora trascina
detriti di sogni operai
avvolti in compatte lenzuola
di foglie gialle – e piove.

Ma c’è del canagliesco
nello scheletro della poltrona
che ondeggia, saltella, si squassa
prima d’essere ingoiato dal ponte
e risputato, poi, come residuo tra i denti –
la bambola sbucciata affiora qualche volta
nel biondo dei suoi capelli
e il cielo la mitraglia
di gocce ostinate.

La Rivoluzione accorata
dipinge sugli argini del fiume
SII PROTAGONISTA
VIENI CON NOI.


Torino, Lungodora,



Dialoghetto sull’ombrello che ripara dalle sventure
Secondo te, è il padrone che fa il servo od è il servo che fa il padrone?”
“Non saprei… così, su due piedi…e poi questi termini d’una volta… padrone…servi…!”
“Li trovi forse superati?”
“Ma non lo sai che il mondo cambia? Non siamo più nell’ottocento! Sveglia!… Oggi ci sono gli ‘imprenditori’, che hanno fatto i soldi per merito loro, perché sono svegli, intelligenti…”
“Chi te l’ha detto? La televisione? Quella che tu paghi perché ti convinca che le mie domande sono superate?”
“Ma dai! Siamo mica più nel medioevo!”
“E qui ti sbagli. Il tempo fa il suo mestiere, va avanti, ma i rapporti sociali, gira e rigira, non sono cambiati, e tu ne sei un esempio. Ti ho fatto una domanda. Non hai risposto. Hai svicolato. Preferisci non vedere, non sentire, non dire… Perché?”
“Lascia perdere che adesso abbiamo la crisi e devo darmi da fare per arrivare alla fine del mese, altro che!…”
“Tu fai questa vita, se vita si può chiamare, e non ti interroghi sulle responsabilità. Come tanti altri. Come troppi. Tu sei in crisi, altri ne sono la causa ma non hanno problemi di fine mese. Però questo è un problema che non ti passa per la testa. Dici che sono quelli che governano a dover risolvere la questione, quasi che fosse un episodio di passaggio…”
“Ma non è così? Siamo in democrazia oppure no? Noi eleggiamo qualcuno a governarci…”
“Bravo furbo! Tu deleghi ad altri la gestione della tua vita e di quella dei tuoi figli. Credi di decidere ma non puoi, solo lamentarti puoi, brontolare… Il governo decide e tu ubbidisci. Come lo chiami questo rapporto? Aspetti, come quando eri bambino, che ti dicano cosa devi fare e chiami tutto ciò democrazia, governo della gente. Peccato che la gente, di fatto, subisca o speri di cambiare la sua vita delegando ad altri, e ad altri ancora, il proprio destino…Mi sembra una strana ipotesi di libertà e di maturità!”
“Mi stai confondendo le idee. Credevo che il massimo di democrazia consistesse nella libertà di votare ed invece tu…”
“Invece io ti chiedo ancora: è il padrone che fa il servo od è il servo che fa il padrone?”
“Ed io ti rispondo che mi pare una domanda fuori posto, di quelle provocatorie che non aiutano il progresso ed il lavoro dei governanti…”
“Allora?”
“Allora niente. Rispondi tu se lo sai…”
“Ti rispondo perché me lo chiedi ma dovresti tu fare uno sforzo, un ragionamento approfondito. Non farti mai indirizzare da altri. Pensa con la tua testa e infòrmati. Comunque… Vediamo un po’! Il cosiddetto ‘padrone’ ha proprietà, soldi e potere. Il cosiddetto ‘dipendente’ ha fatica, rischio, ed un magro ed instabile salario. Come è arrivato un uomo con due gambe e due braccia, come noi, ad avere tanta proprietà da potere esercitare comando sugli altri? Mi dirai che magari l’ha ereditata. Certo. Può essere. Ma tu, io, non siamo padroni, non abbiamo ereditato niente. Perché? Di certo qualcuno l’ha accumulata, questa proprietà. Una volta magari con la forza, poi, in seguito, con il lavoro altrui, quello dei tuoi, miei antenati. Ma qui c’è un problema. Se i nostri antenati sono stati con il loro lavoro capaci di produrre così tanta ricchezza com’è che noi non abbiamo ereditato niente e non siamo come i padroni? Ti sembra giusto? A me no. Ma allora perché continuare a vivere nella precarietà, noi che sappiamo lavorare mentre il padrone no? Di tutta la ricchezza che i vecchi in tempi andati e noi ai tempi d’oggi produciamo quanto ci è toccato? Ragiona, amico mio. La risposta puoi dartela da solo…”
“Eh ma lui, il padrone…. è roba sua…. ci dà il lavoro…”
“Prova un po’ tu ed i tuoi compagni ad incrociare le braccia. Vedrai dove andrà a finire la ricchezza di cui parli. Il tuo padrone probabilmente non sa nemmeno farsi da mangiare… Ne parli, del padrone, come se fosse, non lo so, uno che appartiene ad un altro mondo ed ha solo diritti, anzi i diritti non deve neanche sudarseli perché qui da noi sono morti giovani e non, sui monti, per realizzare quella che chiamiamo democrazia, addirittura hanno difeso con le armi le macchine utensili in fabbrica… Ma lui, il padrone, è uno come te e me. Che cos’è questo atteggiamento di ubbidienza e di accettazione! Magari muori bruciato e lui, il boss, ha il coraggio di dire in tribunale che non capisce la lingua… Dentro di te, immagino, mentre ne parli, fai un inchino, pieghi la schiena, svendi la tua dignità e, assieme, la tua libertà. Non te ne accorgi ma questo atteggiamento moltiplicato per migliaia e migliaia di persone non fa che rendere più forte il padrone ed anche la dipendenza. Non te ne accorgi ma ti comporti come se fosse naturale essere servo, come se fosse naturale che qualcuno decida della tua vita…Non te ne accorgi ma copi il padrone in famiglia, con tua moglie, con i tuoi figli. Dai piccoli pretendi obbedienza, ma non hai tempo per offrire gentilezza, ascolto, tenerezza. Deleghi tutto questo alla scuola, molli tuo figlio a scuola, incrociando magari le dita, sperando che il bambino comunque segua il suo destino e poi, colmo dei colmi, paghi anche gli insegnanti con le tasse, che tu le tasse le paghi sempre, te le trattengono sullo stipendio o sul salario…”
“Forse, forse…hai ragione… Non ci avevo mai pensato, per lo meno in questo modo. Il padrone, il presidente, il capo sono intoccabili, ma è vero che siamo noi ad avere costruito il piedistallo ed ora subiamo, brontoliamo e diciamo che non c’è niente da fare…”
“Qualcosa la stai già facendo. Pensi, ed è importante. Io non voglio decidere al posto tuo. Non ho neanche un tempo di vita così lungo per vedere eventuali cambiamenti ma ritengo che siccome la vita è mia, e nessuno verrà a morire al mio posto, tocchi a me decidere che farne. Mi sforzo da sempre di non essere servo, e nemmeno padrone, ma non c’è problema… I miei nonni erano emigranti e mio padre carrettiere…Vedi un po’ tu!”
“Credo di avere la risposta. In effetti è l’atteggiamento servile che dà ad un altro il potere di comandare e sfruttare…”
“Amico mio, questo nostro dialoghetto prendilo come un ombrello che non risolverà tutti i problemi ma ci riparerà almeno da alcune sventure, la più grave delle quali è d’essere responsabili delle sofferenze altrui, è di plaudire a chi risponde picche alle richieste di soccorso e di aiuto, menefreghisti squallidi, apprendisti-padroni senza dignità… Facciamoci gli auguri. Mi stringo, c’è posto anche per te sotto il mio povero ombrello!”


Aubert e Angélique



Se ne andava gioviale tra le nuvole a cavalcioni della sua ghironda.
Il cavaliere Aubert, signore della musica e della danza, dopo una ricca bevuta insieme ad amici e musicanti, diveniva leggero e saliva, saliva… In cielo saliva, dove vanno le note, le parole d’amore e di amicizia.
Così stanno le cose tra coloro che nutrono speranza.
Mentre in tal modo vagolava, quasi si scontrò con Angélique che, assorta, le gambe penzolanti, sedeva su una nuvola rosata. Angélique lanciò un trillo, acuto. Non di spavento ma di sorpresa. Pensava d’essere la sola capace di cavalcare le nuvole ed invece…
I due si intesero ben presto.
“Sono Aubert. Piacere…”.
“Sono Angélique. Il piacere è mio…”.

La storia potrebbe concludersi come tutti i finali di favole.
Aubert ed Angélique ebbero tanti bambini, rotondi e giocherelloni.
Divennero vecchi e, quando giunse il momento, si fusero con l’aria e solo negli arcobaleni o nei fulmini li si intravide ancora.
Ma così non fu.

Aubert e Angélique scoprirono di avere molte cose in comune.
Lui suonava e danzava, lei cantava e distribuiva sorrisi.
Per questo motivo decisero di diventare coppia, di condividere i loro giorni.
Li si vide insieme durante le feste, sull’aia o nelle stalle. Luci nel buio di vite dure.
Non si seppe mai dove fosse la loro casa. Di certo perché nessuno avrebbe loro creduto se avessero spiegato che riposavano tra le nuvole, dalle quali scorgevano quel che sotto accadeva.
E fu così che scoprirono come la festa durasse un solo giorno mentre diffuse erano invece la violenza, la sopraffazione, l’ignoranza e la bruttezza. Videro con sgomento i roghi sui quali donne e uomini morivano tra le fiamme, le forche con scheletri pendenti. Udirono lamenti e pianti disperati tra contadini e operai sfruttati mentre alle corti dei signori e dei principi, nelle case dei mercanti, il lardo, gli sghignazzi si sprecavano.

°°°°°°°
Tale è la differenza di vita tra i pochi potenti ed i molti oppressi che Angélique si commuove mentre Aubert ha un moto di rabbia e la sua ghironda emette un singhiozzo profondo.
La bella dalla voce dolce comprende che v’è un momento per l’allegria, uno per la consolazione ma anche uno per la rivolta.
“Ci vogliono parole che aprano strade nuove, per tutti”, confida ad Aubert e questi sente nascere in sé una musica strana, forte, ruvida, che mescola ritmi diversi, che sceglie d’essere estranea al mondo del potere.
Il lamento del bordone fa da sfondo e da lì si distaccano, come voli improvvisi di corvi, brandelli di suoni, che accompagnino la gente nella neve quando rifiuta l’ubbidienza, che battano sulle spalle alla coppia che ha messo al mondo un figlio, libero, si spera…
Di certo Aubert ed Angélique trascorsero il loro tempo, come tutti, come quelli che avevano scarpe rotte e ruvidi letti per la fatica.
Forse si fusero con l’aria, ma negli arcobaleni o nei fulmini li si scorge ancora.
Sempre si ha l’impressione di udire la loro musica durante i cortei operai o le rivolte contadine. Sempre si ha l’impressione di scorgerli in capo a un tavolo con amici di età diverse, bere vino rosso, ridere e cantare. Ed allora le mani si stringono, la volontà si rafforza, il cuore batte più forte.
Come diceva un poeta musicista, non ebbero bisogno di avere figli propri perché avevano adottato gli esclusi della Terra e nelle storie narrate vivono ancora, non cesseranno mai.

Dalle nuvole ai campi.
Così, in realtà, finì la loro storia: la storia di Aubert e Angélique che suonarono e cantarono per donne e uomini liberi e sicuri.
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Chi è Gianni Milano?

Gianni Milano è nato a Mombercelli, terra di Barbera scuro, il 14 giugno del 1938. Non è più di primo pelo, dunque. Poeta e pedagogista, dopo aver lavorato per oltre quarant’anni con bambini e adolescenti, dopo aver scritto versi a partire dai 16 anni, dopo essere stato protagonista dell’eretico movimento pauperista che va sotto il nome di ‘underground’, dopo aver pubblicato raccolte di poesie, saggi di pedagogia e libri di educazione tribale, Gianni sente il bisogno di raccontare ancora storie metropolitane. Dall’anagrafe risulta che l’autore risiede a Torino dal 1942. È un immigrato, dalla campagna. Trasferito in un borgo, San Paolo,che allora era quasi villaggio, vive il suo apprendistato alla vita, tra speranze, rabbie, delusioni, sofferenze. “Ma” diceva nonna Palmina “se fa male, fa bene, fa crescere”.
Altri scrittori narreranno dello stillicidio di morte dei giorni attuali, purtroppo. L’oblìo, quando è intenzionale, sporca. L’umanità non apprende.

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