sabato 24 gennaio 2009

Alternativa sociale e impegno ecologico

Alternativa sociale e impegno ecologico

La crisi globale apre la porta a una nuove epoca di rivoluzioni



Il 15 dicembre 2008



Daniel TANURO



Senza precedenti nella storia del capitalismo, la recessione aperta dalla questione dei subprimes coincide con un stato di urgenza ecologica mai vista nella storia dell’umanità.
La combinazione di queste due caratteristiche crea una situazione di crisi sistematica nuova, che dovrebbe essere presa in considerazione più seriamente nei dibattiti, tanto sul rilancio che sull’alternativa.

Da un lato, la crisi economica mette fondamentalmente in evidenza l’esaurimento di un capitalismo che impedisce ogni possibilità di rilanciare questo modello di produzione, anche se questo rilancio fosse ecologico. Dall’altro, qualsiasi progetto socio-politico alternativo allo scialacquamento mercantile, se non vuol essere accusato di irresponsabilità criminale, deve imperativamente aderire a una serie di obblighi fisici da assumere per lottare contro il cambiamento climatico.
Questa svolta decisiva ci porta verso una nuova era di lotte. I movimenti sociali, e il mondo sindacale in particolare, ne devono trarre tutte le conseguenze.


DUE CARATTERISTICHE SENZA PRECEDENTI DELLA CRISI


Prima caratteristica: una congiuntura capitalista di lunga esistenza che lega profitti importanti a depressione sociale.

Per la prima volta nella storia del capitalismo, un rialzo sostanziale del tasso di profitto, su un periodo lungo (più di vent’anni), non si accompagna ad un’onda lunga di espansione economica ed a progresso sociale relativo[1]. I profitti rimangono ampiamente nell’ambito della finanza. La percentuale di ritorno richiesta sugli investimenti implica un rialzo dei tassi di sfruttamento che soffoca la domanda; di conseguenza il sistema si rifugia sulla crescita del consumo di lusso.

In una recente ricerca[2], l’economista Michel HUSSON ha dimostrato che nel periodo 1982-83 si creò un punto di inflessione a partire dal quale (i) il tasso di profitto risaliva in modo spettacolare; mentre il tasso di accumulazione continuava a scendere (ii); il consumo restava stabile (in UE) o progrediva (negli USA) mentre i salari indietreggiavano fortemente nel prodotto nazionale lordo – in modo che la differenza tra le due curve corrispondesse al consumo grazie ad altre accumulazioni diverse da quelle fornite dal lavoro (grafici 1 et 2).

Fig1. Evoluzione del tasso di profitto e del tasso di accumulazione (UE, USA, Japon). Prov. : M. HUSSON.


Fig 2. Evoluzione percentuale del consumo e dei livelli salariali de PNL.Prov. M. HUSSON.

In effetti, il periodo dal 1980 a oggi si distingue in modo importante dalle precedenti onde lunghe di tassi elevati di profitti (1848-1873, 1893-1913 e 1948-1967[3]) approfonditamente analizzate da Ernest MANDEL. Queste onde lunghe non solo furono caratterizzate dal rialzo durevole dei profitti ma anche da un’espansione importante degli investimenti produttivi, perciò dell’accumulazione del capitale, così come da un indiscutibile progresso sociale (anche se relativo e tutt’altro che automatico), oltre che da una certa riduzione delle ineguaglianze[4].


L’attuale onda lunga, al contrario, presenta sia una percentuale di profitto degna dei gloriosi anni Trenta che un set di caratteristiche sociali che rammentano piuttosto il periodo fra le due guerre: mantenimento di una disoccupazione massiccia; aumento delle ineguaglianze sociali; pressione continue sui salari, sulle condizioni di lavoro e sui redditi di sostituzione; smantellamento dei servizi pubblici; controriforma fiscale in favore dei redditi del capitale. A queste condizioni, si aggiunge un’atmosfera generale fatta di cinismo, individualismo, irrazionalismo e un nichilismo ancor maggiore rispetto agli anni Trenta.

Seconda caratteristica: il capitalismo minaccia l’ambiente naturale nel quale si sono sviluppate le civiltà

Si dovrebbe considerare con urgenza l’importanza del cambiamento climatico e delle sue reali implicazioni: per la prima volta nella storia del genere umano, un modello di produzione porta l’umanità ad oltrepassare i limiti fisici che condizionano l’ambiente naturale nel quale le civiltà nascono e irreversibilmente, da ben oltre seimila anni, si sono sviluppate.

L’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (foro intergovernativo sul mutamento climatico, IPCC) non lascia dubbi: la combustione dei combustibili fossili, e in una minima misura il diboscamento, mandano nell’atmosfera delle quantità di anidride carbonica (CO2) superiori a quelle che potrebbero essere assorbite dalla capacità degli ecosistemi (piante ed oceani). Quest’accumulazione di CO2 nell’atmosfera è la ragione fondamentale del surriscaldamento globale. Quest’ultimo non è perciò dato dalla “attività umana” come si dice troppo spesso, ma è dovuto invece al modello di attività sviluppato dall’umanità fin dalla Rivoluzione industriale e capitalistica[5].

Gli impatti umani ed ecologici del surriscaldamento globale sono già percettibili e diventano sempre più pronunciati. L’aumento del livello degli oceani minaccia le pianure costiere; i periodi di siccità aumentano in alcune regioni e le piogge sono troppo abbondanti in altre; le risorse d’acqua calano in certe aree mentre in altre sono a forte rischio di inquinamento; nelle basse latitudini, oltre un certo livello di surriscaldamento, la produttività agricola decresce e rischia di degenerare a livello mondiale; le malattie si diffondono; la perdita della biodiversità indebolisce le capacità di adattamento degli ecosistemi, quindi dell’umanità; i fenomeni meteorologici estremi diventano più violenti…


Queste conseguenze colpiscono e colpiranno essenzialmente gli strati sociali sfruttati o oppressi così come le persone più deboli nella società: contadini poveri, lavoratori con basso reddito, individui che in generale vivono e lavorano in zone a rischio, popoli indigeni e il mondo del lavoro in generale – in particolare donne, bambini, malati ed anziani. Le popolazioni povere dei paesi in via di sviluppo sono quelle più a rischio, ma anche quelle dei paesi sviluppati saranno esposte. A questo riguardo, l’esperienza del ciclone Katrina a New Orleans è molto significativa[6].

Nei prossimi decenni, il cambiamento climatico rischia di provocare esodi massicci, penurie e conflitti armati. Saranno coinvolte centinaia di milioni di persone, in particolare dall’aumento del rischio di siccità che peserà su più di un miliardo di esseri umani (oltre a quelli che già la subiscono). Una parte delle pianure costiere, culle della civiltà dove vive più del 50% dell’umanità, potrebbe diventare inabitabile prima della fine del secolo. In poche parole, tra qualche decennio il mondo rischia di essere ancora più caotico e violento di oggi.


TRE ASPETTI DA CONSIDERARE PER USCIRE DALLA CRISI

Con la combinazione delle due crisi, i gruppi sociali devono guardare con lucidità a tre aspetti legati alle condizioni per uscire sia dalla crisi economica che dalla crisi climatica.


Primo aspetto: una nuova onda lunga di prosperità capitalistica non è possibile senza una regressione sociale d’importanza paragonabile alla combinazione tra fascismo e seconda guerra mondiale.

Secondo gli specialisti, il passaggio da un’onda lunga espansiva ad un’onda lunga recessiva risulta “automaticamente” da fattori economici, ma il passaggio da un’onda lunga recessiva ad un’onda lunga espansiva richiede uno choc esterno alla sfera economica detto choc esogeno (“choc esogeno”: guerra, dittatura, ecc).

Secondo Ernest MANDEL (l’op. cit.), lo “choc esogeno” che ha permesso l’onda lunga espansiva degli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale (“i Trenta gloriosi”) fu lo schiacciamento del movimento operaio da parte dei regimi fascisti, abbinato all’importante aumento delle percentuali di sfruttamento della classe operaia negli altri paesi capitalistici durante la guerra e nell’immediato dopo guerra.

Questo aumento drastico della percentuale di sfruttamento non fu però sufficiente per rilanciare il sistema nel 1945. La crisi del 1929 aveva lasciato delle tracce tali che l’onda lunga espansiva dovette essere trainata da prescrizioni pubbliche e massicce (innanzitutto l’armamento) che crearono un deficit considerevole e nutrirono la permanente inflazione.

Con altre parole, la prosperità capitalistica ritrovata durante i “Trenta gloriosi” fu costruita su un crac economico senza precedenti, su milioni di morti, distruzioni terrificanti ed un mare di debiti.

Dopo quest’analisi, MANDEL era abbastanza scettico sulla possibilità che l’onda recessiva cominciata all’inizio degli anni Settanta sfociasse in un’onda lunga espansiva negli anni Novanta. Scrisse che il rialzo del tasso di profitti durante gli anni Ottanta era insufficiente. Quanto alla disoccupazione massiccia, all’austerità ed alla regressione imposta al movimento operaio, non costituirono (per quanto fossero rilevanti) uno “choc esogeno” degno dei requisiti di un capitalismo sempre più ammalato delle proprie regole.

L’attenzione di MANDEL era concentrata specialmente sulla contraddizione esistente fra la tendenza del sistema ad aumentare il tasso di sfruttamento dei lavoratori (per compensare il calo della percentuale di profitto risultante dal lavoro di macchine sempre più complesse) da una parte, e la necessità di realizzare un incremento sempre maggiore della vendita dei prodotti presenti sul mercato dall’altra. “Chi comprerà tutta questa merce prodotta con macchinari acquistati attraverso il credito?”, chiedeva. Il “Capitalismo della terza età”, come lo chiamava, non poteva che conoscere sempre più difficoltà nel superare questa contraddizione. MENDEL vedeva in ciò la prova dello sfinimento storico di quel modello di produzione.

Non si può che constatare che questa visione sia convalidata dalla congiuntura presente fin dalla svolta degli anni Ottanta. Sì, la percentuale di profitto è stata riattivata, ma non è stata sufficiente a rilanciare il sistema in modo durevole. Sì, gli Stati Uniti hanno conosciuto una crescita importante ma essa è stata trainata da un indebitamento delirante i cui risultati si vedono ancora oggi. Sì, la crescita cinese è vigorosa e sostenuta, ma la produzione è essenzialmente realizzata da e per le multinazionali che vendono il 55% delle merci ai paesi sviluppati. Sì, la crescita del mercato nazionale cinese è spettacolare, ma è improbabile che trascini il capitalismo mondiale verso una nuova onda lunga espansiva.


La crisi attuale mostra, invece, che il sistema piuttosto che orientarsi verso una prosperità durevole si perde sempre più nelle sue contraddizioni. Nel migliore dei casi, i piani di rilancio discussi e adottati dai governi per tentare di regolare la crisi riusciranno a malapena ad attutire il colpo. Sono, infatti, del tutto insufficienti per ristabilire rapidamente la situazione al livello anteriore alla crisi dei subprimes (così come è impensabile che possa essere ricreato un periodo di prosperità analogo ai decenni Cinquanta-Settanta). Tuttavia, pianificazioni più ambiziose rilancerebbero inevitabilmente la spirale dei debiti e dell’inflazione, esattamente ciò che le politiche liberali devono evitare. L’impossibilità di uscire dalla crisi è quindi profonda e strutturale.

Che lo si voglia o no, arriviamo sempre alla conclusione centrale di MANDEL: un rilancio durevole del capitalismo – un nuova onda di accumulazione, di lavoro per tutti e di progresso sociale per almeno venti o trent’anni – non sarà possibile senza uno “choc esogeno” di effetto approssimativamente uguale alla Grande Depressione, al Nazismo, al Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale. Fortunatamente, i bastioni sociali, soprattutto i sindacati, anche se molto indeboliti dall’offensiva neoliberale, non permettono per ora di ricorrere a questo genere di rimedio.



Secondo aspetto: la stabilizzazione del clima a livelli meno pericolosi richiede uno sforzo severo dei paesi sviluppati e uno sforzo sostanziale dei paesi in via di sviluppo.

Nel 1996, il Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea si è espresso favorevolmente ad una politica del clima che mira al mantenimento del surriscaldamento sotto 2°C rispetto ai livelli del 1780. Attualmente è ancora questa la posizione ufficiale dell’UE.

Se si esamina con precisione il quarto rapporto del IPCC, si conclude che il livello critico di riscaldamento climatico sia di circa 1,7°C in più rispetto all’era pre-industriale piuttosto che di 2°C.[7]

Invece, gli schemi di stabilizzazione presenti nel rapporto del 2007 espongono una tale accelerazione del surriscaldamento che non sembra più possibile stabilizzare al disotto di un intervallo tra i +2°C e i +2,4°C.

A questo livello saranno necessarie severe condizioni di stabilizzazione. È doveroso cioè cominciare a ridurre le emissioni al massimo entro il 2015 e raggiungere dal 50 all’85% di riduzione a livello mondiale entro il 2050. In caso di successo, il livello dei mari porterebbe salire “solamente” di 0,4 a 1,4 metri. Un rialzo dovuto alla dilatazione termica delle masse oceaniche[8].

Questa proiezione non si occupa, però, dello scioglimento e dello slittamento dei ghiacciai che, secondo i climatologi, potrebbe aumentare ulteriormente il livello degli oceani, e di parecchi metri, in meno di un secolo[9].

Sottolineiamo che qui si parla di riduzione delle emissioni a livello mondiale: uno sforzo messo in campo solo dai paesi industrializzati non permetterebbe, infatti, di posizionare il clima ad un livello ragionevole; un certo contributo dei paesi in via di sviluppo è d’ora in poi indispensabile.

Ciononostante, i paesi industrializzati in quanto responsabili del cambiamento climatico per più del 70%, devono fornire la parte più grande dello sforzo. Uscire dalla crisi climatica implica perciò un accordo internazionale che concretizza il “principio delle responsabilità comuni ma differenziate (così come auspicato nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici)."

Inoltre, le capacità dei paesi devono essere prese in considerazione; per questo la Convenzione Quadro stipula che il Nord deve trasferire verso il Sud nuove tecnologie pulite, cosicché quest’ultimo possa svilupparsi senza destabilizzare il clima. Il principio dell’inquinatore-pagante: il Nord deve anche riparare i danni del surriscaldamento, cioè finanziare l’adattamento del Sud alla parte di conseguenze dei cambiamenti climatici che sono, purtroppo, diventati inevitabili[10].

Sulla base del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, gli sforzi da realizzare per concretizzare i piani di stabilizzazione della temperatura tra 2°C e 2,4°C possono essere modulati secondo i gruppi di paesi. L’IPCC giunge così a conclusioni addizionali a quelle che sono state qui affermate: (i) i paesi industrializzati devono ridurre le loro emissioni di gas ad effetto serra dall’80 al 95% nel 2050, passando da una riduzione intermedia dal 25 al 40% nel 2020 (rispetto ai livelli di 1990); (ii) i paesi in via di sviluppo devono deviare sostanzialmente" (dal 15 al 30%) dal progetto di riferimento “business as usual” fin dal 2020 (2050 per l’Africa)[11].

Visto che il livello di pericolo fissato ad 1,7°C è stato sorpassato e che, per ora, non è stata seriamente presa in considerazione la distruzione dei ghiacciai, gli obiettivi di qui sopra non possono più non essere considerati come degli imperativi. La prudenza imporrebbe cioè di puntare ormai sempre e solo al raggiungimento della percentuale più alta indicata dall’intervallo di temperature suggerite.



Infine, non si può assolutamente fermare lo sforzo nel 2050. Secondo l’IPCC, nella seconda metà del secolo le emissioni di gas ad effetto serra dovrebbero essere praticamente ridotte a zero. Ciò implica di abbandonare definitivamente l’uso di carbone, petrolio e gas naturale. Non solo come energie fossili, ma anche come materie prime dell’industria petrochimica (è naturalmente escluso il caso di quelle industrie in cui sono state applicate tecnologie in grado di realizzare il riciclo di queste materie).


Come riassunto, ecco le condizioni da rispettare per salvare il clima e posizionarlo ad un livello ottimale sia dal punto di vista umano che da quello ecologico:
Le emissioni mondiali devono cominciare a decrescere al massimo nel 2015
Le emissioni dei paesi sviluppati devono cominciare a decrescere dal 25 al 40% prima del 2015 e dall’80 al 95% da qui al 2050 (il confronto è con i livelli del 1990)
Dal 2020 in poi (tranne per l’Africa) le emissioni dei paesi in via di sviluppo devono deviare sostanzialmente dalle traiettorie previste e continuare a deviare nel 2050
Le emissioni mondiali devono diminuire dal 50 all’85% da qui al 2050


Terzo aspetto: una nuova onda lunga di crescita capitalistica rischia di fare precipitare il mondo in una situazione di catastrofe climatica


Il volume delle emissioni dipende dal consumo di energia, quindi dell'attività economica. La relazione non è lineare, perché l’efficienza energetica aumenta col progresso tecnico. Ma questo aumento non è possibile infinitamente ed, empiricamente, si nota che l’aumento del volume della produzione lo compensa ampiamente.

Non c’è quindi da meravigliarsi del fatto che le curve di emissione di carbone, al ventesimo secolo, per l’Europa e il Nord America facciano apparire: (i) una correlazione forte tra le quantità di carbone fossile spedite nell’atmosfera e le due onde lunghe espansive del 1893-1913 e 1947-1967; (ii) degli scalini che corrispondono uno alla depressione degli anni Trenta e l’altro all’inversione degli anni 70-80 (schemi 3 e 4).
Fig 3. Emissioni di carbone dell’Europa Occidentale 1750-2005. Prov. : CDIAC

Accantoniamo per un istante le condizioni (poco) sociali di una nuova onda lunga di espansione capitalistica. Immaginiamo che i fondi speculativi che gonfiano la “bolla finanziaria” si ritrovino durevolmente nell’economia reale e nutrano un periodo nuovo di crescita di 20 o 30 anni. Cosa accadrebbe? Il consumo di energia aumenterebbe, perciò, anche le emissioni di gas ad effetto serra, gradini critici sarebbero sorpassati e lo sregolamento climatico assumerebbe proporzioni incontrollabili.

Perchè le cose vadano per un altro verso, il capitalismo dovrebbe essere capace di fare coesistere aumento della percentuale di profitto, espansione economica e completa eliminazione dei combustibili fossili, considerando che questi sono anche i miglior mercati. Questo scenario è, secondo noi, impossibile. Almeno nei termini proposti dall’IPCC.



Fig 4. Emissioni di CO2 dell’America del Nord 1780-2005. Prov. : CDIAC


In teoria, si può probabilmente immaginare un capitalismo verde, poiché (i) il potenziale tecnico del rinnovabile equivale a 8 o 10 volte il consumo mondiale di energia e può aumentare rapidamente col progresso scientifico, (ii) importanti risparmi di energia possono essere realizzati in tutti i settori di attività. Ma in pratica, una transizione è necessaria, ed è qui che cominciano le difficoltà.

Supponiamo che un dispositivo internazionale del tipo “tassa sulla CO2” renda le energie rinnovabili meno care di quelle fossili[12]. Supponiamo anche che le lobbies dell'energia fossile se ne facciano una ragione e smettano di frenare la transizione. Ammettiamo inoltre che i governi diventino intelligenti e razionali, che decidano un finanziamento pubblico per attenuare l’insufficienza della richiesta nel settore dell'abitazione, per esempio, e decidano saggiamente che la priorità è il risparmio di energia prima ancora dello sviluppo del rinnovabile.

Queste ipotesi improbabili sono per lo meno utili poiché permettono di arrivare al cuore del problema, cioè che la transizione richiede investimenti estremamente importanti: produrre degli isolanti, rinnovare milioni di case, costruire delle stazioni di cogenerazione energetica e reti di calore, investire in modo massiccio nelle ferrovie pubbliche, costruire pannelli solari ecc. Tutto questo consuma un’energia che, almeno durante i primi anni, non può essere che fossile. Di conseguenza, almeno durante i primi anni, le emissioni aumenterebbero in proporzione.

Si capisce intuitivamente che uno scenario nel quale gli investimenti verdi sono aggiunti al “business as usual”, fosse solo per qualche anno, è incompatibile col fatto di cominciare a ridurre le emissioni mondiali al massimo nel 2015 - fra sei anni... vale a dire domani[13].

Non finisce qui. L’incompatibilità è ancora più forte del fatto che non basta sostituire l’energia fossile con quella rinnovabile: bisogna cambiare il sistema energetico in profondità[14]. A questo riguardo, l’esempio del trasporto è molto illustrativo.

Il trasporto consuma approssimativamente 1500 milioni litri di combustibile l’anno. La produzione di etanolo e biodiesel (energia rinnovabile) ne copre soltanto una piccola frazione: 20 milioni di litri. Ma questa frazione basta a spingere i prezzi del cibo verso l’alto e fare passare da 800 a 1000 milioni il numero delle vittime della fame[15]. Basta a provocare gravi danni ecologici (monocultura con uso massiccio di concimi ed insetticidi) così come a provocare una onda di espropriazioni terriere nei paesi del Sud, con spostamenti forzati delle comunità e sfruttamento dei piccoli contadini trasformati in lavoratori agricoli[16].

Certo, gli agrocarburanti sono una forma di energia rinnovabile, ma il loro uso massiccio è dannoso sia socialmente che ecologicamente. Che ne sarebbe se questi agrocarburanti dovessero coprire anche solo metà della richiesta energetica del settore del trasporto?[17] Che ne sarebbe se la produzione di macchine “pulite” dovesse conoscere un rialzo massiccio nel quadro di una nuova onda lunga di espansione capitalistica, come nei “Gloriosi Trenta”? Oltre ai carburanti necessari per fare muovere i veicoli, dove si troverà l’energia “pulita” necessaria per produrre l’acciaio, il vetro, la gomma, la plastica necessari alla loro costruzione?

Non può funzionare. D’altronde, le proposte concrete considerate prioritarie dai partigiani dell’ “inverdimento del capitalismo” lo confermano. Infatti queste proposte non sfociano in un’onda lunga di capitalismo prospero e pulito ma sul mantenimento di un regime neoliberale di disoccupazione massiccia e di basso reddito da una parte, e sulle insufficienti riduzioni delle emissioni di gas a effetto serra dall’altra.

Prendiamo per esempio un recente studio del WWF-Francia sull’impatto in termini di lavoro della lotta contro il cambiamento climatico[18]. Secondo questo documento, ridurre le emissioni del 30% da qui al 2020 permetterebbe la creazione di 684.000 lavori puliti in Francia. Uno scenario ancora piu attraente che permetterebbe di fare a meno del nucleare e dello stoccaggio geologico della CO2.

Ciononostante, da un punto di vista sociale, gli autori ammettono che"il metodo usato vale solo se una disoccupazione massiccia si sostiene nel 2020; nel caso contrario, spiegano, la richiesta di lavoro spingerà il salario all'aumento, riducendo l'effetto positivo sul lavoro". Quindi non si esce dalla crisi sociale. Si stabilisce invece una logica liberale che vuole bassi redditi, tenuti a guinzaglio dalla disoccupazione massiccia, condizione di creazione del lavoro.

Si rimane ancora nei rapporti di dominazione Nord-Sud. Effettivamente, puramente nazionale, questo studio non tiene conto dell’esportazione della disoccupazione verso i paesi produttori di combustibili fossili: "Nel nostro paese, si può dare per scontato che la quantità dei lavori disponibili per il rinnovabile elettrico è più elevato di quello per l’elettricità di origine fossile, poiché quest’ultima è prodotta con l'aiuto di combustibili importati ". Peccato per gli operai del settore del petrolio in Asia, Africa o altrove. E un bel “produciamo francese” servito in salsa “verde”.[19]

Con un tale prezzo, si salva almeno il clima? Tutto tranne che ovvio. Effettivamente, lo studio del WWF non prende in considerazione le retroazioni della crescita sul livello delle emissioni. Però, anche se il “pacco” energetico contiene progressivamente più rinnovabile, l'aumento della produzione e del consumo implica necessariamente un aumento della combustione di combustibili fossili, specialmente in principio.

Le emissioni corrispondenti a questo aumento della combustione devono essere perciò dedotte dal 30% di riduzione annunciata... che sono nella parte bassa dell’intevallo presentato dalle conclusioni dell’IPCC. Il calcolo rimane da fare, ma rammentiamo che l’intervallo dell’IPCC non basta a rimanere sotto il gradino di pericolo del cambiamento climatico.

In maniera generale, l'insufficienza climatica dei progetti che tendono a rinverdire il capitalismo è messa in evidenza nel quarto rapporto dell’IPCC. In effetti, gli economisti del "gruppo di lavoro III"[20] hanno compilato degli studi "bottom up". Questi lavori puntanno a valutare, per settore, i potenziali di riduzione dei gas ad effetto serra.

Seguendo il dogma liberale secondo il quale c'è disoccupazione perché la mano d’opera è troppo costosa e che c’è troppa CO2 nell'atmosfera perché il diossidio di carbone non lo è abbastanza, gli studiosi hanno calcolato le tonnellate di CO2 che si potrebbero evitare di espellere con un costo inferiore di 100 dollari a tonnellata[21].

Il risultato non convince: a 100$/tCO2, nel 2030 si arriverebbe appena a stabilizzare la quantità globale di carbone spedita nell'atmosfera con riferimento al 2000. Per riuscirci si dovrebbe infatti triplicare il prezzo della CO2 e fare portarne il carico unicamente ai redditi di lavoro per non rovinare la competitività[22]. Ma si cadrebbe di nuovo sulla domanda posta da MANDEL: chi comprerà le merce?

Combustibili fossili più cari non salveranno il clima, cosi come ridurre i costi salariali, da 30 anni, non ha soppresso la disoccupazione. Si può prendere il problema da tutte le parti, si arriva inevitabilmente alla stessa conclusione: supponiamo che le distruzioni massicce e una repressione del movimento operaio permettano una nuova onda lungha di espansione capitalistica, ciò sarabbe incompatibile col rispetto delle quattro condizioni da soddisfare per stabilizzare il clima al livello meno pericoloso[23]. Fortunatamente, questa ipotesi non è d’attualità per il momento. In quanto alle proposizioni per “rinverdire il capitalismo” non offrono vie d’uscita per la crisi sociale e sono insufficienti per uscire dalla crisi climatica.

A CRISI GLOBALE, ALTERNATIVA GLOBALE


Le associazioni sociali hanno bisogno di una prospettiva globale per lottare sia contro la crisi socioeconomica che contro la crisi climatica. Questa prospettiva non può che essere anticapitalista ed anti-produttivista.

"L’attuale modello è giunto ai suoi limiti, sia per le possibilità di miglioramento delle condizioni di vita che puo offrire ai più poveri sia per l’impronta ecologica che possiamo imporre al pianeta, ma i miei clienti investono solamente con promesse di profitto, e questo non cambierà ".[24]

L'autore di questa quota, Pavan Sukhdev, è economista e banchiere alla Deutsche Bank. Scelto dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente come pilota di uno studio sul riorientamento dell’economia mondiale verso un modello “verde", dalle sue parole compendiano perfettamente la situazione: il sistema capitalistico è alla fine dei suoi limiti sociali ed ambientali... ma li oltrepassa, perché i capitalisti non investono che con promesse di profitto e il profitto richiede la crescita. I lavoratori e l’ambiente pagheranno il conto.

Ripartiamo dagli obblighi legati al clima, poiché essi condizionano tutto il resto. Abbiamo dimostrato che non è sufficiente sviluppare il rinnovabile ed aumentare l'efficienza energetica al massimo per riuscire nella transizione verso un'economia senza carbon fossile. È anche necessario farlo secondo un piano razionale che integri una riduzione radicale del consumo di energia nei paesi industrializzati, compensando le emissioni dovute alla transizione. Bisogna ridurre in modo importante i flussi delle materie. Ciò richiede di diminuire sostanzialmente la produzione e il consumo (materiale).

La storia ci insegna che, male che vada, il capitalismo si può accontentare di una pianificazione (in tempi di guerra per esempio). Invece, la riduzione della produzione sembra, al capitalismo, inconcepibile. Il perché si capisce rapidamente: la concorrenza porta ogni proprietario di capitali a rimpiazzare con macchinari più produttivi i lavoratori, questo per guadagnare un surplus di profitto rispetto a quello che sarebbe il profitto medio. Ne risulta automaticamente una tendenza continua alla sovrapproduzione e al sovraconsumo.

Il capitalismo è strutturalmente produttivistico. Non è capace di ridurre la produzione che in caso di crisi periodiche. Queste “purghe” momentanee hanno certamente il vantaggio - se si può dire! – di diminuire un po’ la pressione sull'ambiente, ma esse operano in modo cieco, provocando disoccupazione di massa, disagio sociale, più ineguaglianze e spreco di ricchezze.
Di fronte all’irresponsabilità climatica (criminale) del capitalismo, di fronte alle conseguenze sociali della crisi economica, per i movimenti sociali, per i sindacati in particolare, si tratta di prendere la via di un'alternativa globale, che risponda sia all’emergenza sociale che all’emergenza ecologica.


Quest’alternativa è indispensabile per evitare ai lavoratori di dover scegliere tra la padella del cambio climatico - del quale sono le vittime principali - e la brace della politica climatica e capitalistica - della quale sono pure le vittime principali. Il suo sviluppo richiede un riorientamento strategico ampio e profondo.
Azienda per azienda, i lavoratori spontaneamente desiderano che gli affari vadano bene, poiché il loro stipendio e il loro lavoro ne dipendono. Quest’atteggiamento si ritrova anche al livello dei settori e dei paesi, in nome della competitività e del confronto con la competizione internazionale. La si può mantenere oggi, in parallelo al "greening" del capitalismo? Noi pensiamo di no. Pensiamo che, di fronte a un sistema che sta per provocare delle catastrofi irreversibili, i sindacati rischiano di perdere la propria anima se non abbandonano la strategia di compromesso con l’espansione capitalistica.
Come fare fronte alla necessità di diminuire in modo radicale e pianificata la produzione ed il consumo delle materie, e allo stesso tempo rispondere alla necessità di aumentare in modo radicale il livello della risposta ai bisogni umani di tutte le persone (un lavoro, uno stipendio, un alloggio, una protezione sociale, un’educazione di alto livello, un’alimentazione di qualità, una pensione dignitosa) ? Questa è la domanda.
Nel contesto di questa logica capitalistica, la domanda rappresenta la quadratura del cerchio. Infatti, il sistema non può rispondere alle necessità sociali se non lascerà perdere le briciole che cadono dal tavolo dell’accumulazione (quando essa è costretta a mollare qualcosa). La soluzione non può quindi essere che tirare fuori dalla sfera privata le attività decisive secondo il doppio punto di vista, salvaguardia del clima e soddisfazione dei bisogni umani fondamentali, e metterle nelle mani della collettività. È l’unico modo per impedire che queste attività servano ad alimentare il vortice dell’accumulazione e del profitto.
Per imboccare questa strada, i movimenti sociali, e i sindacati in particolare, hanno bisogno di un’alternativa globale, che sia anticapitalista e antiproduttivistica. Un nuovo progetto di società del tipo “ecosocialista”.
Qualche pista su cui riflettere per l’azione sindacale
Come si potrebbe tradurre quest’orientamento generale nell’azione sindacale? Non tocca a noi decidere, ma si possono sempre proporre piste su cui riflettere. Prima di descriverle, attiriamo l’attenzione sul fatto che queste piste devono inserirsi in un insieme più largo di richieste in reazione alla crisi: le attività bancarie e di assicurazione, per esempio.
1°) Incoraggiare una linea d’azione specifica al sindacato che preveda la presa di coscienza e l’educazione dei sostenitori della lotta contro il cambiamento climatico.
I media più importanti battono la tesi del cambiamento climatico dovuto all’ “attività umana”. La responsabilità del capitalismo è taciuta e ogni cittadino è chiamato a “fare sforzi” per ridurre le sue emissioni. Questa linea di condotta diffonde un sentimento di paura, di impotenza, di colpevolezza, di irrazionalismo, di misticismo e di individualismo. E favorisce i discorsi aziendali e governativi in favore della moderazione, dei sacrifici, ecc.
Siamo tutti coscienti dell’importanza di comportamenti individuali responsabili e, per darne l’esempio, sembra importante che il sindacalismo fornisca un’informazione alternativa di qualità, richiamando gli scienziati critici e costringendo gli esperti a una critica sociale. È essenziale mettere in evidenza le cause strutturali del cambiamento climatico e il legame tra crisi climatica e crisi capitalistica. Il sindacalismo dovrà, inoltre, aiutare i contrari al cambiamento climatico a partecipare al dibattito generale sul surriscaldamento climatico. Potrà contribuire, tra l’altro, a combattere l’individualismo e a ricostruire un’identità di classe.
2°) Guidare le masse lavoratrice verso la lotta contro il cambiamento climatico per via della pratica democratica del controllo operaio.
I lavoratori nelle aziende sono in prima linea per denunciare i numerosi sprechi della produzione capitalistica, come l'invecchiamento accelerato dei prodotti, la pubblicità, il mancato recupero delle immondizie, ecc. La lotta contro il cambiamento climatico può dare una nuova legittimità a queste denunce, e perciò all’azione del sindacato.
La formazione e la presa di coscienza specifica che abbiamo citato potrebbero materializzarsi in pratiche di controllo operaio nell'impresa (sull’energia, gli sprechi, la durata dei prodotti, le riserve, l’impatto della flessibilità e degli orari tagliati sulle emissioni, il trasporto, le vendite ed acquisti di diritti di emettere e di crediti di carbone, ecc). Implicando attivamente i lavoratori, queste pratiche potrebbero contribuire a fare nascere una “ecologia collettiva dei produttori”, complementare all’”ecologia individuale (quasi individualista) dei consumatori” – un’ “ecologia sindacale” alternativa all’”ecologia padronale” (per quanto quest’ultima esista). Popolarizzata dai media generali e sindacali, iniziative di controllo pertinenti potrebbero contribuire a respingere i discorsi della destra che tendono a rendere individualistici e colpevoli gli individui.
3°) Richiedere la creazione di un’impresa pubblica pura nell’ambito dell’isolamento e del rinnovo energetico degli edifici.
La Politica dei bonus al rinnovamento e all’isolamento esistente in Wallonia (Belgio) [25] è socialmente ingiusta ed ecologicamente inutile. Invocando la lotta per il clima, si tratta infatti di regalare bonus ai più ricchi, di offrire il mercato alle piccole e medie imprese e di riempire il libro di lavoro dei costruttori (che gonfiano il prezzo a seconda dei bonus offerti nei diversi paesi). L’impatto sulle emissioni è indifferente, la Wallonia utilizza il denaro della collettività per comprare crediti di carbone generati dai cosiddetti “progetti puliti” nei paesi del Sud.
Ci sarebbe proprio tanto da fare visto che la abitazioni della Wallonia sono tra le peggiori d’Europa in quanto all’isolamento termico. La situazione resterà cosi, visto che la richiesta (con possibilità di pagamento) per isolare resta inesistente. Richiedere un’impresa pubblica pura dal punto di vista dell’isolamento e del rinnovamento energetico permetterebbe al movimento sindacale di riscontrare diversi obiettivi: creazione di lavori di qualità, lotta seria contro il cambiamento climatico, riduzione delle fatture energetiche, miglioramento del comfort nelle abitazioni e gestione razionale del denaro pubblico.
4°) Richiedere una politica coerente di sviluppo dei trasporti pubblici e la gratuità di questi trasporti.
5°) Investire sull'azione internazionale dei lavoratori per imporre alle multinazionali degli obiettivi di riduzione delle emissioni a livello mondiale ed investimenti nella ricerca tecnologica.
Le politiche europee di scambi sui mercati del carbonio offrono alle multinazionali delle nuove opportunità di guadagni vendendo i diritti di emettere crediti sul mercato del carbonio, facendo nello stesso tempo pressione sui lavoratori e sulle organizzazioni sindacali. Questa situazione mette il sindacato in una posizione estremamente difficile.
Di fronte a questo problema, bisogna privilegiare una risposta sindacale internazionale a livelli di gruppo. Bisogna tendere a imporre promesse di riduzione ferme paese per paese, per via dei crediti non scambiabili, cosi come dei programmi di ricerca/sviluppo nell’ambito delle tecnologie a basso carbonio. Il controllo operaio sugli investimenti, sui crediti e sui diritti può essere un modo di avanzare in questa direzione. Tutt’altra strategia rischia di portare i lavoratori a unirsi con i “loro” capi per esigere crediti gratis, o a buon mercato, o tasse all’importo sui prodotti concorrenti di provenienza dai paesi in via di sviluppo. Questi metodi non possono che dividere i lavoratori e dare così corda al gioco del padronato internazionale.
6°) Difendere la formazione/rincoversione colletiva dei lavoratori dei settori minacciati dalla transizione verso una società sobria in carbonio, con mantenimento dello stipendio e dei diritti.
La transizione verso una società senza carbonio fossile implicherà inevitabilmente riduzioni nell’offerta di lavoro all’interno di certi settori inquinanti. I lavoratori di questi settori non devono pagare per questa situazione. Non è loro la responsabilità del fatto che i datori di lavoro hanno rinviato per troppi anni gli adattamenti indispensabili.
Questi lavoratori hanno diritto ad un lavoro e la loro riconversione non può essere lasciata alla buona cura delle strategie neoliberali della formazione e di attivazione delle persone disoccupate. Il movimento sindacale potrebbe essere inspirato dalle sue migliori esperienze, e chiedere una formazione / riconversione collettiva dei lavoratori, sotto controllo delle persone interessate, con il mantenimento dello stipendio e dei diritti fino all’ottenimento di un nuovo lavoro.
7°) Popolarizzare l’idea che l’energia è un bene comune dell’umanità, come l’acqua, e non può quindi essere lasciato in mano alle società private.
Le lobbies energetiche sono gli agenti più attivi del rallentamento della lotta per il salvataggio del clima. Sono anche fra i principali responsabili dell'offensiva contro il reddito ed il potenziale economico dei lavoratori. La liberalizzazione lascia loro ogni libertà riguardo al prezzo dell'elettricità e del gas. Nella maggior parte dei casi si è tradotta in una crescita delle fatture. La politica delle tariffe è allo stesso tempo antisociale e antiecologica visto che il costo del Kw è inversamente proporzionale al consumo.
L’urgenza di passare all’energia rinnovabile riducendo il consumo energetico globale da una parte, e gli interventi massivi del governo per salvare le banche dall’altra, creano un contesto favorevole per popolarizzare l’idea che l’energia è un bene comune dell’umanità. E che ogni essere umano ha diritto di avere le risorse energetiche necessarie alla soddisfazione dei suoi bisogni principali.
Si può concretizzare questa idea garantendo ad ogni famiglia il diritto ad una certa quota gratis - e non scambiabile - di elettricità, di gas, di olio per il riscaldamento, o di acqua. Questo di pari passo con delle tariffe progressive e dissuasive quando il consumo oltrepassa un certo livello. Lottare per una richiesta di questo tipo permetterebbe di dare corda alla richiesta di una tutela pubblica dell’energia, senza risarcimento né acquisizione.
8°) Rilanciare la lotta per una riduzione radicale del tempo di lavoro, senza perdita di reddito con impiego in compenso e con riduzione delle cadenze.
"Lavorare di più per guadagnare di più" è tipicamente uno slogan dei datori di lavoro, che rientra in una strategia di campagna pubblicitaria per ridurre i costi salariali e aumentare il tempo di lavoro sotto tutte le sue forme. È anche uno slogan produttivista che lega i lavoratori alla corsa sfrenata della macchina capitalistica senza mai sopprimere la disoccupazione.
La riduzione radicale del tempo di lavoro, senza perdita di salario, con impiego proporzionale e riduzione delle cadenze è la richiesta per eccellenza per unire la lotta sociale e la lotta ambientale. Facciamone la bandiera dell’ecologia sindacale, l'ecologia dei produttori che vogliono prendere il controllo della loro esistenza. Salvare il clima richiede una riduzione radicale delle emissioni di carbonio fossile. Sopprimere la disoccupazione necessita una riduzione radicale del tempo di lavoro. Nei due casi, il nemico è lo stesso: la logica capitalistica dell’accumulazione “che sfinisce le due uniche sorgenti di tutte le ricchezze, la terra e i lavoratori” (Marx.)
Daniel TANURO
Le 11/12/08[26]

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